Enea
Figlio di Anchise, discendente di Dardano, e della dea Venere, accorso in aiuto del parente Priamo quando Troia fu assediata dall'esercito greco e lo stesso territorio di Anchise fu messo a sacco da Achille, è citato nell'Iliade come uno dei più valorosi combattenti di parte troiana; nel poema omerico tuttavia rimane personaggio secondario: l'unico ampio episodio che lo riguarda è il duello con Achille, quando E. fu sottratto a morte sicura dall'intervento divino, poiché il fato lo voleva riserbato ad alti destini (cfr. Il. XX 340 ss.).
Lo spunto omerico - se non è frutto d'interpolazione - attesta l'antichità della leggenda che vuole E. superstite al disastro troiano; e vari scrittori greci alludono al suo successivo stanziamento in altro paese vicino. Questa tradizione venne raccolta e amplificata dai latini (specialmente Nevio, Ennio), che intesero nobilitare le origini di Roma riconducendole all'arrivo nel Lazio di E. e del figliuolo suo Ascanio, cui sarebbe dovuta la fondazione di Alba Longa (e quindi poi di Roma). Tale racconto, registrato anche da Tito Livio, ha la massima consacrazione letteraria nel poema di Virgilio, scritto a esaltazione dell'Impero augusteo (e non solo Roma, ma la stessa " gens Iulia " è ricondotta al principe troiano). E. vi è presentato come il degno successore del più valoroso tra i combattenti di parte troiana (e pertanto anche D. si serve della figura di Ettore [v.] a maggiore esaltazione di E.), e soprattutto come il " pius " per eccellenza, premuroso verso il vecchio padre, affettuoso col figlio, sempre ossequiente ai voleri divini. Narra Virgilio come nel momento più tragico per Troia l'ombra di Ettore avrebbe esortato E. a porre in salvo altrove i Penati della città; con molti compagni e con Anchise e Ascanio (la moglie Creusa invece si smarrì durante la fuga, per volere del fato) E. iniziò una lunga peregrinazione mediterranea (che in alcuni episodi Virgilio riallaccia alle avventure di Ulisse) alla ricerca della terra preconizzatagli dall'oracolo, avventura resa più ardua dalle tempeste suscitate da Giunone in odio al nome troiano. Dopo molte traversie, morto Anchise durante una sosta in Sicilia, E. approdò a Cartagine, dove godette l'amore della vedova Didone, regina di quella città; ma il monito divino gli impose ben presto di ripartire nuovamente: ed E., pur col cuore straziato, ubbidì abbandonando Didone, la quale, disperata, si suicidò auspicando odio eterno tra Cartagine e i discendenti di Enea. L'eroe, approdato a Cuma, scese con la guida della Sibilla nel regno dei morti, dove rivide Anchise e seppe dell'Impero che da quel suo viaggio avrebbe avuto origine. Da Gaeta (dal nome della sua nutrice ivi sepolta: il particolare è ricordato da D. in If XXVI 93) E. pervenne finalmente alle foci del Tevere; ma fu necessaria una dura guerra con Turno, re dei Rutuli, e i suoi alleati italici perché E., aiutato dal re Evandro e dagli Etruschi e sorretto dall'aiuto divino (lo scudo fornitogli da Venere è ricordato in Mn II IV 8), potesse alfine ottenere di stanziarsi definitivamente nel Lazio e attuare la fusione delle due stirpi sposando Lavinia figlia del re Latino, che gli avrebbe dato il figlio postumo Silvio (cfr. Aen. VI 763-766 e If II 13; il suicidio della regina Amata, folle oppositrice di quelle nozze, è menzionato in Pg XVIII 136-138). Con la vittoria di E. su Turno si conclude il poema virgiliano. I mitografi danno varie versioni della morte di E., anche contrastanti col racconto di Virgilio: chi lo dice morto in combattimento, chi annegato in un fiume, chi rapito al cielo durante un temporale. Per l'E. dantesco è però più importante rilevare che il racconto virgiliano non andò esente da discussioni, specialmente per l'asserito incontro con Didone (che un'altra tradizione, che fu cara alla patristica cristiana, voleva vedova fedele alla memoria del marito fino a preferire il suicidio a un nuovo matrimonio): molti (tra cui Macrobio) lo dichiararono impossibile, avvalendosi anche di considerazioni cronologiche; inoltre le storie troiane di Ditti Cretese e Darete Frigio, che durante il Medioevo godettero di una certa fortuna, volevano che E. fosse stato lasciato libero dai Greci per aver loro consegnato Troia per tradimento, d'accordo con Antenore.
L'interesse che D. porta alla storia di E. va di pari passo con l'interesse per Virgilio. Precedentemente al libro IV del Convivio si può dire che D. non nomini neppure E.: troppo rapido e del tutto laterale è il cenno alla sua ‛ pietas ' in Cv II X 5 (la pietade... fa risplendere ogni altra bontade col lume suo. Per che Virgilio, d'Enea parlando, in sua maggior loda pietoso lo chiama; cfr. Aen. I 544-545); e si tratta evidentemente di un ‛ lapsus calami ' (forse dello stesso autore), per Ettore, il nome che ricorre in Cv III XI 16 ([Virgilio] chiama Enea: " O luce ", ch'era atto, " e speranza de' Troiani ", che è passione; così l'edizione del '21, ma l'edizione Busnelli-Vandelli legge chiama Enea [a Ettore] e l'edizione Simonelli chiama E[ttore per bocca di E]nea; cfr. Aen. II 281; e v. Ettore). Il libro IV di quel trattato rivela un meditato ripensamento dell'Eneide, in parte però ancora fedele agli schemi interpretativi della scuola fulgenziana (che vedeva illustrate nel poema virgiliano, secondo il senso allegorico e il morale, le età dell'uomo): negli episodi narrati nei libri IV, V e VI D. infatti ravvisa le virtù della giovinezza - lealtà, cortesia, amore, fortezza, temperanza - esaltate da quell'E. che aveva saputo trovare in sé la forza di recidere i legami della lussuria (Didone) per seguire onesta e laudabile via e fruttuosa (Cv IV XXVI 8-15); ma una nuova attenzione è dedicata alla discesa agl'Inferi, quando esso Enea sostenette solo con Sibilla a intrare ne lo Inferno a cercare de l'anima di suo padre Anchise contra tanti pericoli, che già comincia a illuminarsi della convinzione, frattanto maturata in D., della necessità dell'Impero universale. Ritenendo il racconto virgiliano verità storica narrata in stile poetico, D. ‛ scopre ' il disegno provvidenziale che ha voluto l'Impero romano, e che dunque, proprio come affermava il poeta latino, aveva guidato anche il viaggio di quel giusto / figliuol d'Anchise che venne di Troia (If I 73-74) in precisa contemporaneità con ciò che in Palestina veniva preparandosi per l'avvento del Messia: fu in uno temporale, che David nacque e nacque Roma, cioè che Enea venne di Troia in Italia, che fu origine de la cittade romana, sì come testimoniano le scritture. Per che assai è manifesto la divina elezione del romano imperio per lo nascimento de la santa cittade che fu contemporaneo a la radice de la progenie di Maria (Cv IV V 6): rapporto di contemporaneità tutt'altro che pacifico e indiscusso secondo le stesse cronografie medievali, ma che per D. costituisce un'illuminazione decisiva, e che egli pertanto dichiara con quella baldanzosa sicurezza, che non ammette repliche, con la quale suole proclamare le verità che più gli stanno a cuore. Questa acquisizione estremamente significante proponeva necessariamente una nuova valutazione della storia romana e non solo di questa (cfr. Mn II I 2-3), e non poteva dunque essere un punto di arrivo: fu un punto di partenza per una rilettura dell'Eneide, dove gli elementi didascalici e moralistici passavano in secondo piano dinanzi al decisivo valore della testimonianza storica. La discesa di E. agl'Inferi poteva avere (giusta gli schemi esegetici medievali, che non presero in considerazione l'ipotesi che si trattasse d'invenzione poetica di Virgilio) tre possibili spiegazioni: si era trattato di un viaggio mentale, " per somnium "; E. era in realtà disceso col proprio corpo, per negromanzia; la discesa agl'Inferi era avvenuta ‛ corporalmente ', per grazia divina. La convinzione da cui muove D. non può ammettere che la terza e più radicale interpretazione; e in If II 13-27, dove si discute appunto di quella discesa, il poeta esclude rigorosamente le altre ipotesi ( fu sensibilmente; l'avversario d'ogne male / cortese i fu; cfr. anche Pd XV 26 se fede merta nostra maggior musa, dove il se è asseverativo). Per D. la discesa di E. agli Inferi avvenne realmente, sensibilmente e per volontà divina, affinché secondo il disegno provvidenziale fossero poste le fondamenta dell'Impero (non a caso dal ricordo dell'antico che Lavina tolse prendono avvio le parole di Giustiniano, Pd VI 3). E., fondatore dell'Impero, prescelto a discendere ancor vivo negl'Inferi per la nobiltà dell'origine e per le virtù personali (If II 18; Mn II III 7-17), può a buon diritto per D. essere posto accanto a s. Paolo, costruttore della Chiesa, che ancor vivo salì per grazia divina al cielo (If II 28-30): un accostamento destinato a rimanere inaccettabile ai teologi, ma che è strettamente consentaneo all'idea che D. ha della Chiesa e dell'Impero. Anche la descrizione degl'Inferi fatta da Virgilio - il poeta che lo Spirito Santo aveva illuminato facendogli predire inconsapevolmente la venuta del Messia, nella quarta egloga: cfr. Pg XXII 67-72 - assumeva valore di testimonianza (ancorché confusa, e corrotta dall'errore pagano), poiché derivava dalla tradizione sibillina (cui si attribuiva anche una profezia del Cristo). Talune riprese della struttura dell'Averno virgiliano, che vorremmo poter ricondurre entro i limiti dell'imitazione poetica, in questo contesto assumono improvvisamente un risvolto di tale gravità e importanza che non può essere passato sotto un silenzio di comodo.
Che D. parli di E. come personaggio provvidenziale non per adesione rettorica e per suggestione poetica ma per profonda convinzione, lo mostrano gli accenni ricorrenti in opere nelle quali non ha luogo la finzione poetica e dove pure la testimonianza virgiliana è addotta come indiscutibile. Se nell'epistola all'imperatore si rammentano severamente a Enrico i versi che parlano del destino di Enea (Ep VII 13 e 17; cfr. Aen. I 286-287 e IV 272-276), nella Monarchia tra le prove a favore del diritto dei Romani all'Impero è citato il duello vittorioso di E. con Turno (Mon. II IX 13), ed è ricordata la profezia di Anchise all'eroe (Mon. II VI 9; su quell'incontro D. modella l'episodio dell'avo Cacciaguida: cfr. Pd XV 27). L'esaltazione dell'Impero è dunque di necessità anche l'esaltazione di E. in quanto " padre del popolo romano ": qui quidem invictissimus atque piissimus pater quantae nobilitatis vir fuerit, non solum sua considerata virtute sed progenitorum suorum atque uxorum, quorum utrorunque nobilitas hereditario iure in ipsum confluxit, explicare nequirem (Mn II III 7). E. è nobile d'animo, valoroso guerriero, e tra i suoi avi sono principi di tutt'e tre i continenti (a dimostrazione dell'universalità dell'Impero): Assaraco dell'Asia, Dardano dell'Europa, Atlante (padre di Elettra) dell'Africa; non solo, ma E. avrebbe sposato tre donne, principesse dei tre continenti: Creusa, Didone, Lavinia. Questi particolari stanno così a cuore a D., che egli non esita a forzare un poco lo stesso testo virgiliano, pur di fargli significare ciò che esso non dice: II III 15 Secunda [cioè coniunx, § 14] Dido fuit, regina et mater Cartaginensium in Affrica; et quod fuerit coniunx, Idem noster [Virgilio] vaticinatur in quarto; inquit enim de Didone: " Nec iam furtivum Dido meditatur amorem: / coniugium vocat; hoc praetexit nomine culpam " (Aen. IV 171-172; cfr. invece Aen. IV 338-339 " nec coniugis unquam / praetendi taedas ").
L'interpretazione dantesca strettamente aderente al senso letterale dell'Eneide (pur con quelle interessate forzature di cui si è detto) non era del tutto pacifica nello stesso contesto dell'esegesi medievale, che anzi tendeva a dare maggior importanza ai significati morali e a scoprire valori allegorici a tutto danno del senso letterale (ad esempio, la discendenza di E. da Venere era spiegata come nascita da amore illegittimo; secondo altri, da una donna che per la sua bellezza aveva meritato quel soprannome. Su questo punto, per lui non facile, D. non si pronunzia). Ma la fede sicura con cui D. accoglie la versione virgiliana incontrò ben maggiori ostacoli nella nuova cultura umanistica. Dapprima, auspice soprattutto il Petrarca, si negò risolutamente la possibilità dell'incontro tra E. e Didone per riaffermare la tesi della fedeltà vedovile della fenicia (e dunque il racconto virgiliano non sempre era accettabile sul piano della verità storica); e del viaggio di E. agl'Inferi si accettò esclusivamente l'interpretazione negromantica (così, ad esempio, il Boccaccio). In seguito si affermò decisamente la lettura dell'Eneide come poema frutto di fantasia poetica, e la costruzione ideologica politico-religiosa di D. restò definitivamente tagliata fuori, destinata a essere radicalmente fraintesa. Di fronte alla problematica inquietante e comunque assai complessa proposta dall'E. dantesco, certo dantismo moderno (nel quale occorre anche il nome del Pascoli) ha preferito discettare su pseudo-problemi: ad esempio, quali ragioni avrebbero spinto D. a porre E. nel Limbo (If IV 122; la spiegazione è in Aen. VI 134) e se è destinato a essere un giorno tra i beati, o addirittura a ravvisare nell'eroe troiano il Messo divino di If IX 80 ss.