CENNI, Enrico
Nacque il 20 nov. 1825 a Vallo della Lucania (Salerno) da Giovanni, sottointendente della provincia, e Marianna Bottino. Trasferito il padre, come intendente a Catanzaro, il giovane studiò nel collegio dove insegnava Luigi Settembrini. Laureatosi ventenne in giurisprudenza nell'università napoletana, egli si arruolò nella guardia nazionale nel 1848 e, in occasione di una riunione del corpo alle Fosse del Grano, conobbe Federico Persico, di cui doveva diventare amicissimo per l'intera vita, oltre che cognato in seguito al matrimonio con la sorella della moglie del C., Caterina Cavalcanti. Nel 1849, iniziatasi la repressione borbonica, Giovanni Cenni fu "messo al ritiro" per ragioni non note e probabilmente da far risalire a concezioni politiche dissonanti (il che giustificherebbe il richiamo in servizio, nel 1860, all'alba del troppo tardivo e cauto esperimento di liberalizzazione dell'anacronistico, condannato regime). Per il giovane avvocato le vicende connesse direttamente o indirettamente al 1848-49 segnarono l'occasione di un deciso impegno professionale e politico. Difese, infatti, l'amico che era stato mediatore della sua conoscenza con il Persico, cioè Federico Quercia (dopo il '60 provveditore agli studi) denunciato, insieme con lui, di detenere "documenti e libri proibiti" (ma non risulta che l'abitazione del C., a differenza di quella del Quercia incarcerato, avesse subito perquisizioni). Più impegnativa l'assistenza prestata al cognato Nicola De Luca (dopo il '60 prefetto del Regno), implicato nei fatti del 15 maggio e giudicato nei successivi processi conclusi con la condanna a morte del Settembrini. Entrato per concorso nell'avvocatura erariale, il 19 febbr. 1861 fu nominato giudice del tribunale civile di Napoli e il 6 apr. 1862 sostituto procuratore. Dopo pochi anni svolti in tale ruolo, tornò al contenzioso, per lasciare anche questo nel 1870, quando si dedicò con successo all'avvocattira che gli procurò, per non lunga stagione, agiatezza economica sfruttata per viaggi di studio in Francia, Inghilterra, Germania, Svezia, ecc.
Cattolico convinto, formatosi sui testi di Tommaso d'Aquino e di Gioberti, oltre che di Vico (suo vero "auttore"), il C. sentì profondamente i problemi che la nuova realtà dell'Italia unificata ponevano al paese, alla sua parte politica, alla sua fede religiosa. Del 1861 è l'operetta su Napoli e l'Italia, seguita, l'anno dopo, dal libro più ampio Delle presenti condizioni d'Italia e del suo riordinamento civile, editi entrambi a Napoli, in cui son presenti i tratti tipici del pensiero politico e della cultura cenniana.
Se il primo scritto affronta il problema della capitale del nuovo Stato. ponendo la candidatura di Napoli esaltata ottimisticamente quale "terza città d'Europa" per civiltà e cultura, il secondo dà il senso dell'autonomismo cattolico di cui il C. fu esponente di rilievo in Napoli e fuori. Richiamandosi al Gioberti e, suo tramite, ai principi ispiratori della "filosofia italiana" per scorgere da queste vette le vie risolutive dei problemi politici contingenti. il C., fedele a un topos della cultura tradizionalistica napoletana, esalta il carattere "sintetico", contrastante l'astrattismo generalizzante e generalizzatore della civiltà francese, del pensiero italiano, il quale non può e non deve (quando tutte "le famiglie" che compongono il gruppo etnico della penisola sono ormai affratellate) abdicare alla componente "morale" che ne ha assicurato e ne assicura il primato. Proprio perché sintetico, il genio italiano ha saputo riconoscere e sfruttare il ruolo storico del particolarismo (ed è evidente, qui come in seguito, il collegamento con motivi della storiografia neoguelfa), ostacolando l'illiberale unità esteriore e livellatrice. Quando il municipalismo è politicamente e culturalmente esaurito, dopo aver potenziato storicamente i diversi caratteri delle regioni italiane, l'unificazione non deve, a pena del suo successo e del conseguimento d'una effettiva stabilità politica, tradirne l'eredità. Farlo significherebbe cedere, contro l'unificazione, all'uniformità meccanicistica che è l'antiliberale prodotto della Francia rivoluzionaria e napoleonica. L'argomentazione, che chiama a soccorso il Gioberti del Primato e del Rinnovamento, trascorre dai principi ai problemi posti dall'unificazione politica e amministrativa specialmente al Mezzogiorno d'Italia. Accusato è il piemontesismo che trasforma l'unificazione in annessione e con "furia legisiatrice" distrugge quanto non gli si conformi. Una nuova "consorteria" e "camorra governativa" si sostituisce alla vecchia; l'abbandono troppo rapido della legge napoletana del 12 dic. 1816 a favore della legge Rattazzi del 1859 mira a distruggere la fisionomia autonoma del vecchio Regno; il protezionismo (pur non condiviso in teoria dal C.) è repentinamente abrogato da una legislazione doganale pericolosa per le manifatture del Sud prevalentemente agricolo, cosi esposto a un processo di degradazione economica a tutto vantaggio per le industrie del Nord; l'indiscriminata epurazione dell'esercito e della burocrazia borbonica sfocia nel malcontento e incrementa la reazione, di cui esempio drammatico è il brigantaggio, dal C. giustamente considerato fatto non solo politico, ma prima ancora ed essenzialmente sociale.
Contemporaneamente emerge chiara, già dai primi scritti, la differenza tra l'autonomismo del C. (e dei cattolici cui egli era vicino) e il borbonismo morale e politico d'altre posizioni antipiemontesi perché antiunitarie. La stessa discussione (comune a Persico e altri) sulla città capitale, se non è immemore di sensibilità per le antiche ambizioni di città egemoni, se è residuo di antiquate aspirazioni del ceto cittadino con conseguente indifferenza per i problemi delle campagne (di cui pure gli autonomisti intuivano l'importanza, quando, ad esempio, con sufficiente acutezza, individuavano l'origine socioeconomica del brigantaggio), è documento della convinta scelta unitaria da perfezionare con il riconoscimento delle autonomie amministrative e, più ancora, sociali e culturali delle diverse parti del paese.
Partecipe nel profondo delle vicende (anche politiche) dei cattolici napoletani e italiani negli anni '60, il C. aderì all'Accademia di religione e scienza patrocinata a Napoli dal cardinale Alfonso Capecelatro e da fra' Ludovico da Casoria, alla rivista La Carità fondata dallo stesso fra' Ludovico, alla bolognese Associazione cattolica italiana del 1866. Visse, con preoccupata passione, le vicissitudini del concilio ecumenico vaticano I e dell'anticoncilio napoletano voluto da Giuseppe Ricciardi. Anche alla luce di ciò sviluppò ulteriormente la sua filosofia politica negli importanti Studi sul diritto pubblico, Napoli 1870 (che presero spunto dalla "contesa tra il comune di Napoli ed i proprietari danneggiati per riparazioni delle vie pubbliche").
In essi il C. opera la distinzione tra l'idea "pagana" dello Stato fondata sulla "necessità" (nel senso che "lo Stato è il solo necessario" mentre "l'individuo non è che per lo Stato, e gli appartiene in tutto e per tutto: è solo necessario che lo Stato si conservi, il cittadino non ha ragione d'essere se non per ubbidire a questa necessità") e l'idea "cristiana" che, al contrario, rompe l'assolutezza della necessità pagana, riconoscendo priorità all'individuo, titolare di diritti non perché ricevuti dallo Stato, ma in quanto membro della società civile di origine divina Di conseguenza lo Stato pagano è "creatore", quello cristiano è "conservatore del diritto": il diritto dell'individuo consacrato dalla religione, che lo Stato non può manomettere "senza oltraggio della sua stessa ragion d'essere". Dentro questa cornice (ed è la ripresa approfondita della già vecchia opzione autonomistica) va distinto il municipium romano dal comune cristiano. Il primo, nato dal vincolo di soggezione a Roma, progressivamente perse l'originaria autonomia per assumere la fisionomia di "organo inferiore del sistema politico dell'impero"; il secondo è l'organo della "più larga comunanza civile" estesa non solo ai cives romani ma a quanti abitano la città. In sostanza, fuori ma non indipendentemente dalla evoluzione storica dell'uno e dell'altro istituto, il municipio ha carattere prevalentemente se non esclusivamente politico, il comune "democratico e cristiano", in quanto fondato sulle idee di libertà civile e di civile eguaglianza, suscitate, contro il sistema il quale, però, "oggi tende a mettersi sulla sella della scavalcata aristocrazia di sangue, superandola in burbanza e corruttela". Così si ricade dal comune nell'antidemocratico municipio romano. Alla borghesia "la parola cristiana comune, che esclude ogni principio di casta, puzza di troppa schietta democrazia", contro la quale si mira a ricostituire l'ordo, cioè il "predominio di una classe", che maneggia arbitrariamente l'azienda municipale a danno del resto della cittadinanza "dispregevole in tutto, ma di cui i borghesi mostrano pure di curare per uccellame i voti nelle elezioni". Una simile pericolosa scelta politica rende estraneo e ostile ai cittadini il comune, provocando, tra l'altro, il gran male dell'assenteismo elettorale, contro cui è inutile protestare, perché "le masse non si muovono per vani fantasmi o per astratti schematismi; se esse realmente non sentono di vivere nella vita dell'amministrazione del comune, è un sogno lo sperare di ottenere il loro concorso".
Son qui enunciati, con i principî che governarono l'azione del C. nel biennio in cui sedette nel Consiglio comunale di Napoli, prendendo posizione contro l'imposizione di nuove tasse (11 genn. 1873) e dell'imposta di famiglia (27 febbr. 1874), i tratti che caratterizzarono l'azione politica dell'avvocato napoletano negli anni successivi al '70, col ritorno di Roma all'Italia e il drammatico proporsi della questione romana. Al 1873 risale lo studio Della legittimità del principe, pubblicato sulla Rassegna nazionale, al quale seguirono, editi a Firenze nel 1874, gli Schiarimenti provocati dalle critiche mosse dalla Civiltà cattolica (del 20 giugno e 4 luglio 1874) e dalla Scuola cattolica (del 28 febbr. 1874). In esso, alla luce delle impostazioni del giusnaturalismo cattolico, il C. respinge insieme la concezione teocratica e quella democratica fondata sul suffragio universale, a favore di un sistema organicisticamente basato sullo sviluppo della, natura umana guidata dall'essenza divina, gli tenta così di fondere il diritto naturale cristiano con la ragione storica, interpretata sulle orme di un Vico sposato a Gioberti, e nettamente distinta dallo storicismo giuridico, per esempio di un Savigny, ritenuto rigorosamente immanentistico e perciò negatore d'ogni carattere di "assolutezza" per il diritto, così da cedere a un "concetto esclusivamente materiale e fenomenale, perché non consente al diritto altro valore che quello della sua manifestazione nella storia, la quale si muove per intimo impulso di fatale necessità", come il C. scrive nella prima, considerevole appendice agli Studi del '70, Sulla importanza e sul merito delle allegazioni degli avvocati napoletani, massime del sec. XVIII (Napoli 1870). Allo stesso interesse per la cosiddetta "scuola storica napoletana del diritto", di cui le citate pagine degli Studi sono espressione, si riporta lo studio Della mente e dell'animo di Roberto Savarese (Napoli 1875), dedicato al giurista autonomista e liberale di cui il C. si riconosceva allievo. Nel 1876 pubblicò anche, nella Rivista trimestrale, Della Chiesa e dello Stato (poi raccolto, con altre pagine già citate, negli Scritti vari di filosofia politica, Siena 1879), dove, schierandosi decisamente in senso conciliatorista in nome della formula "unione senza confusioni, distinzione senza separazione", riconosce sì una funzione primaria della Chiesa rispetto allo Stato, ma d'una Chiesa libera da preoccupazioni teocratiche, che ha abbandonato le pretese temporalistiche, che ha negato l'idea legittimistica quale fondamento del potere civile. Infatti, a suo giudizio, una Chiesa che sia il principio della libertà di coscienza e di pensiero, non intacca la sovranità dello Stato nel suo ordine, ma ne potenzia le finalità, in quanto il sentimento religioso è una forza sociale di non lieve momento da cui dipende il soddisfacimento dei mali sociali in virtù di giustificazioni che rinnovino le ragioni d'una ammodernata teodicea sociale.
Si chiarisce da tutto questo generoso, anche quando illuso lavorio intellettuale, la scelta politica del C., che partecipò ai tentativi di costituire il partito del "conservatori nazionali" (secondo la formula di Augusto Conti) o di "conservatori non clericali" (secondo preferiva dire Roberto Stuart), insomma l'organizzazione politica dei cattolici transigenti (perché contrari al perpetuarsi del potere temporale e consapevoli dell'importanza rivoluzionaria dello Stato liberale che si trattava di realizzare in Italia senza ingiustizie classiste e pesanti esclusioni). Al movimento e alle sue iniziative il C. aderì senza riserve. Ebbe frequenti contatti con Paolo Campello della Spina, venuto a. Napoli nel 1873 delegato dell'Unione romana nata nel 1871; favorì la nascita (1879) del Conservatore diretto da R. Stuart; parteggiò per l'associazione (costituita a Firenze nel '79 con in vista la partecipazione alle elezioni politiche) dei conservatori nazionali, aniniati dalle novità che sembravano ispirate dal nuovo pontefice Leone XIII e ben presto deluse. Esauritosi (tra il 1881-82), a vantaggio della consolidata e protetta Opera dei congressi (nata nel 1874-75 per impulso dell'intransigentismo avviato a monopolizzare l'iniziativa politica del movimento cattolico), lo sforzo dei conservatori nazionali (per la cui chiarificazione ideologica il C. aveva scritto, nel 1873", nella Rivista universale gli Studi sulla parte conservativa), si dedicò quasi esclusivamente alla professione (costrettovi da sopravvenute difficoltà economiche familiari) e agli studi. Del 1879 è lo scritto su S. Benedetto e la civiltà, del 1880 quello Della filosofia antica considerata come preparazione del cristianesimo, entrambi editi a Napoli, e due conferenze pronunciate al Circolo filologico (cui il C. aderì), promosso da Francesco De Sanctis che lo inaugurò, nel novembre 1877, con l'importante conferenza su L'Ideale, tema tra i centrali dell'ultima filosofia del grande storico. L'argomento dei due discorsi del C., che sarebbe di singolare interesse confrontare analiticamente con le fondamentali, coeve pagine desanctisiane, è L'ideale considerato come sostanza della storia, del diritto, della politica e della scienza e L'ideale considerato come sostanza dell'arte. Al 1881 risale il libro su Il divorzio considerato come contro natura e antigiuridico, pubblicato a Firenze e lo scritto Delle odierne accuse contro il cattolicesimo, pubblicato nella rivista La Sapienza. Del 1884 sono le Considerazioni sull'Italia in occasione del traforo del Gottardo, edito a Firenze, titolo sotto cui nessuno si aspetterebbe una analisi critica della filosofia moderna e vichiana in specie. Infine, rispettivamente del 1891 e del 1896 sono gli ultimi due lavori di impegno, il ponderoso Della libertà, pubblicato a Napoli, e il più polemico Dell'unico rimedio ai mali del nostro tempo, Napoli 1896, entrambi elaborati tra crescenti difficoltà e strazianti dolori familiari (la morte della moglie nel 1890, e quella, forse per suicidio, dell'unico figlio).
Le Considerazioni del 1884 e La libertà del 1891 definiscono la filosofia del C., esempio notevole, anche a giudizio del Croce, dell'interpretazione cattolica di Vico. Esperto della recezione napoletana dell'eclettismo francese e critico di esso sia quanto al metodo sia quanto al sistema, il C. contrappone il Vico neoplatonico dei punti metafisici al soggettivismo moderno nato dal razionalismo cartesiano.
Per lui, giobertianamente, soggettivismo equivale, in filosofia, a individualismo nel senso di negazione d'ogni valore oggettivo; significa, in politica, contrattualismo e sovranità popolare, accentramento e. dispotismo nel nome di un'autorità generale o singola che si ritiene legibus soluta. La ripresa, però, di tesi della cultura cattolica della Restaurazione (cui era stato sensibile anche il primo Gioberti) non converge col già rifiutato legittimismo o coll'intuizionitmo metafisico (e basti ricordare le critiche a J. de Maistre). Piuttosto è utilizzazione delle critiche cattoliche al principio d'individualità sfociato nel soggettivismo e al liberalismo sfociato nella democrazia della sovranità popolare. Individuati lucidamente (quale che sia la profondità del discorso) in Spinoza, Hobbes e Rousseau i momenti salienti della crisi della libertà e dell'autorità nel mondo moderno, il C. si appella, con autonomo, inconsapevole eclettismo, al verum-certum vichiano inteso come sintesi della volontà umana storicamente finita e della ragione delle cose colte nel loro ordine eterno. Da essa scaturisce il dovere che, "retta intenzione della volontà rispondente alla natura" operante "secondo l'ordine delle cose appreso dall'intelletto", non è estraneo al soggetto, non nasce dall'impero del più forte, ma è libertà in quanto ragione capace di eleggere nella molteplicità delle cose particolari quelle atte al conseguimento del bene. La conservazione del bene nel suum (quale strumento della difesa di se stessi) implica, nel rapporto intersoggettivo, il diritto e il suo principio il cui esercizio è vichianamente garantito dall'autorità che discende "dalla ragione moderatrice del dominio, dalla libertà, dalla tutela". Cosìche anche l'autorità si coniuga con la libertà se vuole essere (come deve) realissima società civile, conservatrice e non creatrice dei diritti individuali. "Stato e individuo sono tutt'uno" è la conclusione del C. idealizzante nel cristianesimo rinnovato dalla riforma della Chiesa, sollevata dalle compromissioni col potere temporale, la sintesi delle esigenze contrapposte del pensiero moderno, del cui segreto Vico fu insieme critico acuto e interprete geniale. "Fede e ragione, autorità e libertà, diritto del singolo e diritto della società, sovranità e libertà politica e civile, ordine ed eguaglianza, conservazione e progresso, unità della umana specie e varietà delle nazioni e degli Stati rappresentano la sistole e la diastole della vita dell'uman genere".
Colpito, nel 1900, da paralisi, il C. trascinò la vita sempre più travagliata (fu costretto, per ragioni economiche, a separarsi dagli amatissimi libri, in buona parte acquistati dai suoi amici Emanuele Gianturco e Benedetto Croce), fino al 27 luglio 1903 quando morì a Napoli, pronunciando, in un supremo attimo di lucidità, le parole evangeliche: "Est, est; non, non", comando della semplicità e sincerità cui aveva ispirato la sua vita di studioso, di politico, di credente.
Fonti e Bibl.: Gli scritti del C. non hanno trovato ediz. diverse da quelle originarie, citate nel testo. Alcune lettere al Capponi, al Tommaseo e al Vieusseux sonoconservate, nei rispettivi carteggi, nella Bibl. nazionale di Firenze (alcune di esse pubbl. nell'appendice di Tessitore, 1962). Per notizie biogr. si vedano le commemor. di L. M. Billia, in Atti dell'Acc. di scienze, lett. e arti degli Agiati in Rovereto, s. 2, IX (1903), 3-4, pp. 1-11; e di F. Persico, in Atti dell'Accad. Pontaniana, s.2, XXXVII (1908), pp. 1-7; nonché il libro di P. Lopez, E. C. e i cattolici napoletani dopo l'Unità, Roma 1962. Per l'interpretazione critica si vedano i capitoli dedicati al C. dai libri di F. Tessitore, Aspetti del pensiero neoguelfo napoletano dopo il Sessanta, Napoli 1962, pp. 43, 45, 55 s., 79-107, 128-31 e, passim, e di G. De Crescenzo, La fortuna di Vincenzo Gioberti nel Mezzogiorno d'Italia, Brescia 1964, passim. Alcune pagine sono state dedicate al C. da B. Croce, La filosofia di G. Batt. Vico, Bari 1953, pp. 329, 346; Id., La storia del Regno di Napoli, Bari 1958, pp. 1-6, 28-42; cfr., inoltre A. Anzilotti, Neoguelfi e auton. a Napoli dopo il '60, in Movim. e contrasti per l'Unità d'Italia, Bari 1930, pp. 167-91; L. Russo, F. De Sanctis e la cultura napol. nella seconda metà del sec. XIX, Bari 1943, pp. 194, 201 s.; B. Croce-F. Nicolini, Bibl. vichiana, Napoli 1947-48, pp. 288, 294, 681 ss., 685; F. Tessitore, La cultura filos. tra due rivol., in Storia di Napoli, IX. Napoli 1972, pp. 270 s.