BOCCELLA (Buccella, Buccelli), Enrico
Nacque a Lucca tra la fine del sec. XV e l'inizio del XVI da Ambrogio, dottore di legge. Seguendo l'esempio paterno e, in genere, la tradizione familiare, si dedicò agli studi giuridici. Membro del Consiglio generale fin dal 1524, colse i frutti dell'ascesa politica della famiglia e partecipò alla vita pubblica lucchese da una posizione che fu, presto, di netto prestigio. Imparentato coi Guidiccioni e coi Burlamacchi e cliente dei Buonvisi, le sue private fortune non registrarono alcuna scossa in seguito al fallito moto degli Straccioni; anzi, dovendosi mandare ad effetto il disegno, concepito fin dal 1527, di una generale revisione e riforma delle leggi e degli statuti lucchesi, fu chiamato a far parte del collegio dei giuristi, impiegato a questo scopo. Nel 1539 il B. fu incaricato di prendere accordi per la stampa del testo latino e di quello volgare dei nuovi statuti col tipografo - il bolognese Faelli - e di provvedere alla revisione generale di tutto il materiale raccolto.
Della presenza del Faelli a Lucca il B. approfittò anche per dare alle stampe alcune sue opere: il 1º marzo 1539 usciva la Parastasis id est per testes approbatio de amore, et timore Dei, e il 1º aprile le altre due opere: In Constantini Imp. donationem, iuris utriusque praxis e il Dialogus cui titulus est religio. Queste opere, in cui non si esaurisce l'attività del B. come scrittore, ma che sono le uniche da lui pubblicate, sono dedicate rispettivamente a Vittoria Colonna, Ercole Gonzaga e Giovanni Guidiccioni. Fu molto probabilmente attraverso quest'ultimo che il B. conobbe gli altri due personaggi, con i quali non si ha notizia di rapporti diretti.
La Parastasis vuol dimostrare, sulla base di testi scritturali, patristici, scolastici e canonistici, che l'"amor" e il "timor Dei" costituiscono i fondamenti della vita religiosa; ma la polemica contro "nuove dottrine", ai cui tratti vagamente luterani il B. aggiunge quello, per lui fondamentale, di abolire il "timor Dei" e di insistere esclusivamente sul tema dell'"amor", chiarisce il senso della proposta fatta nella Parastasis, favorevole alla restaurazione di una religiosità severa, di cui devono farsi modello principi e sacerdoti ed i cui precetti devono essere insegnati nelle scuole al posto di "erudita illa poetarum, oratorumque deprompta fontibus" (c. A IVr). La polemica antiumanistica e la diffidenza del giurista verso poeti, retori e filosofi tornano anche nel trattato sulla donazione costantiniana, dove, oltre al Valla, sono presi di mira i suoi precedessori (Dante) e seguaci (Ulrico von Hutten, Lutero) e viene sostenuta contro di essi la validità della donazione medesima e l'idea che, fra i compiti dell'imperatore, sia fondamentale quello di restaurare e proteggere la Chiesa contro ribelli ed eretici. I doveri dell'imperatore in questo senso assumono un particolare rilievo nel dialogo Religio, dove l'elogio di Carlo V va al di là dell'ossequio di prammatica quale è ovvio attendersi da un cittadino lucchese in questi anni; nel quadro complessivo di una decadenza e degradazione generale della società cristiana per cui la "religio" è divenuta oggetto degli attacchi non più, come in antico, di potenti principi e filosofi illustri, ma di "vilissimos pedagogos, ac vulgares pauperrimos" (c. A VIIIr), le speranze di restaurazione vanno, per il B., a Paolo III e Carlo V. Nell'elogio per il papa Farnese e per l'imperatore il clientelismo lucchese suona come corda secondaria rispetto ad un più generale programma di impronta nettamente conservatrice ed aristocratica che si affida appunto ai due luminari della cristianità. Questo programma, esposto in uno stile della cui ineleganza l'autore stesso era ben cosciente, si spiega in tutte le sue implicazioni per la vita interna della Repubblica lucchese nell'esame delle cause che avevano provocato, a giudizio del B., la rivolta degli Straccioni.
Nel Dialogus il B. parla come cliente di Martino Buonvisi, che tanta parte aveva avuto nella repressione della rivolta. Questo non gli impedisce, nel tracciare la cronaca degli avvenimenti, di considerare le esigenze degli artigiani colpiti dalle misure restrittive del Senato "pia... in se, impia tamen ob tumultuariam petitionem" (c. C VIIv), e di addossare i propositi sediziosi ed eversivi della "libertà" lucchese solo ad una minoranza esigua, come fa del resto il suo concittadino Giovanni Guidiccioni nel Discorso tradizionalmente contrapposto all'opuscolo del Boccella. Assente e ormai distaccato dalla realtà lucchese, nella quale il B. era invece ben radicato, il Guidiccioni attacca l'"avarizia" dei nobili ed il loro comportamento successivo alla fallimentare conclusione del moto (vista peraltro come insperato dono di Dio), in nome di una cristiana pietà verso i poveri ed il volgo, al quale tuttavia non concede che il diritto di essere governato con "pietosa e sollecita cura". Nel Dialogus l'esposizione dei fatti si chiude con la fine del moto ed il conseguente dileguarsi del rischio di una tirannia popolare, che anche il B. considera dovuto ad un provvidenziale intervento divino; da questo punto, da cui si dipartiva l'appassionata accusa del Guidiccioni contro le repressioni attuate dai vincitori, il B., evadendo con un silenzio significativo la domanda "num urbs Luca ex omni parte nunc tuta se habet" (c. D Vr), presenta le condizioni a patto delle quali sarà possibile garantire in futuro la sicurezza e stabilità della Repubblica. Le proposte da lui apertamente avanzate e difese a questo proposito sono assai ampie: giusta applicazione delle leggi senza differenze tra ricchi e poveri, popolani e patrizi, uguale possibilità per tutti di accedere alle dignità ed agli onori e, per i primati, l'obbligo di osservare i precetti di una cristiana pietà nel somministrare alla plebe i mezzi per vivere. Peraltro, sempre nel tono da lui assunto di distacco e di imparzialità tra le parti in causa, il B. non trascura di invitare il popolo a tener chiaramente presenti i confini che dividono e distinguono "ignobilitatem a nobilitate" (c. D IXr), definendo con ciò esattamente i limiti di queste sue richieste e mostrando con quale delle forze in presenza egli si identifichi. Del resto, che per il B. una paterna e severa amministrazione della vita pubblica da parte degli ottimati si identificasse con la sostanza stessa della "religio" risultava chiaramente già dal suo appello "Decemviris ac civibus omnibus Lucensibus" con cui si chiudeva l'edizione ufficiale degli statuti lucchesi del 1539 (Lucensis civitatis statuta, Lucae 1539, c. CCCXXXIXr). Questo "coriaceo conservatorismo" (Dionisotti) si riflette anche sulle considerazioni di fondo del Dialogus: nella generale decadenza dei tempi, discordie, calamità ed eresie nascono nel mondo - e quindi anche in Lucca, in "sacello illo religionis" - dal venir meno di questa "religio", che si definisce essenzialmente nel suo stretto rapporto con la "sapientia" e nella contrapposizione con la volgare "superstitio". Il compito della restaurazione spetta a Paolo III e a Carlo V, in cui si incarna l'ultima delle antiche virtù ormai scomparse, la "maiestas".
Caratteristico dell'atteggiamento del B. fu anche il suo impegno controversistico antiprotestante, ampio ma privo di intemperanze polemiche, teso anzi alla ricerca di un tipo particolare di conciliazione. Ci resta, manoscritta, una sua opera (Lutheranarum conclusionum, in Augustae Vindelicorum comitiis, per Serenissimum Carolum Quintum Imperatorem semper Augustum habitis, Impugnatio, Lucca, Biblioteca Governativa, mss. 2287-2288), nella cui dedica viene ricordato però un altro scritto non pervenutoci, intitolato Sacrum universale totius Ecclesiae Concilium; in esso il B. afferma di aver esaminato "multas Lutheranorum libellorum assertiones, ac conclusiones" dimostrandone il carattere erroneo, scismatico ed ereticale (ms. 2288, ff. 5v, 10r). Avendo in seguito conosciuto il testo della Confessio Augustana, il B. dichiara di volerne impugnare le "conclusiones" perché il suo silenzio non faccia credere che le approvi. Si tratta però di una "fraterna correctio", come più volte ripete, con la quale, pur dimostrando l'erroneità delle affermazioni di Lutero e dei suoi seguaci, si mostrerà il modo in cui, se si avrà una resipiscenza dei luterani, il concilio universale convocato allo scopo potrà armonizzare le loro dottrine con quelle cattoliche (ibid., ff. 10v-11r).
I diciassette capitoli dell'opera affrontano partitamente le asserzioni luterane, mostrandone il carattere erroneo ed ereticale, secondo la linea controversistica che vedeva in Lutero l'erede delle eresie medievali, preceduto ed accompagnato in questo da quel "tantus homo" di Erasmo (f. 14v). Ciò che colpisce il B. in Lutero è soprattutto il suo smisurato orgoglio, manifestato nel rifiutare di sottoporsi a qualsiasi autorità; "volo liber esse", questo è il suo motto (f. 3r). Le sue dottrine invece non hanno niente che non possa, se ben interpretato, essere ricondotto a quelle tradizionali della Chiesa, e se un giorno i luterani vorranno tornare all'unità, allora si vedrà in che modo "nec erroneae erunt conclusiones, schismaticae, aut hereticae, sed cum ipsa romana ecclesia, ipsiusque ecclesiae sanctorum patrum auctoritate concordando, catholicae, religiosae, christianissimaeque efficientur, reddenturque" (ff. 10v 11r). L'opera stessa del B. vuol essere un contributo in questa direzione, poiché ciascuno dei capitoli in cui si articola si divide in due parti, di cui la prima è dedicata alla confutazione delle asserzioni luterane, mentre la seconda, introdotta con una formula pressocché stereotipa ("Lutheranorum opinio, seu conclusio, procedere posset et cum ecclesia catholica concordari"), mostra appunto come, "subtiliter considerando", si possono interpretare quelle stesse asserzioni in senso non difforme dall'ortodossia cattolica. Quel che risulta definito da un procedimento di questo genere è, naturalmente, - oltre ad un programma di restaurazione dell'unità religiosa legato al concilio ed all'azione dell'imperatore - lo stesso tipo di religiosità del B., che è tema ampiamente illustrato nelle sue opere a stampa. Coerente con le indicazioni che in quelle si potevano cogliere è anche la posizione del B. in questo scritto; ciò che definisce la vera "religio" è, ancora una volta, la linea discriminante nei confronti della "superstitio". In genere le interpretazioni da lui proposte per far "procedere" in senso cattolico le posizioni luterane non sono che espedienti più o meno sottili ispirati dal desiderio di ritorno all'unità religiosa e non da un proposito di riesaminare i contenuti tradizionali della fede alla luce di nuove esigenze. Ma nei capitoli "De voto" (ff. 94-126r) e "De invocatione Sanctorum", non a caso il più ampio (ibid., ff. 210v-266v), la condanna della superstizione e della idolatria manifesta, agli occhi del B., di certe pratiche religiose gli impone un discorso più approfondito e lo porta a concessioni non superficiali nei confronti di Erasmo e Lutero.
Comunque, se anche in questa esigenza di una "religione scevra di ogni credulità" (Dionisotti) il B. poteva concepire un incontro con le posizioni dei luterani - e le formule più esplicite in questo senso furono in seguito cancellate sul manoscritto - resta fuori d'ogni dubbio la sua volontà di mantenersi fedele alla Chiesa cattolica, al cui giudizio sottopose tutto quanto nella sua opera avesse bisogno di correzione (ms. 2287, ff. 287r-289r). Inoltre, la sua avversione al culto idolatrico delle immagini e delle reliquie dei santi non lo portava a rifiutare ogni manifestazione del culto dei santi, come mostra il fatto che egli stesso inviò alla nipote, suor Giovanna Burlamacchi, una Vita della beata Cristiana da lui tradotta in volgare.
Si ignorano le successive vicende della vita del Boccella.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Lucca, Riformagioni 32, ff. 268v-269r; 39, f. 216rv; Ibid., Anziani 150, ff. 44r, 45r, 89r; Ibid., Notarile 2389, ff. 963r-969v; G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, II, 3, Brescia 1762, p. 2260; C. Lucchesini, Della storia letteraria del Ducato lucchese, in Mem. e doc. per servire all'istoria del ducato di Lucca, IX, Lucca 1825, pp. 233 s., 240; X, ibid., 1831, pp. 445 s.; G. Mazzatinti, Inv. dei manoscritti delle biblioteche d'Italia, XI, Forlì 1902, p. 224; C. Dionisotti, in G. Guidiccioni, Orazione ai nobili di Lucca, Roma 1945, pp. 60-84; G. Antonazzi, L. Valla e la donazione di Costantino nel sec. XV con un testo inedito di A. Cortesi, in Riv. di storia della Chiesa in Italia, IV (1950), pp. 186-234 (vedi p. 222 n); M. Berengo, Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento, Torino 1965, pp. 41, 88, 259 s., 270.