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BINDI, Enrico

di Piero Treves - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 10 (1968)
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BINDI, Enrico

Piero Treves

Nato da Atto e da Marianna Masi a Canapale di Pistoia il 29 sett. 1812, fu a nove anni dalla famiglia, non troppo disagiata, ma contadina e desiderosa di migliorare la condizione culturale e sociale del figlio, iscritto al seminario di Pistoia, dove ebbe maestro il dotto canonico G. Silvestri. Nel 1833 gli fu affidato l'insegnamento di grammatica nel seminario, quindi, ordinato sacerdote (1835), passò alla cattedra di umanità e infine nel 1840 successe al Silvestri in quella di retorica.

Nella Toscana, dove ancor fermentavano i germi savonaroliani e la tradizione giansenistica di Scipione de' Ricci, e perdurava lo spirito antigesuitico e riformatore, il dotto clero di Pistoia e di Prato, che si stringeva intorno al Silvestri e al Cicognini, rivendicando altresì contro i gesuiti lo studio di Dante e contro i retrogradi le propugnate riforme epigrafiche e "populistiche" di Pietro Giordani, era storicamente illuminato e consapevole della necessità e del bisogno di aperture straniere (soprattutto francesi, e solo più tardi germaniche, mediatore da Firenze in specie G. P. Vieusseux). Il loro filosofo e il loro politico fu, quindi, per gli uomini del Cicognini e per il B., Vincenzo Gioberti (acclamato durante il pellegrinaggio toscano del giugno-luglio 1848): e nella scia del Gioberti e, prima di lui, del Tommaseo, avvertirono la problematica storica del rapporto tra classico e moderno, nonché fra classico e cristiano.

Fondata da G. Benini in Prato, per i tipi dell'Aldina, una collana di classici latini (e poi, con meno impegno e successo, greci), commentati a uso della "studiosa gioventù", il B. ebbe per incarico del Silvestri il compito di presentare successivamente i Commentari di Cesare, tutto Orazio e una scelta di Terenzio e di Plauto, che lo tennero variamente occupato dal 1844 (prima edizione del Cesare in tre volumi) al 1853 (la prima edizione delle Commedie).

Caratteristico il proemio all'Orazio, ch'egli compose in forma di spigliata e scanzonata "autobiografia" del Venosino, dando libero corso a certa vena un poco becera e plebea che spiacque sempre al Guasti, ma deliziò il Giusti. Questi, anzi, in una delle sue ultime lettere confessava al B. d'invidiargli lo scritto e di sentirsene sollecitato a dettare - o a richiedere al B. di dettare - nuovi componimenti di analoga vena. Memorabile, d'altronde, e fra le maggiori scritture filologiche italiane dell'Ottocento, il Discorso sulla vita e sulle opere di C. Giulio Cesare, premesso ai Commentari con una spontaneità e un impegno che il B. stesso riconobbe di poi irripetibili. Coraggiosamente immune da qualsivoglia idolatria politica e letteraria per il suo autore, egli ne integrava il racconto con una copiosa appendice di passi da storici e poeti romani posteriori, quasi a delineare una storia critica (in nuce) della tradizione dei Commentari. Negò, differenziandosi dagli illuministi e razionalisti di scuola lombarda (Romagnosi-Cattaneo), che per la stessa liquidazione della nobilitas senatoria, per l'estensione del dominio romano all'intero Occidente, Cesare avesse consapevolmente esercitato una funzione d'incivilimento e di progresso (la quale avvenne, secondo il B., non ad opera, ma in conseguenza quasi inavvertita e involontaria dell'opera di Giulio Cesare); e negò, preventivamente infirmando le tesi politicizzanti del Mommsen e di Napoleone III, che Cesare mirasse a instaurare il cosiddetto "cesarismo democratico". Cesare, pertanto, gli si presenta come un gigantesco avventuriero, un Catilina più scaltro, più abile e fortunato, posseduto fin dai suoi inizi dal proposito di emergere e di consacrare "monarchicamente" la propria supremazia e autocrazia (nel che il B. vittoriosamente anticipa, di quasi un secolo, le tesi di E. Meyer e di J. Carcopino). Il B. si mostrò anche buono studioso della commedia di cui indagò i ristretti limiti di penetrazione nell'ambito della vita domestica e civile dei Romani, altrimenti dalla commedia greca, pur rivendicandone, di contro allo Schlegel e ad anticipata confutazione del Mommsen, il valore poetico: e quindi la poeticità, non meramente potenziale, della stessa letteratura latina arcaica.

Nel '48 il B. si schierò subito con i combattenti di Curtatone, fra cui noverava anche amici intimi, come il Livi e il Fanfani (e si adoperò per mitigare a quest'ultimo la prigionia e la deportazione a Josephstadt), ma, coinvolto nel cedimento della parte moderato-giobertiana all'offensiva congiunta, uguale e contraria, dei retrogradi granduchisti e dei democratici guerrazziani, scivolò verso "destra".

Riprese animosamente gli studi nel decennio della restaurazione, lavorando per Le Monnier all'edizione del Davanzati e per il Barbera (in collaborazione col Guasti) ai due volumi antologici di G. Arcangeli, il cui proemio ha un profondo sapore e valore autobiografico. Accettò dal sovrano motu proprio (24 ott. 1856) la presidenza del liceo Forteguerri in Pistoia, succedendo a G. Silvestri. Ma poco dopo insorgeva contro di lui il gruppo fra rivoluzionario e retrogrado degli Amici pedanti, il cui leader Giosue Carducci rispondeva con un lungo sonetto caudato a "un discorso di pedagogia" del B., ritenendolo "peggio che gesuitico" - sebbene il Carducci tosto si ricredesse e riverisse pubblicamente nel '62 l'"erudito ed elegante letterato pistoiese", dal quale si attendeva prossima l'edizione di Cino.

Costretto nel '59 a dimettersi dalla presidenza del liceo di Pistoia, il B. fu dal ministro C. Ridolfi trasferito alla facoltà teologica di Pisa, tosto abrogata: non gli restò che il rifugio del seminario di Siena. Stranamente bersagliato come retrivo (e non si nega che, quanto meno perseverava negli studi, tanto più si profondeva in omelie, panegirici, e discorsi sacri, non senza attacchi stranamente illiberali non pure ai protestanti d'Italia, ma, al toscoginevrino Sismondi), si meritò un illuminato intervento di Gino Capponi nel '62 presso il ministro Matteucci, invitato dal marchese a "rimettere a galla certa gente: per esempio, il Bindi di Pistoia, che vale più di molti; e lo fecero diventare codino col dirgli che era codino, che in fatto non è". Ma il B. non tornò all'insegnamento statale e abbandonò lo stesso seminario, perché Pio IX, consenziente il Ricasoli, lo nominò vescovo di Pistoia (23 febbr. 1867), donde nel '71 fu traslato alla sede arcivescovile di Siena. Morì nei pressi di Pistoia il 23 giugno 1876.

Opere: Oltre ai citati commenti pratesi (l'Orazio fu riedito da E. Pistelli a Bologna nel 1905-1907, con frequenti successivi rifacimenti e ristampe) e la Letteratura latina, Firenze 1875, che raccoglie le prefazioni ai commenti (per le varie edizioni di queste opere, cfr. V. Ussani, Lingua e lettere latine, Roma 1921, pp. 14, 59-60), i principali scritti "classici" del B. sono le versioni di alcuni discorsi di s. Giovanni Grisostomo (nei sottocitati Scritti vari), di Cinque lettere di s. Basilio (Pistoia 1850) e delle Confessioni di s. Agostino (Firenze 1864; nuova edizione, 1869; numerose ristampe). Fra gli scritti "letterari": l'edizione delle Opere di B. Davanzati (Firenze 1852) e il proemio alle Poesie e prose di G. Arcangeli (Firenze 1857), nonché i due volumi degli Scritti vari (Firenze 1861-1862). Fra gli scritti "religiosi": Lettere pastorali (Modena 1874); Esercizi spirituali (Firenze s. a.); Religione e morale (a cura di G. Santi, Firenze 1904).

Fonti e Bibl.: Sul B. il meglio è ancora, e di gran lunga, quanto ne scrisse C. Guasti (Opere, III, 1, Prato 1896, pp. 235-242, cioè la commemorazione alla Crusca. Si veda poi il Carteggio, Prato 1945, passim e, per l'ambiente toscano, G. Silvestri, Prato 1874, passim). Insigni testimonianze di contemporanei: N. Tommaseo, Dizionario estetico, Milano 1852, I, pp. 64 s.; Esercizi letterarii, Firenze 1869, coll. 294 ss., 375 ss.; G. Giusti, Epistolario, a cura di F. Martini, III, Firenze 1932, pp. 381 ss.; G. Capponi, Lettere, a cura di A. Carraresi, III, Firenze 1884, p. 406; G. Carducci, Opere (ed. naz.), II, Bologna 1935, pp. 182 s., 268- 269; VI, ibid. 1935, p. 23. Per una stroncatura della Letteratura latina, cfr. C. Giussani, in Riv. di filologia e d'istruzione classica, IV (1876), pp. 459-462. Per il B. "classico" e "cesariano", P. Treves, Lo studio dell'antichità classica nell'Ottocento, Milano-Napoli 1962, pp. 693 ss. (con ampia bibl. a pp. 701-703 e la riproduzione commentata di larghi brani del discorso su Cesare a pp. 705 ss.). Per il B. editore del Davanzati, cfr. E. Paratore, in Atti e mem. dell'Arcadia, s. 3, IV (1967), pp. 296 ss. Per l'atteggiamento del B. nel '48 e il suo intervento a favore del Fanfani presso il veronese padre Sorio, cfr. G. Biadego, Letter. e patria negli anni della dominaz. austriaca, Città di Castello 1913, pp. 89 ss.

Vedi anche
letteratura In origine, l'arte di leggere e scrivere; poi, la conoscenza di ciò che è stato affidato alla scrittura, quindi in genere cultura, dottrina. Oggi s'intende comunemente per letteratura l'insieme delle opere affidate alla scrittura, che si propongano fini estetici, o, pur non proponendoseli, li raggiungano ... Giosue Carducci Poeta italiano (Val di Castello, nella Versilia, 1835 - Bologna 1907). Crebbe "selvatico" nella Maremma toscana, dove il padre, Michele, un liberale già carbonaro, era medico condotto. Andò poi a Firenze e a Pisa, dove si laureò nel 1856. Di questo stesso anno è la polemica antiromantica, d'impostazione ... poesia Arte di produrre composizioni verbali in versi, cioè secondo determinate leggi metriche, o secondo altri tipi di restrizione; con una certa approssimazione si può dire che il significato di poesia è individuabile, nell’uso corrente e tradizionale, nella sua contrapposizione a prosa, in quanto i due termini ... filologia In ogni ricerca, l’interpretazione di fatti (o di personaggi ecc.) basata sull’esame di testi, documenti o su notizie storiche. 1. Definizioni Il termine filologia, inteso nel mondo greco e latino come amore della dottrina, con particolare riguardo all’erudizione storica, si andò affermando in Europa ...
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