MORRA, Enrico
de. – Nacque tra la fine del XII secolo e l’inizio del successivo da una nobile famiglia, nota fin dal tempo di Ruggero II d’Altavilla.
Il casato traeva nome dalla località omonima sull’Ofanto, nell’alta Isernia, che costituiva una baronia della contea di Conza, le cui origini, pur non documentate, tradizionalmente si facevano risalire a un condottiero goto al servizio del re Totila, nel VI secolo.
Dopo la riforma con la quale, nel 1221, l’imperatore Federico II unificò e centralizzò il tribunale di corte del Regno di Sicilia, con giudici tutti professionisti e un solo maestro giustiziere, Enrico fu nominato maestro giustiziere della Magna Curia; già ricopriva la carica nell’ottobre 1222, succedendo, ma non direttamente, al vescovo Richerio di Melfi, il quale era stato nominato nel marzo di quell’anno e al quale poco dopo era subentrato un altro maestro giustiziere, Lamberto.
È controverso il fatto se Enrico abbia ricevuto una formazione giuridica, come è stato supposto in base alla considerazione che essa gli sarebbe stata necessaria per l’esercizio del suo ufficio, benché fino ad allora i maestri giustizieri non fossero stati giuristi.
Per la fedeltà all’imperatore Federico, al cui servizio e alla cui corte furono anche altri della sua famiglia, e grazie alle sue capacità personali, Enrico ebbe un ruolo di primo piano, non limitato alla funzione giudicante. Il carattere indefinito delle competenze del suo ufficio, esercitate, almeno nei primi anni, per ragioni funzionali, anche separatamente dall’attività dei giudici della corte imperiale, ma in raccordo con essi, gli consentì di occuparsi, più in generale, del governo e dell’azione militare, nonché di diplomazia. Svolse tale ruolo non esclusivamente per il Regno di Sicilia, ma anche nell’ambito dell’Impero.
La sua attività, che le fonti sembrano testimoniare solo parzialmente e che la Chronicadi Riccardo di San Germano focalizza in particolare sui territori cassinesi, è complessivamente esemplare delle nuove modalità di governo di Federico II, il quale si valeva di laici provenienti dal Regno per l’amministrazione di tutti i suoi domini.
Mantenne per un ventennio, fino alla morte, il titolo di «magne imperialis curie magister iustitiarius», con il quale compare per la prima volta in un documento del 13 giugno 1223. L’imperatore gli aveva affidato l’esame del reclamo che i milites di Sorrento avevano presentato, anche a nome delle chiese e dei monasteri locali, contro i villani dei casali extra muros, i quali avevano ottenuto in precedenza la protezione da parte di Federico ed erano stati accolti a far parte del demanio regio. La delicata questione fu risolta nel settembre 1224 con il rinoscimento dei diritti ecclesiastici e feudali sui villani, ma con la mitigazione della loro soggezione.
Il medesimo indirizzo di moderazione trapela anche dalla sentenza pronunciata a Troia nel luglio 1225, a favore degli homines del casale di Mugilano, i quali furono protetti dalle imposizioni a cui erano sottoposti. Nel corso di questo procedimento che fu itinerante – avviato a Sulmona, era proseguito, infatti, a San Flaviano – sorse una particolare difficoltà tecnica, perché era andata perduta tra gli atti la litis contestatio, ed essa fu risolta da Enrico con buon senso pratico.
Si occupò inoltre di imporre nel 1223 alle terre del monastero di Montecassino il versamento di 300 once d’oro per le necessità della repressione contro i saraceni, che Federico stava conducendo in Sicilia. Da Sorrento, dove si trovava in giugno, Enrico andò a Salerno nel settembre 1223 e in novembre era in Terra di Lavoro. Mentre l’imperatore era altrove con la corte, svolse in suo nome attività sia giurisdizionale, sia amministrativa, applicando le assise di Capua e accogliendo i ricorsi fiscali di alcuni enti ecclesiastici (S. Maria de Luco e l’abbazia di Montecassino).
Precedentemente Federico, diretto in Sicilia, gli aveva affidato la custodia del figlio e della moglie del ribelle conte del Molise, Tommaso da Celano, e lo spopolamento e la distruzione, dopo la resa, di Celano stessa. Dopo l’abbattimento di Celano Enrico fece congregare gli abitanti dispersi con mogli e figli e nel maggio 1223 li fece deportare in Sicilia, da dove furono poi relegati nell’isola di Malta. Proseguì quindi nell’opera di repressione, prendendo possesso per ordine imperiale delle terre dei conti Ruggero de Aquila, Tommaso di Caserta, Giacomo di San Severino e del figlio del conte Giacomo di Tricarico, i quali dapprima furono imprigionati, poi liberati nel 1224 per intervento del pontefice Onorio III, ma con la consegna in ostaggio di figli e nipoti.
Lasciato a presidiare la parte settentrionale del Regno, con compiti assimilabili a quelli di un governatore, nel 1226 Enrico pubblicò a San Germano una serie di norme statutarie contro il gioco d’azzardo e l’apertura notturna delle taverne, e contro i bestemmiatori, unitamente a disposizioni tendenti più in generale ad assicurare ordine e tranquillità nelle ore della notte. Per il rispetto delle nuove norme, che riguardavano anche quanti erano stati banditi, istituì dei giurati e ne disciplinò la condotta. Concesse inoltre all’abate Stefano di Montecassino che ogni anno si tenesse mercato a San Germano. Per la carestia di frumento che aveva colpito la città di Roma, l’imperatore gli ordinò nel 1227 di provvedere a soddisfare la richiesta di soccorso, che gli aveva rivolto il pontefice.
Nel gennaio 1229, quando il Regno, durante l’assenza di Federico per la crociata, fu invaso dai clave signati Enrico provvide subito a dare le prime disposizioni difensive, ordinando la riparazione della sommità delle mura di San Germano e provvedendo ad armare adeguatamente gli uomini per resistere ai nemici. Ai primi di marzo assunse la difesa militare. Dapprima vietò all’esercito imperiale di uscire dalle mura per attaccare gli invasori, ma dopo la caduta del castello di Teramo uscì da San Germano col conte di Acerra, Tommaso d’Aquino. Il loro proposito di distruggere il castello di Piedimonte fu però impedito dall’abate del monastero di Montecassino, Landolfo. Ricondotto l’esercito a San Germano, dove confluirono tutte le forze imperiali, Enrico si lanciò coraggiosamente nel combattimento alla notizia dei primi scontri con l’esercito pontificio, ma le condizioni sfavorevoli lo costrinsero alla ritirata. La vittoria fu ottenuta il 17 marzo dalle truppe fedeli a Gregorio IX, alle quali si arrese l’abate cassinese, rifiutandosi però di consegnare ai vincitori Enrico, che poté così rifugiarsi a Capua, da dove continuò a dirigere la resistenza agli invasori, in attesa del ritorno da Gerusalemme dell’imperatore. Riunite le forze fedeli a Federico, devastò il territorio attorno a Benevento.
Fu presente alla cerimonia con la quale il 23 luglio 1230 fu sancita la riappacificazione imperiale con Gregorio IX e fu prestato il giuramento per il trattato di San Germano. Rimase a corte con i quattro giudici della Magna Curia, la cui presenza è ugualmente documentata (Simone ed Enrico di Tocco, Roffredo di San Germano e Pier Della Vigna), fino alla fine del 1231 e potrebbe quindi, come si è supposto, aver partecipato tra le due estati del 1230 e del 1231 ai lavori preparatori della codificazione federiciana, o forse averli diretti. Dopo avere disposto delle inquisitiones contro varie forme di criminalità ed essere intervenuto per ristabilire la legge nelle terre cassinesi, nel giugno 1232, insieme al conte di Acerra accolse l’imperatore Federico, di ritorno in Puglia dalla dieta di Cividale. A dicembre fu inviato con una ambasceria, della quale faceva parte anche Pier Della Vigna, per trattare col pontefice la questione dei diritti imperiali sui comuni lombardi. Tornò in Puglia dall’imperatore nel gennaio 1233.
Condusse, insieme con l’arcivescovo Lando di Messina, le delicate trattative per porre termine ad Antrodoco alla ribellione di Bertoldo, fratello di Rainaldo da Spoleto, il quale era da tempo tenuto prigioniero. Concluse con loro un accordo che ne prevedeva l’esilio dal Regno, con la proibizione per i vassalli di riprendere i contatti con essi. Nel gennaio 1234 poté pertanto disporre che gli antichi possessori riavessero i beni, dei quali erano stati privati dai ribelli, figli del duca Corrado di Spoleto.
Nel giugno 1235 a causa dell’assenza di Federico, tenne la reggenza del Regno di Sicilia, insieme con gli arcivescovi di Palermo e di Capua e con il conte Tommaso d’Aquino. Tornò a occuparsi, tra l’altro, dei problemi difensivi di San Germano. Intervenne riguardo al monastero di Montecassino, nell’agosto 1236, per imporre l’elezione dei rettori. Fu quindi chiamato con Tommaso d’Aquino in Lombardia dall’imperatore, ma arrivati in dicembre non vi trovarono più Federico e lo raggiunsero in Germania, dove rimasero fino al maggio 1237, quando ritornarono nel Regno. A settembre Enrico era di nuovo a San Germano, dove ancora si occupava delle opere difensive, ma ad ottobre l’imperatore lo richiamò accanto a sè in Lombardia. Tornò nel Regno nel gennaio 1238, per l’imposizione della colletta generale, con la quale furono armati i milites che poi condusse in Lombardia nel maggio successivo, insieme con Tommaso d’Aquino. Nuove norme gli affidarono, nel giugno 1239, il controllo sull’accesso dei sudditi alla Curia romana. Ad agosto fu nuovamente convocato in Lombardia dall’imperatore Federico.
Le costituzioni di Foggia del 1239-40 definirono più chiaramente le competenze della carica di gran giustiziere della Magna Curia ricoperta da Enrico e ne stabilirono l’obbligo di residenza stabile alla corte imperiale, affiancato da quattro giudici. La riforma del funzionamento della Gran Corte introdusse inoltre le nuove figure intermedie territoriali dei due capitanei et magistri iustitiarii, subordinati al gran giustiziere. La sua competenza giurisdizionale, compiutamente definita, si estendeva alla materia feudale, all’alto tradimento, ai processi riguardanti i membri della corte, ai giudizi d’appello, alle suppliche dei poveri, delle vedove e degli orfani, ai casi di denegata o rallentata giustizia, alle interpellanze dei giudici di grado inferiore e alla vigilanza su di essi.
Morì in Puglia, di morte naturale, verso il settembre 1242, essendo stato con l’imperatore a San Germano fino alla metà di agosto.
Nell’ufficio di maestro giustiziere si produsse una lunga vacanza, colmata soltanto nel 1246 con la nomina di un successore, Riccardo di Montenero. Enrico lasciò un figlio, Ruggero, al quale Carlo I d’Angiò, a seguito di una inquisitio svoltasi nell’anno indizionale 1276-77, restituì alcuni castelli, tra i quali quello di Morra. Un altro figlio fu Giacomo, podestà di Treviso nel 1239, la cui identificazione ottocentesca con Giacomino Pugliese, uno dei poeti di corte della scuola siciliana, è ormai considerata dubbia, o respinta.
Fonti e Bibl.: M. Camera, Annali delle Due Sicilie dall’origine e fondazione della monarchia fino a tutto il regno dell’augusto sovrano Carlo III di Borbone, I, Napoli 1841, p. 112; J.H.A. Huillard-Bréholles, Historia diplomatica Friderici secundi, II/1, Paris 1852, pp. 378-383, 496-498; J.F. Böhmer, Regesta Imperii, a cura di J. Ficker - E. Winkelmann - F. Wilhelm, Innsbruck 1881-1901, I, pp. 308 s., 318; G.A. Cesareo, Su le “Poesie volgari” del Petrarca, Rocca San Casciano 1898, p. 194; Riccardi de Sancto Germano Chronica, a cura di C.A. Garufi, in Rer. Ital. Script., VII/2, Bologna 1938, pp. 107-112, 141, 146, 153-156, 168, 175, 177, 181, 184, 190, 192 s., 195 s., 200, 202, 216; E. Kantorowicz, Federico II, imperatore, trad. it., Milano 1976, pp. 283, 286, 487; F. Martino, Federico II: il legislatore e gli interpreti, Milano 1988, p. 120; N. Kamp, Morra, Heinrich v., in Lexikon des Mittelalters, VI, München und Zürich 1993, p. 845; N. Kamp, Die deutsche Präsenz im Königreich Sizilien (1194-1266), in Die Staufer im Süden. Sizilien und das Reich, a cura di T. Kölzer, Sigmaringen 1996, pp. 173, 175; T. Kölzer, “Magna Imperialis Curia”, in Federico II e la Sicilia, a cura di P. Toubert e A. Paravicini Bagliani, Palermo 1998, pp. 54 s.; F. Moretti, La ragione del sorriso e del riso nel Medioevo, Bari 2001, p. 114; C. Friedl, Studien zur Beamtenschaft Kaiser Friedrichs II. im Königreich Sizilien (1220-1250), Wien 2005, pp. 16, 107, 153, 167, 181, 183 s., 224 s., 233, 461; H. Houben, E. di M., in Federico II. Enciclopedia Fridericiana, Roma 2005, p. 526; G. Andenna, Autonomie cittadine nel Mezzogiorno dai Normanni alla morte di Federico II, in Federico II nel Regno di Sicilia. Realtà locali e aspirazioni universali, Bari 2008, p. 89; I fascicoli della Cancelleria Angioina ricostruiti dagli archivisti napoletani, III, Napoli 2008, p. 242; W. Stürner, Federico II e l’apogeo dell’impero, trad. it., Roma 2009, pp. 398, 403, 425, 498, 546, 566; G. Andenna, Federico II e le città, in Un regno nell’impero. I caratteri originari del regno normanno nell’età sveva: persistenze e differenze (1194-1250), a cura di P. Cordasco e F. Violante, Bari 2010, p. 99.