ARISTIPPO, Enrico
Ignoti sono l'anno, il luogo di nascita e la stessa nazionalità. Il primo è, comunque, da porsi con ogni probabilità nel primo ventennio del sec. XII; circa il secondo, l'ipotesi del Rose che A. fosse da identificare con il "grecus interpres natione Severitanus" di cui parla Giovanni di Salisbury (Metalogicon, III, 5,140 ed. Webb) come di persona da lui conosciuta durante uno dei suoi viaggi nell'Italia meridionale ("dum in Apulia morarer", circa 1148-53) è oggi respinta dagli studiosi aggiornati, dopo le conclusioni di Ch. H. Haskins: e viene così meno l'affermazione, che pur si trova ripetuta con frequenza (Mandalari, Falconi), della sua nascita a S. Severina, in Calabria.
Che fosse di nazionalità greca fu opinione lungamente sostenuta, sia in base al nome di Aristippo, sia per essere egli traduttore dal greco; ma i recenti lavori del Minio-Paluello, rivelando la sua limitata conoscenza della lingua greca, e comunque non certamente tale da farlo ritenere di origine greca, hanno tolto ogni valore anche a tale opinione. È probabile, come sostiene la Jamison, che Aristippo fosse un soprannome ("agnomine Aristipum..." dice l'anonimo traduttore dell'Almagesto) e che il vero nome fosse Enrico; valore hanno anche gli argomenti con cui la stessa autrice rafforza le conclusioni linguistiche del Minio-Paluello: non esserci giunta alcuna opera in greco di Aristippo, ed essere egli arcidiacono di una chiesa cattedrale di rito latino, come era quella di Catania; ma non possiamo seguirla, senza ricadere nel mondo delle supposizioni, quando lo dice chierico secolare di origine normanna: né quando propone di identificarlo con l' "Henricus notarius noster" citato in un privilegio del 1137 di Ruggero II, e lo suppone maestro nella scuola della "cuna", forse precettore dei giovani figli di Ruggero II, Guglielmo ed Enrico. Tutte queste ipotesi sono indubbiamente legittime, ma nascono per induzione da documenti che non le comprovano. Ricordiamo, infine, ma solo per desiderio di compiutezza d'informazione, che Giacomo Morelli, il Bekker e il Valentinelli vollero Aristippo ateniese, tratti in errore da una falsa lettura del Bernard, che in un codice di Oxford lesse "Aristippum Atheniensem" invece di "Aristippum Cathiniensem" (Catalog. librorum manuscr. Angliae et Hibern., 1697). Errori, confusioni, ipotesi di ogni genere, hanno avvolto per molto tempo la vita e l'opera di quest'uomo, che ebbe parte importante nella vita politica e culturale della Sicilia del secolo XII: né le ombre sono ancora del tutto scomparse. Uniche fonti che ci consentano di ricostruirne la personalità sono: il Liber de regno Siciliae del così detto Ugo Falcando, che una recente ipotesi della Jamison vuole identificare con l'ammiraglio Eugenio di Sicilia; le pagine da lui stesso premesse alle sue traduzioni dal greco del Menone e del Fedone platonici; il prologo, scritto verso il 1160, dell'anonima versione greco-latina dell'Almagesto di Tolomeo.
Le notizie sicure sulla vita di A. appartengono agli anni 1156-1162 e, in base alle fonti sopra indicate, si possono così riassumere. Divenuto arcidiacono di Catania (1155?), è nella primavera del 1156 con l'esercito di Gugliemo I ("in castris") sotto le mura di Benevento, dove si era rifugiato papa Adriano IV; qui, come egli stesso afferma, inizia la traduzione del Fedone platonico (prima, perciò, del 18 giugno di quell'anno, quando Adriano si riconciliò con il re normanno e firmò con lui il trattato detto, appunto, di Benevento), che ultimerà poi a Palermo.
In epoca imprecisabile, ma certamente nel biennio 1158-60, prende parte ufficiale ad un'ambasceria che re Guglielino manda a Costantinopoli e ne riporta, dono dell'imperatore Manuele Comneno al re, codici greci, fra cui certamente quello dell'Almagesto di Tolomeo, e forse anche le così dette Profezie della Sibilla Eritrea.
Di questo fatto abbiamo sicura testimonianza nella prefazione più volte citata alla versione dell'Almagesto in cui l'anonimo traduttore così si esprime: "Hos autem (sc. libros), cum Salerni medicine insudassem, audiens quendam ex nunciis regis Sicilie, quos ipse Constantinopolim miserat, agnomine Aristipum, largitione susceptos imperatoria Panormum transvexisse, rei diu multumque desiderate spe succensus, Scilleos latratus non exhorrui, Caribdim permeavi, ignea Ethne fluenta circuivi, eum queritans a quo mei finem sperabam desiderii. Quem tandem inventum prope Pergusam fontem, Ethnea miracula satis cum periculo perscrutantem...".
A. è, dunque, uno dei nuncii Regis Siciliae; e lo studioso salernitano che si reca da lui, avendo saputo che ha portato a Palermo l'Almagesto, lo trova tutto intento ad osservare, con suo grande pericolo, i fenomeni dell'eruzione dell'Etna; notizia, questa, che ci fa vedere in A. anche lo scienziato, e consente alla Jamison di richiamare la figura di Plinio il Vecchio, che per aver voluto studiare da vicino la famosa eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei, vi trovò la morte.
Ma un tragico fatto chiama ben presto A. ad occupare presso la curia di re Guglielmo I un posto assai più importante di quello di nuncius. Il 10 nov. 1160 divampa a Palermo una congiura di nobili: e il grande ammiraglio Maione ("magnus admiratus admiratorum" fino dal 1154) cade ucciso dal pugnale di Matteo Bonello. "Insequenti die - narra il Liber de regno Siciliae - rex Henricum Aristippum, archidiaconum Cataniensem, mansuetissimi virum ingenii et tam latinis quam grecis litteris eruditum, familiarem sibi delegit, ut vicem et officium interim gereret admirati, preessetque notariis, et cum co secretius de regni negotiis pertractaret..." (p. 44). L'11 nov. 1160 A. sostituisce dunque il morto Maione come ammiraglio alla corte normanna di Palermo: con il compito, anche, di essere a capo dei notarii e consigliere del re. Di quel re Guglielmo di cui già nel 1156 egli aveva fatto uno splendido elogio, scrivendo all'amico Roborato: "cuius curia, scola; comitatus cuius, gimnasium; cuius singula verba, philosophica apofthegmata; cuius questiones inextricabiles, cuius soluciones nichil indiscussum, cuius studium nil relinquit intemptatum; cuius dominatui applaudunt Sicania, Calabria, Lucania, Campania, Apulia, Libia, Affrica; cuius victricem dextram senciunt Dalmacia, Tessalia, Grecia, Rodus, Creta, Ciprus, Cirene et Egiptus; cuius itatenus preclara facinora magnus ille Rogerius genitor illustriora et multo radianciora reddidit " (Phaedo, p. 90).
Se dobbiamo credere all'autore del Liber de regno Siciliae, uno dei primi atti di A., giunto al vertice del potere, sarebbe stato quello di mitigare l'animo del re, esasperato per l'uccisione di Maione, svelandogli alcuni intrighi del grande ammiraglio. Ma il periodo di instabile e apparente tranquillità non durò che pochi mesi. Nella primavera dell'anno seguente, 1161, e precisamente, secondo lo storico Romualdo di Salerno, il 9 marzo, scoppia a Palermo una nuova rivolta, alla quale fanno capo la burocrazia e uomini stessi della corte. Il Liber de regno Siciliae ne dà la seguente versione: la congiura trova il re fuori del palazzo, "in ampliorem locum", dove era solito trovarsi con il suo ministro A. e trattare con lui "de statu regni"; qui Guglielmo viene fatto prigioniero con Aristippo "qui cum eo colloquebatur" (p. 55). Segue il saccheggio del palazzo; l'autore del Liber annota, e il particolare sarà importante, che, mentre alcuni rubavano gioielli, oro, vesti di porpora, oggetti di ogni genere, "non deerant qui puellarum pulchritudinem crederent lucris omnibus, preferendam..." (p. 56). In questo momento A. non è più nominato accanto al re, con cui era stato fatto prigioniero. Guglielmo viene poi liberato dal popolo e ristabilisce l'ordine. Ricompare A., ancora consigliere del re, con Riccardo Palmer, vescovo eletto di Siracusa, "vir litteratissimus et eloquens", e Silvestro conte di Marsico, cugino del re, ma non gode più la fiducia del sovrano.
"Erant eo tempore familiares regis, per quos negotia curie disponebat, Richardus Siracusanus electus, Silvester comes Marsicensis, et Henricus Aristippus, quem tamen rex habens suspectum latens adhuc odium dissimulabat, credens eum coniurationis in se facte fuisse participem. Sed et idem, capto rege, quasdam palacii puellas in domo sua aliquot dies tenuerat, quod maxime regis adversus eum indignationem commoverat" (p. 69). Questo passo ci dice che Guglielmo sospettava che A. fosse stato partecipe della congiura scoppiata contro di lui il 9 marzo 1161, indignato soprattutto dal fatto che avesse accolto in casa sua, per qualche giomo, mentre egli era prigioniero, alcune fanciulle del palazzo; e tuttavia gli aveva ridato il posto che occupava (pur traendo contemporaneamente di prigione il notaio Matteo d'Ajello, già collaboratore di Maione, essendo i suoi tre consiglieri inesperti di amministrazione), dissimulando l'odio che ormai gli portava.
È inutile abbandonarsi ad ipotesi sulle parole dell'autore del Liber. Sappiamo A. "mansuetissimi vir ingenii"; come tale i congiurati possono averlo lasciato subito libero, come tale può aver dato rifugio in casa sua alle puellae palacii, che abbiamo visto oggetto di particolare cupidigia da parte dei saccheggiatori della reggia. Ma entrambi i fatti sono più che sufficienti per far nascere in un sovrano, sospettoso e tradito da coloro stessi che gli erano più vicini, il dubbio e il desiderio della vendetta.
Certo è che A., poco tempo dopo, nella primavera del 1162, mentre si dirige verso le Puglie per raggiungere Guglielmo, che vi si era recato per debellare gli ultimi congiurati, viene arrestato per ordine del sovrano, ricondotto a Palermo e gettato in prigione, dove la morte pone termine nello stesso tempo alla sua miseria e alla sua vita. Ce lo dice ancora l'autore del Liber, in una frase incidentale che sembra contrastare con la molta comprensione e stima sempre dimostrata per Aristippo.
Distrutta Bari, racconta il Liber, Guglielmo si volge contro Salerno per far fare ad essa la stessa fine. Matteo d'Ajello, salernitano di nascita, si rivolge ai regis familiares perché distolgano il re dal suo feroce proposito. Ma i regis familiares sono ora soltanto due, dei tre nominati sopra: Riccardo Palmer, vescovo eletto di Siracusa, e Silvestro, conte di Marsico. "Henricus enim Aristippus, antequam in Apuliam pervenisset, iubente rege captus fuerat et Panormum reductus; qui etiam in carcere, post non multum temporis, miserie simul et vivendi modum sortitus est" (p. 81).
Questa è la tragica fine di un uomo che fu essenzialmente uno studioso e un letterato: travolto in una lotta politica per la quale non era nato, e nella quale entrò non sappiamo se per bontà d'animo, o superficialità, o ambizione.
Enrico Aristippo, su cui molto si è scritto, ma spesso con poca avvedutezza e mancanza di informazione, è uno dei frutti più cospicui di quell'Italía meridionale la cui opera di trasmettitrice del pensiero greco e arabo all'Occidente latino durante il Medioevo soltanto in questi ultimi decenni ha cominciato ad essere posta nella sua vera luce. Egli si riallaccia idealmente a Costantino l'Africano, ai dotti della scuola di Salerno, ad Alfano vescovo (1058-1085); è contemporaneo dell'ammiraglio Eugenio di Palermo, dell'anonimo traduttore dell'Almagesto, di Giacomo Chierico, che un'acuta ipotesi del Minio-Paluello sospetta calabrese; vive in Sicilia, punto d'incontro di tre civiltà, la latina, la bizantina e l'araba, e delle loro tre lingue; opera a Palermo, che Pietro da Eboli canta "urbs felix, populo dotata trilingui". Ha, inoltre, a sua disposizione ricche biblioteche contenenti opere greche, alcune delle quali ancora ignote all'Occidente latino.
"Perché te ne vuoi tornare in Inghilterra - scrive all'amico cui dedica la traduzione del Fedone - se qui puoi avere tutto?". E continua: "Habes in Sicilia Siracusanam et Argolicam bibliothecam; Latina non deest philosophia... habes Eronis philosophi Mechanica (sono i Pneumatica di Erone Alessandrino) pre manibus... habes Euclidis Optica... habes de scientiarum principiis Aristotelis Apodicticen (sono gli Analytica Posteriora di Aristotele)... philosophica Anaxagore, Aristotelis, Themistii, Plutarchi, ceterorumque magni nominis philosophorum in manibus tuis sunt... theologica, mathematica, metheorologica tibi propono theoremata..." (Phaedo, p. 89). E verso la traduzione di opere greche si volge appunto la sua attenzione, durante un periodo che non è facilmente precisabile, ma che si può ritenere conchiuso con la sua nomina a successore di Maione (11 nov. 1160).
Eccone l'elenco completo. Sono giunte a noi: il Menone e il Fedone di Platone; il quarto libro dei Meteorologica di Aristotele; alcuni scolii greci al quarto libro dei Meteorologica citati. Tradusse probabilmente anche, ma il loro testo non è stato ancora ritrovato: le Vite dei Filosofi di Diogene Laerzio; e alcuni Opuscula di s. Gregorio Nazianzeno. Gli furono, infine, falsamente attribuite le versioni di: De generatione et corruptione e Analytica posteriora di Aristotele; Almagesto di Tolomeo. Ed ecco gli ultimi risultati della critica relativi a ciascuno di questi testi.
Menone. La versione è preceduta da un prologo importante anche per le notizie che A. dà su altre sue traduzioni. Rivolgendosi infatti ad un ignoto e autorevole amico ("dilecte et venerande"), afferma di aver interrotta temporaneamente, per accontentarlo nel volgere in latino Platone, la versione di Gregorio Nazianzeno, ordinatagli da re Gugliehno, e quella di Diogene Laerzio, cui si era accinto per le preghiere del grande ammiraglio Maione e di Ugo, arcivescovo di Palermo: "Iussu... domini mei, gloriosissimi Siculorum regis Guilelmi, Gregorii Nazanzeni opuscula translaturus eram... Rogatus item a Maione, magno Sicilie admirabili, atque ab Hugone Epanormitane sedis archipontifice, Laertium Diogenem de vita et conversatione dogmateque philosophorum in ytalicas transvertere sillabas parabam. Quibus ad tempus postpositis tuo potius acquievi consilio" (p. 6). Nella stessa prefazione A. mostra di conoscere e di saper giudicare bene Platone: "Unicus... hic in ethicis, singularis in theologicis, universos sermones morum condit dulcedine, divinitatis vallat et soliditate, diversis principiis inchoatos uno fine cunctos concludit tractatus. Omnia nimirum refert ad superum numina, quasi ab eis cuncta processisse crediderit" (p.5).Poiché Maione è indicato come "magnus Sicilie admirabilis", la traduzione va posta fra il 1154 e il 1160; che essa debba essere ritenuta anteriore a quella del Fedone (1156) arguisce, mi sembra con ragione, il Rose, dalle parole del prologo: "aliquem tibi... transferri dialogorum Platonicorum petenti, Menonem potius sum interpretatus". Del testo ha curato un'ottima edizione critica il Kordeuter, nel 1940, preceduta da sobrie, ma esattissime notizie della Labowsky.
Fedone. La versione fu iniziata, come si è detto, durante l'assedio di Benevento da parte dell'esercito normanno, cioè prima del trattato che pose fine alle ostilità (18giugno 1156), e condotta a termine a Palermo. Studi recenti, e soprattutto quelli di L. Minio Paluello, che hanno condotto alla sua splendida edizione critica (Londra 1950), hanno dimostrato che Aristippo non si accontentò della sua prima traduzione (ora conservata nei cod. Oxon. Corpus Christi College 243 e Fiorentino B. Naz. Palat. 639), ma la volle rivedere attentamente, correggendo vocaboli e nessi che gli sembravano tradotti imperfettamente, e dandoci così una seconda edizione, che ebbe una diffusione, se non ampia, certo maggiore della prima. Il Minio-Paluello ha anche identificato nelle note interlineari del codice di Oxford le tracce del lavorio di revisione che condusse alla seconda redazione del testo. Anche la traduzione del Fedone è preceduta da una lettera di A. ad un amico, nascosto sotto il nome di "favorito della fortuna" ("Enricus Aristippus Cathiniensis Archidiaconus Roborato fortune salutem dicit"), per identificare il quale si sono fatte, senza fortuna di unanime consenso, le più svariate congetture. Il Rose, al quale va il merito di aver praticamente iniziato gli studi intorno ad A., vide nascosto nel Roboratus un Robertus (opinione da tutti accolta), ma l'identificazione con Roberto di Selby venne universalmente respinta (Haskins, Studies, p. 169); lo Haskins avanzò, allora, con un complesso di suggestivi avvicinamenti (pp. 169 s.), il nome di Roberto di Cricklade, priore di S. Frideswide a Oxford, che visitò la Sicilia nel 1158, ma l'ipotesi appare improbabile allo Hunt (Phaedo, p. 10); il De Stefano parla, invece, di Roberto di Salisbury, che fu, prima di Maione, cancelliere di Guglielmo I (La cultura in Sicilia..., p. 36), ma la sua voce restò isolata; secondo il Bliemetzrieder il Roboratus del Fedone e l'anonimo cui A. dedica il Menone non sono che una sola ed identica persona, cioè Adelardo di Bath (Adelhart von Bath, pp. 275-355), ma la Labowsky dice l'identificazione priva di qualsiasi fondamento (Meno, p. XII). Dobbiamo pertanto rassegnarci a lasciare ancora nell'anonimo il Roboratus fortune che A. tenta di distogliere dal ritorno in Inghilterra indicandogli, come si è detto, quanto fosse ricca la Sicilia di opere greche e di uomini dotti (veniamo a conoscere un Teorido di Brindisi "Graiarum peritissimus litterarum", per altre vie sconosciuto) e al quale offre, come conforto al viaggio ("tanti solacium itineris") la versione del Fedone, la cui lettura gli ricorderà l'amico lasciato in lacrime ("Quotienscumque in manus eum arripueris... mei recordare, quem tanti presentia orbatum amici in lacrimis, cum abscesseris, relinques ", ibid., p. 90).
La versione di A., come il Menone, così rese noto il Fedone all'Occidente latino: in essa lo lessero, fra gli altri, Rogero Bacone, verso il 1270; Enrico Bate di Malines, astronomo e filologo del sec. XIII per il suo Speculum divinorum et quorundam naturalium (1280-1300); Gérard di Abbéville (cui appartenne il cod. Paris. B. Nat. lat. 16581); Francesco Petrarca, nelle cui mani il Minio-Paluello lo ritiene capitato poco prima della morte (dato che nelle sue opere non lo cita mai), quasi preparazione all'eternità, e le cui brevi annotazioni ci sono giunte nel cod. Paris. B. Nat. lat. 6567 A; Coluccio Salutati, infine, che lo fece trascrivere nell'attuale Vat. lat. 2063 da un esemplare di Giovanni Conversini da Ravenna e spinse Leonardo Bruni a farne una nuova traduzione, la prima umanistica, apparsa verso il 1405. Per tale sua fortuna, anche se la tradizione manoscritta è scarsa, questa traduzione del Fedone appare la più importante fra quelle compiute da Aristippo. Il codice greco di cui egli fece uso era stretto parente dell'attuale Vindob. 54 Suppl. Graec. 7 (= W),come già vide bene lo Immisch, ma non lo stesso W, come credette il Burnet (1929). Della versione si servirono per l'edizione del testo greco del Fedone il Forster (1745) ed il Wyttenbach (1810): lezioni da loro usate entrarono nell'apparato critico del Bekker (1826).
Meteorologicorum liber IV. Alcuni codici della più antica traduzione latina dei quattro libri delle Meteore di Aristotele portano la seguente soscrizione: "Completus est liber Metheororum, cuius tres primos libros transtulit magister Gerardus Lombardus summus philosophus de arabico in latinum, quartum autem transtulit Henricus Aristippus de greco in latinum; tria ultima capitula transtulit Alvredus Anglicus Sarelensis de arabico in latinum" (cfr. Fobes, Med. Vers., p. 298; Lacombe, Arist. Lat., I, 56). Gli studi più recenti hanno confermato in gran parte tale indicazione, nel senso che se - come appare probabile - tutta l'opera fu tradotta dall'arabo da Gerardo da Cremona (m. 1187), tuttavia fino dalla fine del sec. XII stesso essa fu diffusa in Occidente in un testo che ai primi tre libri della versione di Gerardo univa il quarto nella traduzione dal greco di Aristippo. Questa vetus translatio di Gerardo-Aristippo fu la sola nota all'Europa latina fino a quando, verso il 1260-67, il domenicano fiammingo Guglielmo di Moerbeke, collaboratore filologico di s. Tomaso d'Aquino, non si rifece direttamente al testo greco per l'intera opera, traducendone ex novo anche il quarto libro, malgrado la fortuna della versione di Aristippo.
L. Minio-Paluello ha sottoposto il testo del Meteor. liber IV di A. ad un minuto esame comparativo con le versioni del Menone e del Fedone: l'esame ha mostrato una tale uniformità di metodo e di lingua che l'attribuzione ad A. non può essere messa minimamente in dubbio (Henri Aristippe, pp. 212-217). Questa traduzione è tuttora inedita. Che ad A. possa essere inoltre attribuita la versione latina degli scolii anonimi al quarto libro dei Meteorologica conservata nel cod. Oxoniens. Bodl. Selden. supra 24 è recentissima opinione dello stesso Minio-Paluello (Lacombe, Arist. Lat., II,1278).
Breve può essere il discorso per le due traduzioni di cui il testo non è stato ancora ritrovato: le Vite dei Filosofi di Diogene Laerzio e alcuni opuscoli di s. Gregorio Nazianzeno. Che A. fosse in procinto di tradurle ("translaturus eram... transvertere parabam...") e le avesse momentaneamente ("ad tempus") posposte a quella del Menone appare dal brano del prologo più sopra citato. Che le versioni siano state condotte a termine chiari segni sembrano indicare: per Diogene Laerzio, le citazioni dell'opera che sono nel De vitis et moribus philosophorum di Gualtiero Burlaeus (a cura del Knust, Tübingen 1886) e nelle quali il Minio-Paluello crede di poter agevolmente scorgere lo stile di Aristippo (Phaedo, IX, n. 1); per Gregorio Nazianzeno, le citazioni, in realtà rarissime e che quindi non consentono nulla più di una vaga ipotesi, che di taluni passi fa Giovanni di Salisbury nel Policraticus (Haskins, Studies, p. 166, e Labowsky, Meno, p. XII).
Restano, infine, le versioni a lui falsamente attribuite.
Del De generatione et corruptione di Aristotele fu ritenuta concordemente di A. la translatio vetus dal greco in base all'attribuzione di un codice attualmente nella Henry Walter's Library di Baltimora: "Liber Aristotelis translatus ab Henrico Aristippo de greco in latinum et per capitula distinctus a magistro Alvredo de Sareshel secundum commentum Alkindi super eundem librum" (Lacombe, Arist. Lat. I, 54 e cod. nr. 3).Ma che A. non ne possa essere l'autore ha dimostrato con persuasivi raffronti linguistici L. Minio-Paluello, che la ritiene opera di quel traduttore anonimo cui si deve anche la prima versione dal greco dell'Etica a Nicomaco nel sec. XII (Iacobus Veneticus, pp. 279, 288-9; Henri Aristippe, pp. 220-23; Lacombe, Arist. Lat. II, 778).
Prima del sec. XIII gli Analytica Posteriora di Aristotele furono tradotti tre volte: da Boezio (510-15: versione non ancora identificata), da Giacomo Veneto (1130-1140 circa: è la così detta vulgata, conservata in più che 280 codici) e infine da un anonimo (giunta a noi nel solo codice 17.14 della Bibl. Capitolare di Toledo, ed ora splendidamente edita da L. Minio-Paluello, Bruges-Paris 1953). In questo anonimo, che dovette aver ultimato il lavoro prima del 1159 (perché in quell'anno lo cita Giovanni di Salisbury nel Metalogicon, cometranslatio nova di contro a quella, anche per lui comune, di Giacomo Veneto), videro A. molti studiosi: il Webb, il Rose, il Grabmann. Ma, dopo i dubbi di Haskins (Studies, p. 236), dimostrò del tutto infondata l'attribuzione, ancora una volta, il Minio-Paluello, riscontrandone il metodo di traduzione molto diverso da quello di Aristippo (Iacobus Veneticus, pp. 288-9).
Basti infine appena accennare all'attribuzione ad A. della versione dal greco dell'Almagesto di Tolomeo, sia come collaboratore sia come autore, da parte di alcuni studiosi, e dovuta, questa volta, ad un banale errore d'interpretazione (E. Jamison, Admiral Eugenius, p. XVIII, n. 2). L'attribuzione è purtroppo passata anche nel Dizionario biografico degli autori del Bompiani (I, 1956, p. 111), dove si può ammirare anche una imago di A. desunta dalle Illustrium imagines di Fulvio Orsini (1570); ma si tratta del filosofo Aristippo di Cirene, non del nostro autore.
Del metodo di traduzione di A. si sono occupati parzialmente alcuni studiosi (F. H. Fobes, per il quarto delle Meteore; C. Labowsky, per il Menone); ma nessuno lo ha fatto con la compiutezza, l'estensione e l'acribia filologica di L. Minio-Paluello (specialmente in Iacobus Veneticus, pp. 288 s.; ed in Henri Aristippe, pp.211-220), che ha giustamente veduto nello studio dei caratteri distintivi delle traduzioni latine medievali dal greco il mezzo più sicuro per sostenere o respingere determinate attribuzioni. Come traduttore, egli scrive, "Aristippo è stato estremamente fedele all'ordine delle parole nel testo greco, forse più fedele di ogni altro traduttore del Medio Evo, fatta eccezione per Roberto Grossatesta (m. 1253); ma si è preso anche la libertà di mostrare come era padrone del vocabolario latino, anche il meno usato. Era, questo, un compromesso fra le tendenze del retore, che continuava o rinnovava le tradizioni del IV e V secolo, e le esigenze del traduttore del XII, che si teneva obbligato ad essere almeno tanto letterale quanto lo era stato Boezio e quanto lo erano i contemporanei, Burgundio da Pisa, il traduttore dell'Almagesto, quello degli Analitici posteriori, ecc." (Henri Ar., p. 220).
Come scrittore latino non abbiamo, per giudicare A., che le due brevissime prefazioni al Menone e al Fedone; ma esse sono sufficienti per mostrarci un uomo della scuola, nel senso migliore del termine, abituato all'uso della retorica e dei mezzi stilistici più raffinati. Noi non sappiamo se la tragica fine abbia abbreviato di molto la vita di A.; ma sappiamo che la sua partecipazione alla vita politica è stata di danno per la storia della cultura europea in un momento di grandissima importanza per essa come è il sec. XII.
Fonti e Bibl.: La "Historia" o "Liber de Regno Siciliae" di Ugo Falcando, a cura di G. B. Siragusa, in Fonti per la Storia d'Italia, XXII; Meno, interprete Henrico Aristippo, a cura di W. Kordeuter, recognovit et praefatione instruxit C. Labowsky, in Plato Latinus, I, Londinii 1940; Phaedo, interprete H. A., a cura di L. Minio-Paluello, ibid., II, Londinii 1950; Anonimo, Prologo alla versione dell'Almagesto, in Ch. H. Haskins, Studies in the History of Mediaeval Science, Cambridge 1927, pp. 191-93. Studi fondamentali sono quelli di O. Hartwig, Re Guglielmo e il suo grande ammiraglio Maione di Bari, in Arch. stor. per le prov. napol., VIII(1883), pp. 397-485; V. Rose, Die Lücke im Diogenes Laërtius und der alte Uebersetzer, in Hermes, I(1886), pp. 367-97; Ch. H. Haskins, Studies, cit.; M. T. Mandalari, E. A. arcidiacono di Catania nella vita culturale e politica del secolo XII, in Bollett. stor. catanese, IV (1939), pp. 87-123 (il più completo per estensione ma criticamente debolissimo e del tutto superato); L. Minio-Paluello, Henri Aristippe, Guillaume de Moerbeke et les traductions latines médiévales des "Météorologiques" et du "De generatione et corruptione", in Revue philosophique de Louvain, XLV (1947), pp. 206-235; L. Minio-Paulello, Iacobus Veneticus Grecus, in Traditio, VIII (1952), pp. 265-304.
Studi generali e su problemi singoli sono quelli di O. Hartwig, Die Uebersetzungsliteratur Unteritaliens in der normannisch-staufischen Epoche, in Centralblatt f. Bibliothekswesen, III(1886), pp. 161-190, 223-25, 505 s.; F. Lo Parco, Petrarca e Barlaam, Reggio Calabria 1905; Id., Scolario Saba bibliofilo italiota, in Atti d. R. Acc. Arch. Lett. B. Art., n. s., 1, Napoli 1908; F. Chalandon, Histoire de la domination normande en Italie et en Sicile, II, Paris 1907, pp. 167-204; Ch.H. Haskins and Puntram Lockwood, The Sicilian Translators of the twelfth Century and the first Latin Version of Ptolemy's Almagest, in Harvard Studies in Classical Philology, XXI(1910), pp. 75-102; F. Novati-A. Monteverdi, Le Origini, Milano 1926, pp. 464-66; G. B. Siragusa, Il regno di Guglielmo I in Sicilia, Palermo 1929, pp. 160 n., 161, 170, 171, 173, 177, 178, 179, 187, 193, 198, 219 S., 233, 242, 246, 298, 299, 300 ss., 304, 308, 312, 359, 360; F. Bliemetzrieder, Adelhard von Bath, München 1935, pp. 275-355; E. Franceschini, Aristotele nel Medioevo latino, in Atti del IX Congresso naz. di filosofia (1934), Padova 1935, pp. 198, 199, 205; Id., Il contributo dell'Italia alla trasmissione del pensiero greco in Occidente nei secoli XII-XIII e la questione di Giacomo Chierico di Venezia, in Atti della XXVI riunione della S.I.P.S., Roma 1938, pp. 1-24 dell'estr.; A. De Stefano, La cultura in Sicilia nel periodo normanno, in Il Regno normanno, Palermo 1938, pp. 150, 151, 152, 153; L. Metelli, Sulle due redazioni del Fedone latino di Aristippo, in Atti del R. Ist. veneto di scienze, lett. e arti, XCVII(1937), pp. 113-140; A. Vernet, Fragments du Phédon dans un manuscrit de Clairvaux, in Revue du M. A. latin, IV(1948), pp. 53-56; L. Minio-Paluello (in collaborazione con H. Klos), The Text of the Phaedo in W and in Henricus Aristippus, Translation, in The Classical Quarterly, XLIII (1949), pp. 126-29; Id., Il "Fedone" latino con note autografe del Petrarca, in Rendic. d. Accad. dei Lincei, Classe di scienze morali, stor. e filol., VIII, 4 (1949), pp. 108-113; R. Klibansky, The Continuity of the Platonic Tradition, London 1937, pp. 27, 31, 51; Fr. Pelster, Neuere Forschungen ueber die Aristotelesuebersetzungen des 12. und 13. Jahrhunderts, in Gregorianum, XXX(1949), pp. 46-77; G. Lacombe, Aristoteles Latinus, I, Roma 1939, pp. 14, 41, 54-56, II, Cambridge 1955, pp. 788, 839, 872; E. Garin, Ricerche sulle traduzioni di Platone nella prima metà nel secolo XV, in Medioevo e Rinascimento. Studi in onore di B. Nardi, I (1955), pp. 341-374; A. Lejeune, L'Optique de Claude Ptolémée dans la version latine d'après l'arabe de l'emir Eugène de Sicile, Louvain 1956; E. Franceschini, Ricerche e studi su Aristotele nel Medioevo latino, in Aristotele nella critica e negli studi contemporanei, Milano 1956, pp. 144-166; C. Falconi, A. E., in Diz. Biogr. degli Autori, Milano 1956; E. Jamison, Admiral Eugenius of Sicily, London 1957, passim; L. R. Menager, Amiratus ᾿Αμηρᾶς. L'Emirat et les origines de l'Amirauté, Paris 1960, pp. 56-59.