DAVILA, Enrico Caterino
Ultimogenito d'Antonio di Francesco e di Fiorenza di Giacomo Sinclitico, nacque a Piove di Sacco (prov. di Padova) il 30 ott. 1576.
Di ricca e influente nobiltà di Cipro, i genitori del D. ne erano precipitosamente fuggiti con la numerosa figliolanza, alla caduta dell'isola - ove a Nicosia rimaneva ormai inane un bastione eretto con il contributo di Antonio e detto, appuntg, Davila - in mano turca. Ben nove fratelli precedono, infatti, il D., tre femmine e sei maschi. Privato d'una rendita cospicua (più di 12.000 scudi d'entrata a suo dire che si gonfiano a 20.000 nelle lamentele della moglie quando rimarrà vedova), con il solo orgoglio residuo del titolo di gran contestabile del regno di Cipro concesso a suo nonno Pietro (un avventuriero spagnolo sbarcato néll'isola nel 1464 al seguito di Giacomo Lusignano) da Caterina Cornaro "in perpetuo di primogenito in primogenito", il padre del D. s'era ingegnato a reclamare sovvegni e ad implorare di persona uffici per sé e sistemazioni, per i figli. Nel 1571 è a Madrid, nel 1572 è a Parigi, nel 1573 è a Roma, nel 1579 di nuovo a Parigi percettore d'una pensione di 300 scudi.
Quanto al D., viene affidato ancor fanciullo alla sorella Margherita, già dama d'onore di Caterina de' Medici e quindi poi brillantemente accasata con Jean Hémèry signore di Villars, presso la cui dimora egli viene adeguatamente istruito si da diventare paggio di Caterina alla quale dodicenne indirizza un sonetto invocante "vita novella" per "l'oppressa famiglia". Tutt'altro che sorda, in effetti, la regina già servita, come capitano delle sue guardie, da un fratello del D., Alvise.
Questi, che nel 1588 è luogotenente regio a Corbeil, combatterà agli ordini di Charles de Lorraine duca di Mayenne contro il Navarra passando poi, nel 1592, alle dipendenze di Vincenzo Gonzaga che seguirà anche in Ungheria e militando quindi, a partire dal 1603, stabilmente - e con una progressiva carriera che lo vede via via governatore delle milizie a Sebenico Marano Cattaro, governatore delle cernide e soprintendente delle milizie in Istria, governatore a Legnago e Peschiera, governatore e soprintendente a tutte le milizie a Cefalonia, governatore a Zara - al soldo della Serenissima per circa un quarantennio pressoché sino alla morte, certo anteriore al 1645.
Imitandone l'esempio il D. pure diventa uomo d'armi e combatte - così dirà di sé esagerando, ché include nel computo pure il servizio di paggio - per quattordici anni "continui" nei conflitti di "Francia et di Fiandra" agli ordini, sono ancora sue parole, dei "maggiori prencipi et capitani dell'età nostra". Indossate le armi appena adolescente sotto il comando di Henri de Bourbon Vendóme duca di Montpensier, partecipa diciottenne all'assedio d'Honfleur sfiorato dalla morte quando un "tiro di falconetto" gli ridurrà "sbranato sotto" il cavallo. Durante l'assedio di Laon, ove figura tra quanti "smontarono" col conte di Thorigny, rischia, per una dolorosa storta al piede, di restare "stroppiato" per sempre. Nel 1597 il D. è all'assedio d'Amiens colpitovi, nel'corso di una sortita della cavalleria spagnola, da una "punta di partigiana sopra il ginocchio".
Ma non c'è solo la guerra coi suoi continui pericoli. Negli anni francesi il D. è anche spettatore di salienti momenti politici, scrutatore di volti di protagonisti, osservatore attento di gesti e comportamenti. Quasi presaga di dover costituire il repertorio di fatti grossi e minuti per il futuro storico, la sua memoria registra il più possibile, immagazzina ingorda, s'imprime prensile. Nell'ottobre del 1588 il D. è accosto al re quando pronuncia, nell'assemblea di Blois, un vibrante discorso. Frequentatore del domenicano Stefano Lusignano, cipriota di nascita e un po' storico teologo e genealogista, il D. sente - nel convento parigino che lo ospita - i frati burlarsi di Jacques Clement da essi considerato un po' tocco e mezzo scemo; eppure sta covando la terribile determinazione d'assassinare Enrico III. Tra i personaggi avvicinati dal D. spiccano jacques Davy Du Perron, Arnauld d'Ossat, lo sventurato Barnabé Brisson, Scévole de Saint-Marthe. Avrebbe, sempre a suo dire, conosciuto pure Montaigne giudicandolo "più soldato che letterato", più "tinto" di cultura che autenticamente colto. Un'impressione limitativa - con tutta probabilità costruita a posteriori dopo la lettura dei non congeniali Essais -, che il D. ribadirà oltre venti anni dopo anteponendo alla saggezza amarognola del francese uno scrittarello sulle passioni dell'amico Flavio Querengo. Comunque sia, il D. vive in Francia un'eccezionale esperienza che poi - magari ritoccata ed enfatizzata - segnerà tutta la sua successiva esistenza: quella convulsa e sussultante dell'ultima fase del travaglio cinquecentesco della Corona tra l'assassinio d'Enrico III e l'editto di Nantes.
Sballottato giovinetto in eventi più grandi di lui, coinvolto adolescente negli aspri combattimenti scatenati dalla rabbiosa resistenza ispano-guisarda alla soluzione borbonica, quando finalinente tempi così insanguinati sembrano placarsi, egli è sconvolto, ansioso di serenità epperò incapace di afferrarla tanto è turbato e scosso nell'intimo. Irredimibilmente atroce la storia; meglio fuggirla elevandosi al di sopra della "calamità" che essa produce, distaccandosi dai "vizi" di cui la terra è satura. Il D. immagina che nel sonno gli appaia l'ombra d'un amico scomparso per trasportarlo sino all'ottavo cielo. Di qui a immira. estatico il moto circolare dei cieli sottostanti e scorge lontanissimo il "picciol punto" della terra, mentre l'amico indica nella pratica sistematica della virtù la via sboccante nel "trionfo del paradiso". L'ombra sfuma e il D. si desta. Ma, "per ammaestramento altrui" e per rafforzamento dei propri propositi, fissa, nella prosa del Theatro del mondo, composto attorno al 1598-99, la perentoria indicazione della visione: la comprensione dell'universo - l'amico gli ha ben fatto intendere i "cieli", il loro "ordine", i "quattro elementi", i "corpi" - quale creazione divina mirabilmente armoniosa non può che indurre all'esercizio scrupoloso dei "precetti della vita cristiana". Soccorrevole l'ombra gli ha offerto l'"infallibile tramontana" cui aggrapparsi come ancora di salvataggio nello smarrimento provocato dallo spettacolo di violenza e sopraffazione, d'inganno e raggiro che per poco non l'ha travolto. Ci si salva dall'orrore se determinati alla vita virtuosa, se la mente aperta alla verità rispetta la maestà divina.
C'è nell'operetta una spruzzatura di cultura monastica, forse derivante al D. dai colloqui con Lusignano e, più ancora, dall'influenza del fratello Pietro fattosi minorita nel 1583 col nome di Ferdinando. Questi - che sarà vescovo di Rettimo e di Ascoli Satriano e morrà nel 1620 lasciando fama di valente predicatore (e restano di lui delle Conciones, stampate a Venezia nel 1591, quaresimali e su figure di santi nonché, pubblicata a Napoli nel 1599, l'Oratio fimebre ivi pronunciata per la morte di Filippo II) - era stato incaricato, nel 1588 circa, d'emendare l'edizione parigina del 1571 del Theatrum vitae humanae... di Licostene e dei figliastro di questo Zwinger. Supponibile il D. ne sia stato un minimo suggestionato se non altro nella scelta del titolo. Fatto sta che il suo giovanile Theatro..., frutto d'un disagio reale, di stanchezza e di disgusto, suona ammanierato e scolastico nel suo proporre valori eterni e certezze consolatorie quali sicuro viatico redentore. Né appare più convincente un sonetto nel quale si volge, non senza artificio, al "provvidente superno almo fattore". Entrambi, lo scritto più complesso e i pochi versi, attestano volontà di scrittura. Ma sono come dei sondaggi condotti un po' a freddo nel solco devoto, donde il D. poi si ritrae perché, tutto sommato, poco portato a zeli ortodossi e. soprattutto, perché ben lungi dal tentare alcun effettivo ritiro dal mondo. Altra sarà la direzione che, vivendo e scrivendo, vorrà imboccare.
Nel frattempo la Francia, in via di riconsolidamento grazie al recupero della capacità direttiva regia, non abbisogna di troppi reduci dai campi di battaglia e - per alleggerire i costi - procede a massicci licenziamenti. Anche il D. con la pace, si trova senza impiego. Rientra perciò, nel 1599, nel Veneto, ove il padre, da tempo vaneggiante, si butta a capofitto dall'alto della casa, morendo, pentito e col conforto religioso, un paio d'ore dopo. Il D. risulta risiedere a Venezia con la madre vedova con intermittenti puntate a Mantova dove abita la sorella Cornelia ammogliata al nobile Giacomo Calandra, mentre più prolungati sono i soggiorni a Padova, dove ha casa il fratello Pellegrino sposato con Laura Sozomeno. Qui frequenta il dotto cipriota - forse suo parente per parte di madre - Alessandro Sinclitico e Gianvincenzo Pinelli, amico di quello Iacopo Corbinelli che suo padre aveva conosciuto a Parigi; né è casuale il sonetto di supplica del D. a Caterina ci sia giunto trascritto da un codice pinelliano mentre un altro codice miscellaneo dello stesso contiene sue lettere "intorno all'herba herniola". Sempre a Padova il D. stringe, altresì, amicizia con Flavio Querengo. Nella primavera inoltrata del 1606 il D. è a Parma dove Antonio Querengo, zio di Flavio, è incaricato dal duca Ranuccio di rievocare le guerre di Fiandra si che vi primeggi la figura del padre Alessandro.
È proprio quest'uomo colto e acuto nonché restio a scrivere e incline, piuttosto, a disperdere la sua intelligenza in una conversazione spiritosa e scintillante, dal D. conosciuto a Padova, a suggerirgli forse l'opportunità d'una sistemazione parmense e - quel che più importa - a stimolarlo all'impegno storiografico. In fin dei conti Guido Bentivoglio, d'Antonio Querengo assiduo durante il suo secondo soggiorno patavino - ragionevole supporre che il futuro cardinale abbia pure incontrato, nel corso di questo il D. - dei marzo-luglio 1600, riconosce d'aver tratto da questa sorta di Livio redivivo (così definirà Querengo il concittadino Giacomo Filippo Tommasini), peraltro tutto risolto nell'oralità, "frutto grandissimo" per la stesura dei suoi "parti istorici".
Da Parma, inoltre, il D. invia, nel giugno del 1606, tre lettere ove denuncia la sfrenata propaganda, palese e occulta, dei gesuiti contro la Repubblica colpita dall'interdetto, e precisa d'aver energicamente protestato col locale inquisitore contro il ciarliero gesuita vicentino Framesco Valmarana. A dire di questo Venezia è ormai "capitata in heresia". Merito del D. pure l'aver indotto, assieme al conte Marcantonio Chiericati, l'inquisitore a redarguire aspramente con "un solennissimo ribuffo" un domenicano bresciano gareggiante coi gesuiti nel vituperare Venezia. Fedele alla Serenissima il D. appare convinto difensore del suo buon nome di contro agli "strepiti... impertinenti et... esorbitanti che da noi altri sudditi, per Dio, non si possono tolerare" e, insieme, decisamente schierato con le sue ragioni nella contesa con il pontefice. Quanto al ventilato impiego farnesiano, ogni possibilità vien meno dopo il clamoroso duello, del 9 agosto, con Tommaso Stigliani. Trovatisi a passeggiare nottetempo per sfuggire alla calura opprimente, la latente antipatia reciproca esasperata dall'afa era esplosa incontenibile dopo una provocazione verbale del D.; malconci entrambi i duellanti - trafitto "sopra la mammella" Stigliani, colpito alla gamba il D. -, debbono peraltro sfuggire alle ire del duca. E il D., temporaneamente azzoppato, ripara celermente in territorio veneto, ove ha l'opportunità d'offrire i suoi servigi alla Repubblica proprio quando, timorosa d'un congiunto attacco ispano-pontificio, per rafforzarsi adeguatamente sta arruolando soldati e ufficiali.
Il D. viene, infatti, assunto il 27 ottobre con lo stipendio annuo di 300 ducati e l'obbligo di presentare una "compagnia" di 300 "fanti forestieri". Per sua sfortuna, però, la smobilitazione conseguente alla composizione, nell'aprile 1607, del contrasto con Roma, induce molti soldati appena arruolati a dileguarsi senza restituire il denaro loro anticipato; e così la "compagnia" allestita dal D., già completa nella "rassegna" a Venezia, una volta stanziata a Rovigo non risulta più tale e parte della somma sborsata a vuoto viene addebitata al Davila. A nulla valgono le sue sincere proteste ché il Senato, il 18 sett. 1607, sulla base d'una dettagliata "nota dell'officio de' rasonati ducali", lo ritiene "debitore" - e il pagamento avverrà con trattenute annue di 150 ducati sullo stipendio - di quasi 2.000 ducati. E il D., che pur ribadisce essere il "debito non... mio, ma del soldato licentiato", deve accettare la pesante sanzione, che, peraltro, non danneggia la sua carriera. Tant'è che, il 10 dic. 1609, viene assegnato al "governo" di Tine, ove si reca con 50 fanti forestieri; è qui che, con tutta probabilità, si sposa con Orsola o Orsetta degli Ascuffi - una famiglia della nobiltà locale - che gli darà quattro maschi e cinque femmine. Riconfermato, il 21 ott. 1615, con lo stipendio elevato a 400 ducati (cui s'aggiungeranno, per decreto senatorio del 14 genn. 1618, i 150 annui del vitalizio che "abbino a continuar", lui morto, "in... due suoi figli maschi"), il 7 dicembre il Senato lo destina a Pieve di Cadore dove rimane - mentre la guerra in corso con gli Arci ducali è un'eco lontana restando la zona affidata al D. in una assoluta "pace" che solo qualche voce priva di consistenza ogni tanto scalfisce un minimo - sino all'aprile del 1618, titolare della sovrintendenza (estesa, il 9 apr. 1616, anche alle "militie" del Bellunese e del Feltrino) sulle "cernide" e sulle "genti pagate" cadorine.
"Grandissima laude" si deve al D., a detta del provveditore Francesco Morosini con il quale poi concorda il successore Marcantonio Morosini, per "l'industria" professata nell'addestramento di truppe improvvisate e lo "zelo" dispiegato nell'ispezionare e sorvegliare. Scrupoloso e competente, dunque, come attestano pure due sue lettere, del 28 dic. 1615 e del 3 genn. 1616, ove lamenta il degrado del castello con le mura cadenti, il "recinto" senza terrapieno, la "torre caduta" e, nel contempo, propone un piano valido ad una duratura ed efficace salvaguardia non solo del centro, Pieve di Cadore, ma di "tutto quanto il paese" sbarrabile con appostamenti difensivi stabili nel Comelico, ad Auronzo, a San Vito. Sintomatica, da parte del D. - le cui giornate sono, peraltro, soprattutto assorbite dal defatigante compito di "disciplinar... nelle fontioni militari et maneggio dell'armi" le refrattarie "ordinanze" indigene -, la totale sfiducia nella potenzialità bellica della "gente" del luogo: è "inesperta nell'armi..., rozza nelle fattioni et tutta intenta per la sua povertà al sostentamento di casa sua". Anche se lettore di Machiavelli, e ermeticamente impermeabile rispetto al mito delle "armi proprie". Per difendere il Cadore più che i valligiani recalcitranti occorrerebbero - caldeggia - almeno 600 fanti forestieri "pagati" e, inoltre, "qualche mediocre numero di cavalleria". Fautore della milizia professionale, allora, il D. che, inoltre, si consola degli urlacci quotidiani per sgrezzare le cernide leggendo, nell'originale, Platone, Aristotele, Virgilio, Galeno; Basilio di Cesarea e da questi trascorrendo ad autori moderni come Bodin, Pierre Mathieu, Minuccio Minucci. Dell'Historia degli u scocchi di quest'ultimo discorre "inter deambulandum con Alessandro Vecellio, un erudito locale: universam perlegi" annuncia, in merito alla stessa, a Luigi Lollino, il dottissimo vescovo di Belluno, al quale il D. soprattutto si rivolge. Di frequente si reca a trovarlo per corroborare con la viva voce un'intensa "collocutio" intellettuale che, comunque, si svolge, anche a distanza, in elegante latino, per lettera e che così prosegue pure quando il D. parte definitivamente. Grande l'affetto tra i due e mutua la più sincera ammirazione: "decus Italiae" il prelato agli occhi del D., caro alle Muse e a Marte per Lollino e la sua cerchia il D., eccellente "literarum et armorum laude", delizia di Bellona e Pallade. A Lollino il D. invia, nell'aprile 1617,, un suo elogio in latino del giurista bassanese Antonio Gardellini, prozio d'Antonio Querengo; è uno scrittarello formalmente decoroso epperò genericissimo che il vescovo giudica, senza molto sbilanciarsi, "luculentuni", mentre gradisce moltissimo la lettera d'accompagnamento "teres ac festiva... Venerisque illius transmarinae plena, tuae patriae indigenac". Sempre in latino il D., tra il settembre del 1617 e il marzo del 1618, discute epistolarmente con il medico primario di Belluno Ippolito Obizzi di vari argomenti - perché mai Plinio il Giovane se ne andava, dopo il bagno, tutto nudo sotto il sole? è giusto infliggere ai soldati pene corporali? è lecito uccidere l'adultera? come mai l'"usus balnei", così generalizzato nell'antichità, è pressoché scomparso nell'età moderna? - che diventano pretesto per sfoggio di conoscenze puntellate da richiami e citazioni. Non basta il buon latino del D. a far lievitare la saputa convenzionalità della trattazione, nella quale, al'più, s'intravede, talvoltai qualche guizzo di mordente intelligenza.
Governatore di Cattaro dalla fine del 1618 e quivi ben presto fisicamente malandato, come attestano le "fedi" dei medici curanti - il D. è afflitto da "dolori colici", da emicranie e da altri disturbi provocati dal clima e dalla "crudità" dell'acqua; molestato da "catarri vis" egli ironizza con Lollino sul toponimo che, con spostamento d'accento, andrebbe pronunciato "non Catharum, sed catarrum" -, deve, tuttavia, rimanervi sino all'estate del 1621. 'Stabilitosi, quindi, temporaneamente a Padova - donde, nella seconda metà di settembre, s'allontana per qualche giorno perché, incluso nel seguito d'Alvise Vallaresso, ambasciatore straordinario a Firenze -, il D. finalmente può placarvi l'esigenza di "frequentes... congressus" con dotti e autorevoli amici tra i quali primeggiano i patrizi Ottaviano Bon e Donato Morosini. Nominato, il 4 febbr. 1622, governatore di Asola e riconfermato, il 2 dicembre, nel servizio di Venezia con l'aumento dello stipendio a 600 ducati, breve è la sua permanenza nella piazzaforte lombarda ché, il 26 genn. 1623, il Senato l'invia come governatore a Zara.
Qui rimane - con un intervallo di circa quattro mesi di licenza per ragioni di salute che trascorre tra Venezia e Padova - sino, al massimo, alla metà del 1628, adempiendo con crescente fatica ai propri compiti per i malanni che affliggono il suo corpo non senza riflessi sul suo stato d'animo che finisce con l'intristirsi ed incupirsi. Il D. stesso lo riconosce, in una lettera a Lollino del 20 ag. 1624, dicendo d'esser "venuto in queste contrade abitate dal disagio" ove, "tra continui travagli della sanità e delle cose pubbliche", gli s'è "agghiacciato... il sangue" e s'è "interamente mutato di genio et di natura". Non negativa però la permanenza zaratina ché soprattutto nel corso di questa si situa l'intensa concentrazione ricostruttiva del D. per rievocare - integrando con letture e studi e ulteriori informazioni le lacune delle franose stratificazioni della memoria (che poi vale solo per l'ultima parte, non per niente la più circostanziata, della narrazione) -, in un'opera di possente respiro, il "corso intero delle guerre civili" di Francia. La lontana esperienza della fanciullezza e dell'adolescenia è ripensata alla luce della comprensione insita nell'"età già consistente matura.". Un impegno portato avanti con sistematicità e costanza sì che, al più tardi alla fine del 1627, può dirsi ultimato; il 27 novembre, infatti, ringraziando per lettera Baldassarre Bonifacio d'averlo accostato, quale "gallicae historiae scriptor", ad autori, come Ammiano Marcellino, Senofonte, Cesare, Guicciardini, tutti rievocanti fatti da loro operati o visti, il D. si augura che "finito il tempo" del governatorato a Zara, l'"historia", frutto di tante "vigilie", esca, stampata, "alla luce dei mondo".
Promosso, l'8 nov. 1628, "sargente maggiore dell'ordinanze" oltre il Mincio, il D. si. prodiga - come riconosce il Senato - "con pontuale accuratezza" in un incessante succedersi d'ispezioni e rassegne a Crema, Palazzolo, Martinengo, Monte Diano di Pressana, Valeggio, Edolo, Asola, Romano, Orzinuovi, Pontevico, Salò, in Valcamonica, in Valtrompia, a Castelgiuffrè, a Montechiari e, in particolar modo, a Brescia.
Il 13 ott. 1629 il D. scrive al nipote Francesco -, figlio, questi, di suo fratello Pellegrino, servirà anch'egli Venezia e sarà governatore a Cattaro e a Legnago - come abbia dovuto "travagliare... fuor di misura" avendo "fatti" 8.000 "nuovi," fanti e "regolati e fatti marchiare tutti i vecchi", occupandosi, inoltre della sorveglianza ai confini e delle "strade" per gli spostamenti di truppe. Non esagera: il 5 novembre il provveditor generale oltre il Mincio Zaccaria Sagredo sottolinea - in una lettera al Senato, che, il 2 febbr. 1630, decretando la sua "ricondotta", gli eleva lo stipendio a 900 ducati - quanto la sua attività sia "sommamente profittevole" essendo egli "benemerito soggetto che si affatica incessantemente". Logorante quest'assiduo adoperarsi per la sua salute: nell'agosto del 1630, in una Brescia atterrita dal dilagare dell'epidemia e frastornata dalle notizie sulla guerra di successione di Mantova, il D. cade ammalato e viene ricoverato nel monastero di S. Pietro. Di qui scrive, febbricitante, il 9 settembre al nipote Francesco con ferma rassegnazione come sia "attorniato dalla peste", ché quasi tutti i frati giacciono "con la giandussa", ed è "appestata" pressoché "tutta la servitù". Attende con dignità la sua ora. "Parmi impossibile il scapularla se Iddio no' fa miracoli... Vostra Signoria - chiede al nipote - preghi per me".
Esce, intanto, a Venezia, pei tipi di Tommaso Baglioni, in edizione scorretta ché il D. non ha certo potuto occuparsi delle bozze, dedicata - da Brescia - in data 10 febbr. 1630 all'influente patrizio Domenico Molin, la sua attesa Storia delle guerre civili di Francia. La figura del D. cosi si completa: non è solo il valente uomo d'armi di cui pochi intimi sanno il ragguardevole bagaglio culturale e apprezzano la capacità d'incorniciare con pertinenti citazioni desunte da una vasta gamma di letture i singoli atteggiamenti, nei quali da un lato quel che di statuario ch'è insito in studiate movenze neostoiche s'umanizza mescolandosi a toni di cristiana accettazione, dall'altro il corroborante magistero degli antichi vale ad imprimere un'espressione alta e sostenuta a momenti di sofferenza altrimenti prossimi a scadere in incontrollata querimonia, in effusione piagnucolosa. Ora il D. è, per gli amici ed un vasto pubblico, l'autore d'un'opera definitiva compatta massiccia duratura col tempo sempre più .presente nelle biblioteche: degli uomini colti dell'intera Europa.
Dopo una protratta cqnvalescenza il D., in aprile o, al più tardi, ai primi di maggio, del 1631 si sposta a Padova e ne parte coi suoi - la moglie e sei dei nove figli - e la servitù alla volta di Crema, dove è stato nominato governatore.
Il 25 maggio è a San Michele di Campagna, nel Veronese, nella cui locanda si sistema esigendo, nel contempo, "due carri" per le "bagaglie". Una perentoria richiesta che, anziché essere prontamente eseguita, si scontra con l'"inobedientia" del veronese. Giacomo Turco che avrebbe dovuto provvedere; e questi è spalleggiato dallo stesso "giurato" della "villa". Probabile il D., sia, allora, trasceso ingiuriando entrambi e, pure, tutta la gente del luogo. Certo gli animi sono inaspriti, l'atmosfera è tesa. La sera del 26 maggio Turco con "25 armati" entra schiamazzando nella stanza della locanda dove il D. con i suoi sta cenando. Intollerabile per il D. tale provocatoria presenza: protesta inveisce urla, pretende siano cacciati. Ne scaturisce un alterco che si trasforma in tragica rissa, nella quale Turco e i compagni hanno dalla loro pure l'oste, il che fa sospettare ci siano state anche responsabilità da parte del D. (ha offeso troppo ?) e dei suoi servi (che abbiano anch'essi schiamazzato, strepitato, provocato?).
Sanguinoso il bilancio; ucciso da una archibugiata il prete pedagogo dei figli del D., ammazzato con una pistolettata il D. da Turco, a sua volta colpito a morte da Giannantonio, il primogenito del D., su di lui avventatosi furibondo; trucidato il locandiere da servi del Davila. Appesi, l'indomani, a monito i cadaveri del locandiere e di Turco per ordine dei rettori di Verona. Nessun dubbio, in loro, nell'attribuzione d'ogni responsabilità ai due e nell'incolpare di connivenza la moglie dell'oste, il "giurato" e "tal Pistore" presso il quale, prima d'irrompere nella locanda, si sarebbero dati convegno Turco e i suoi fautori. Monocordi le carte archivistiche non sono sfiorate dal sospetto sia ipotizzabile qualcosa a carico dello sventurato D. e del suo seguito. Possibile tutto il paese si sia schierato contro di lui senza un minimo di provocazione da parte sua? "Sgratiatamente ucciso da un rustico" il D., "virtus" incarnata stroncata da "indigna... manus". Così sintetizzano i letterati del tempo. Non si può pretendere percepiscano la ribollente tensione città-campagna latente nell'episodio, lo ravvisino quale scoppio d'odio dei "villici" nei confronti dell'autorità rappresentata dal Davila.
"Ense stiloque potens, infelix concidit illo, sed stetit hoc felix perpetuumque manet", compendia un distico di Baldassarre Bonifacio. La Storia, dunque, quale lascito perenne del D., quale monumento insopprimibile della sua sopravvivenza. Dopo uno stringatissimo excursus sulla più che millenaria vicenda che va dall'elezione di Faramondo alla morte di Enrico II di Valois, irizia la narrazione vera e propria che, in 15 libri (vistoso, però, lo squilibrio distributivo interno: i primi 6 libri vanno dal 1560 al 1578, condensati sbrigativamente alla fine del sesto gli anni 1578-84, dettagliati e diffusi i libri successivi sul periodo che il D. ha avuto "comodità d'osservare con l'occhio proprio"), si distende dall'esplodere della rivalità tra i Guisa e i Borbone alla pubblicazione, il 7 giugno 1598, della o pace" con la Spagna. Sostenuta e calibrata la forma, controllato lo scandito fluire dell'esposizione, sempre chiara spesso solenne e talora aulicamente ridondante. Aliena da venetismi la lingua e, semmai, con accentuazioni toscaneggianti. Ricco e accurato il lessico e sovente - designando armi bianche e da fuoco e i colpi da loro inferti, armature e parti di queste, esplosivi, fortificazioni, composizione d'eserciti e loro gerarchie funzioni specialità e disposizioni - tecnico, specialistico ipercaratterizzante. Scontata la buona fede - si tratti di fanatismo cattolico o di pertinacia ereticale ugonotta - del grosso dei contendenti che restano ottuse comparse d'un dramma di cui ignorano la dinamica, massa di manovra inferocita d'una terribile lotta per il potere nella quale gli autentici protagonisti, i capi, gli "eminenti" usano la religione a mo' di "velame" "pretesto" "colore" per "coprire interessi", occultare ambizioni, giustificare "inimicizie", mascherare disegni, nobilitare progetti. Sono guerre civili, non di religione. Teatro di menzogna e tradimento la politica, nella quale la brama d'affermazione si muove, come insegna Machiavelli, dapprima circospetta e volpinamente astuta per poi scatenarsi leoninamente aggressiva. Lealtà e fedeltà sono le virtù dei gregari, mentre la simulazione e la dissimulazione valgono pei o grandi", sono loro indispensabili. Sono un'"arte" in cui, non a caso, primeggiano Caterina, suo figlio Enrico III, Enrico di Navarra. Ma al di là delle schermaglie menzognere a corte e del cozzo armato in campo aperto - prevalgono quelle nella prima parte dell'opera, più spazio ha questo nella seconda 7, il leitmotiv della Storia è costituito dal contorto itinerario salvifico del degradato e vilipeso istituto monarchico. Questo, inalgrado tutto, sbocca nella tenuta dei regno già slabbrato sbrecciato calpestato, s'attesta nella riscattata pienezza del comando centrale. Un esito felice cui presiede la volontà celeste. L'"occulta forza del fato" si trasforma - favorendo Enrico di Borbone - in "provvidenza di Dio". Eccezionali la sua abilità simulatoria, la sua perizia bellica, ma non bastevoli. Occorre la "grazia di Dio" che l'assiste perché la sua sorte s'identifica con la salvezza della monarchia, perché la sua vittoria significa redenzione per la Francia tutta.
Eleganza stilistica, ricchezza informativa, ampiezza prospettica e, insieme, rigore monografico, ferrea coerenza d'interpretazione (riduttiva l'ottica tutto appiattente nell'esclusiva dimensione politica ma anche, proprio per questo, produttiva di un tessuto narrativo compatto, senza smagliature) nonché il tema stesso - realmente cruciale e fondante per la comprensione della storia moderna successiva così segnata dall'imperioso riaffacciarsi nell'agone internazionale della Corona di Francia - sono tutti fattori che, separati o concomitanti, valgono a spiegare l'immensa fortuna editoriale dell'opera. Oltre una trentina le ristampe - a Venezia, a Parigi, a Lione, a Rouen, a Milano, a Padova, a Siena, a Firenze - che si concludono con quella livornese del 1836, da arricchire, rispetto agli elenchi già fattine, con un'edizione veneziana del 1703 e una londinese del 1801-02. Cinque le edizioni, poi, della versione francese seicentesca di Jean Baudoin e due di quella successiva settecentesca di Pierre-jean Grosloy per i primi due libri e di Edme Mallet per i successivi; ben cinque le edizioni della traduzione spagnola di Basilio Varen de Soto. Non basta: c'è l'edizione della versione latina di Pier Francesco Cornazzani, ci sono le tre edizioni della traduzione inglese di William Aylesbury e Charles Cotterell seguite da una edizione della successiva traduzione di Ellis Farneworth. C'è infine la versione in tedesco del primo '800 di Bernhard Reith attestata da un'edizione, mentre rimane manoscritta una timida traduzione in veneziano dei primi due libri. Variamente giudicata - chi ne apprezza lo stile "copioso" chi la trova sciatta, chi l'accusa di scarsa attendibilità, chi s'appaga della sua "natural leggiadria", chi s'annoia perché prolissa, chi si sente stimolato perché penetrante, chi la reputa profonda chi superfleiale - e letta, stralciata, antologizzata, rovistaa per allestire lessici e dizionari, usata anche come fonte per spunti narrativi (vi avrebbero attinto, ad esempio, Madame de Lafayette per la Princesse de Clèves e la Princesse de Montpensier, nonché Giovanni Paolo Marana per l'episodio, inserito nel suo L'esploratore turco, d'Anna di Montmorency), adoperata per riflessioni e comparazioni (è il caso dei Discourses on D. dell'allora. vicepresidente dei neonati Stati Uniti John Adams), la Storia ha un'indubbia vitalità. Questa s'afferma nel '600, quando Baldassarre Bonifacio l'accosta a quella polibiana e l'antepone a quel.la guicciardiniana, per protendersi, lungo tutto il '700, sino all'800 quando Lorenzo Da Ponte l'esamina in una conferenza a Nev, York, quando Leopardi l'addita a modello di classico periodare, quando De Sanctis la legge giovinetto avidamente "come un romanzo". Vivissimo, quando compare, l'interesse: Baglioni la ristampa sollecito nel 1634 - ma la riedizione va a ruba se Pier Maria Boero scrive, nel 1637, a Peiresc che non se ne trova copia -, 1638, 1642, 1650. È del 1679 l'inventario d'un libraio veneziano, nel quale risultano presenti ben cinquantaquattro esemplari della Storia, laddove solo due sono le copie di quella guicciardiniana. Sterminata la folla dei lettori del D. in circa due secoli e, pure, qualificata: vi figurano i Dupuy, Montecuccoli, Naudé, Richelieu, Chateaubriand, Giannone, Montesquieu, Voltaire, Gravina, Maffei, Tiraboschi, Apostolo Zeno, Marco Foscarini, Francesco d'Andrea, Tommaseo, Swift, Gibbon, Adam Smith. Tanti consensi non possono essere casuali: attestano un'intrinseca validità. E Leopold von Ranke, che la studia a fondo, la riterrà fondamentale, di gran lunga superiore alla sua fonte principale, l'Historia, cioè, di J.-A. de Thou.
Fonti e Bibl.: Agilmente presentato il D. da G. Spini, E. C. D. e la Storia delle guerre... di Francia", in Studi... in on. di E. Rota, a cura di P. Vaccari-P. F. Palumbo, Roma 1958, pp. 173-204, è stato quindi minuziosamente esaminato in G. Benzoni, La fortuna, la vita, l'opera di E. C. D., in Studi venez., XVI (1974), pp. 279-442. Alle abbondanti indicazioni archivistico-bibliografiche di quest'ultimo si aggiungono: Arch. di Stato di Venezia, Consultori in iure, 541, copia di tre lettere dei D.; Ibid., Giudici di Petizion. Inventari, 381/46, inv. 85, e 417/82, inv. 22 (il 23 apr. 1721 presso il libraio Michele Hertz esistono trentatré copie della Storia); Venezia, Bibl. d. Civico Museo Correr, Mis. Gradenigo Dolfin, 172, cc. 121 s.; Relaz. dei rettori..., a cura di A. Tagliaferri, V, Milano 1976, pp. 24, 218 (per il fratello Alvise); XI, ibid. 1978. p. 308; L. Lollino, Carminum libri..., Venetiis 1655, p. 239; P. Pasini, Historia del Cavalier Perduto, Venezia 1644, p. 412; G. Leti, Il cerimoniale..., IV, Amsterdam 1685, pp. 769 s.; R. Lassels, An Italian Voyage., I, London 1698, p. 5; Lettres et mémoires... au chancelier Séguier - a cura di R. Mousnier. Paris 1964, p. 181; Madame de Lafavette, Romans et nouvelles, a cura di E. Magne, Paris 1939, pp. XVII, Ms nn. 15 e 17, 416 n. 27; G. B. Vico, Opere, a cura di F. Nicolini, Milano-Napoli 1953, p. 195 n. 2; C. de Montesquieu, Lo spirito delle leggi, a cura di S. Cotta, II, Torino 1952, p. 305; M. Foscarini, Due lettere ... 1 in Arch. stor. ital., V (1846), pp. 215, 220; Voltaire, Correspondance, a cura di T. Bestermann, XLV, Genève 1959, p. 164; F. Galiani, Opere, a cura di F. Diaz-L. Guerci. Milano-Napoli 1975, p. 94 n.; M. Foscarini, Necessità della storia..., a cura di L. Ricaldone, Milano 1983, pp. 03, 209; G. Volpi, La libreria de' Volpi e la stamp. cominiana.... Padova 1756, p. 57; V. Sandi, Saggio... storia civile... di Venezia..., VI, Venezia 1756, p. 751; G. 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Guerra, Diurnali, a cura di G. de Montemayor, Napoli 1981, p. 47; 'Scriptores ordinis minorum..., a cura di L Wadding, Romae 1906, p. 79; Davide da Portogruaro, Storia dei capp. ven., II, Venezia-Mestre 1957. p. 611; R. Villari, La rivolta antispagnola a Napoli..., Bari 1967, p. 65 n. 86; G. Fedalto, M. Margunio.- Brescia 1967, pp. 59 s., 66, 107, 299; Gli stemmi dello Studio di Padova, a cura di L. Rossetti, Trieste 1983, p. 243 n. 1210 (ove figura come "Petrus cyprius"). Per il nipote del D. il Pierantonio Davila, governatore di Rettimo nel 1641 cfr. G. Gerola, Monumenti ven. ... di Creta, IV, Venezia 1932, p. 116; per il figlio dei D., il Giovanni Stefano destinatario di una lettera di C. Dottori, cfr. Lettere famigliari, Padova 1695, p. 40.