FURLANO, Enea
Nacque, con ogni probabilità intorno al 1475, in Friuli secondo la testimonianza di M. Sanuto (Diarii, II, col. 32). Lasciò presto la sua patria, desideroso di fare fortuna con le armi, per trasferirsi a Mantova, dove il marchese Francesco II Gonzaga era uno dei più famosi condottieri del tempo. Il F., grazie a doti di cortigiano che superavano quelle del soldato, entrò nella corte del Gonzaga e ne divenne un favorito, fino a ottenere da lui la promessa della mano della figlia naturale Teodora.
Dopo un apprendistato militare nella campagna contro Carlo VIII di Francia nel 1495, nell'ottobre del 1498 il F. accompagnò a Venezia Francesco II, che trattava le condizioni del grado di capitano generale della Repubblica. In quell'occasione, e d'allora in poi, il F. si presentò come "cavalier Cavriana de' Gonzaga", genero del marchese, vantando astutamente come legami di parentela quelli che erano rapporti di favore con le due illustri famiglie mantovane. Francesco II aggiunse alle sue richieste una condotta di 50 cavalleggeri per il suo favorito, ma il governo veneto mandò a monte l'intera trattativa, reputando il marchese instabile e succube dei cortigiani, fra i quali in primo luogo il Furlano. Il marchese lo rispedì a Mantova, biasimandolo di essere stato un pessimo consigliere politico.
Il F. riacquistò in breve il favore del marchese e accumulò una discreta fortuna personale. Tuttavia non rinunciò al sogno di diventare condottiero; nutriva un'invidia profonda verso gli altri cortigiani che avrebbero potuto superarlo da un momento all'altro nelle grazie di Francesco II, tanto più che il matrimonio con la giovane Teodora veniva ritardato. I sospetti del F. si addensarono su di un altro favorito, già condannato come "monatario" dal Consiglio dei dieci di Venezia, chiamato il "Milanese", che cercò di far assassinare nella chiesa di S. Francesco con un pugnale avvelenato. Il delitto fallì e Francesco II mise tutto a tacere, sospettando quali istigatori dell'attentato gli Este e Lucrezia Borgia.
Il F. concepì allora un piano più vasto: nel 1505, all'inizio di ottobre, due suoi sicari, Magrin e Malfatto, uccisero il "Milanese", mentre egli s'impadroniva a forza di Teodora Gonzaga, insieme con un grande numero di preziosi cavalli da guerra della scuderia marchionale, per poi fuggire a Casal Maggiore in territorio veneto. L'atto gli costò il bando da Mantova e la confisca dei beni, ma avrebbe dovuto permettergli di diventare finalmente genero, a tutti gli effetti, del marchese e di disporre delle basi sulle quali creare una propria compagnia di ventura. A tale scopo rinunciò pubblicamente alla taglia che Venezia aveva posto sul "Milanese", professandosi servitore di S. Marco. Inizialmente Venezia parve concedergli il diritto d'asilo, ma in seguito alle pressioni di Francesco II, che nel febbraio 1506 mandò il fratello Gianfrancesco al doge Leonardo Loredan per chiedere giustizia e scrisse a Bartolomeo d'Alviano descrivendo il suo ex favorito come uomo sleale e malvagio, mutò opinione. Così, con molta discrezione e con garanzie sulla sua incolumità, il F. fu riconsegnato ai Gonzaga, che lo chiusero in una cella del castello di Mantova mentre l'incolpevole Teodora venne trattata da adultera e relegata per il resto della sua vita in diversi castelli del Marchesato.
Venezia aveva però lasciato liberi di agire i due fratelli del F., Emilio e Alberto, anch'essi dediti alla carriera delle armi, che si adoperarono a preparargli il terreno per una fuga. Nel settembre 1509 egli riuscì a far innamorare di sé la figlia del castellano, che gli aprì le porte della prigione, e con lei fuggì di nuovo in territorio veneto. Dopo la battaglia di Agnadello Venezia aveva bisogno di chiunque fosse disposto a combattere per la Repubblica.
Astutamente, prima di raggiungere Venezia, il 1° ottobre fece una sosta al campo imperiale che assediava Padova, facendo finta di trattare con i Tedeschi ma in realtà spiando l'entità delle forze schierate e dei loro rifornimenti, che poi riferì ai Veneziani. Ricevette la promessa di una condotta, che tuttavia si fece attendere. Il 16 genn. 1510, esibendo una presunta lettera del papa, che lo invitava a entrare al soldo della Chiesa, mandò due servitori al Senato veneto per chiedere in maniera ultimativa o l'adempimento della promessa o un conveniente stipendio con pressioni sul marchese di Mantova (in quel momento prigioniero dei Veneziani) perché gli fossero restituiti i propri averi o il permesso di andarsene a Roma. I due furono congedati con nuove promesse.
Nell'attesa, il F. scriveva alla marchesa Isabella d'Este che non avrebbe più rivisto il marito; lettere che lo stesso Senato giudicava biasimevoli ma nondimeno gli permetteva di spedire. Finalmente il 22 maggio due oratori della Patria del Friuli chiesero un capo per la compagnia di 200 balestrieri a cavallo che il luogotenente di Udine Antonio Savorgnan voleva armare a spese della città, proponendo il nome del F., che in Friuli era riuscito a dare notizie di sé fin dal 1508. Il Consiglio dei dieci non ebbe nulla in contrario.
Alla fine del mese il F. arrivò a Udine, ma ignorava di essere solo strumento di un intrigo del Savorgnan, che coltivava segrete mire personali sulla città e sul Friuli. Il F. si avvide subito della poca voglia dei Friulani di mantenere altre truppe. Alla metà di giugno aveva con sé solo 100 balestrieri, che alloggiava in un'osteria di Valvasone, senza quei denari che chiedeva con insistenza per il completamento della compagnia. Infine, dopo ripetute pressioni da Venezia, ottenne un anticipo di 400 ducati dal Savorgnan e con quelli radunò 130 balestrieri a cavallo, qualche cavalleggero e degli stradiotti, arrivando al numero dei 200 che doveva condurre per contratto. Con questi il 20 giugno si diresse alla fortezza di Gradisca d'Isonzo.
Da lì il 4 luglio 1510 il F., Teodoro dal Borgo e Alvise Dolfin mossero alla testa delle loro truppe per contrastare una "cavalchata" imperiale uscita da Gorizia, si scontrarono a Cormons e la obbligarono alla ritirata. Il 27 luglio intercettò per caso alcuni soldati nemici che avevano saccheggiato il borgo di Strassoldo e fece due prigionieri. Il 4 agosto chiese il permesso di attuare un suo piano per attirare in un tranello una parte della guarnigione di Gorizia; l'idea fu accolta e permise la cattura di 38 stradiotti.
Il Dolfin scrisse il 12 agosto a Venezia, lodando il F., che da parte sua vi spedì un uomo, Francesco da Conegliano, a magnificare l'azione. Il 15 agosto però lo stesso Dolfin, provveditore di Gradisca, a causa delle avvisaglie di peste, dispose di ridurre al minimo le truppe stanziate in città. Il F. tornò così a Udine, anche perché il denaro delle paghe era già terminato e i suoi soldati protestavano.
Non riuscendo a ottenere soddisfazione in Friuli, il F. condusse l'intera compagnia a Mestre, al sicuro, e il 18 settembre chiese una nuova destinazione. Infine fu spostato nel Vicentino presso il provveditore Andrea Gritti, impegnato contro i Francesi.
Qui il F. prese parte alla battaglia di Bevilacqua di Montagnana, nella quale i Francesi lasciarono 440 morti e 110 prigionieri, guadagnandosi la stima del provveditore che in novembre, quando ricevette l'ordine di rimandare il capitano in Friuli "per esser stato et praticho di lì", fece di tutto per ritardarne la partenza. D'altra parte il F. obbedì senza fretta passando per Feltre, da Giovanni Dolfin, che utilizzò i suoi balestrieri e quelli di Battista Tirondola in un'azione all'imbocco della Valsugana, conclusa col saccheggio e il rogo dei paesi di Ospedaletto e Grigno, col bottino di 110 bovini, 20 "animali grossi" e molte pecore.
All'inizio del 1511 il F. si schierò sull'Adige, sostenendo dei combattimenti nella zona di Porto Legnago, ma la sua abitudine cortigianesca di dire maldicenze e "zanze", nonché il desiderio di vendetta del Gonzaga, gli fecero piovere sul capo l'accusa di intesa col nemico. Per ordine del Consiglio dei dieci fu arrestato il 4 giugno e interrogato da Bernardo Bembo, Piero Cappello, Marco Loredan e Angelo Trevisan, che gli tolsero la compagnia, ridotta a 110 uomini, per darla a Guido Rangone, e decisero anche la carcerazione di suo fratello Emilio, che si trovava a Padova. Ma il 26 agosto i due fratelli, non risultando prove a loro carico, furono liberati su cauzione di 2.500 ducati e quindi, il 4 marzo 1512, definitivamente assolti.
Nel 1513 il F. passò alle dipendenze del capitano generale di Venezia Bartolomeo d'Alviano, con il grado di capitano dei cavalleggeri.
Nel 1517, stanco di fare l'ufficiale in seconda, accettò l'offerta di entrare al soldo di Leone X nell'esercito del nuovo duca di Urbino Lorenzo de' Medici.
L'8 maggio fu colpito da due schioppettate presso Pesaro e rischiò di morire, ma in giugno era già guarito e condusse due "barche longhe" contro dei pirati schiavoni, catturandoli dopo un arrembaggio. Come ormai sua abitudine, si accattivò anche la simpatia del Medici, che lo inviò in varie missioni alla ricerca di provvigioni per le truppe a Milano, Ravenna, Firenze e Roma.
Terminata pure la guerra d'Urbino, rimase al servizio del papa. Nel 1519 morì Francesco II Gonzaga e il F. pensò di sfruttare i nuovi protettori per recuperare a Mantova la posizione di un tempo. Così Leone X, con un breve a Federico Gonzaga del 4 maggio 1519, chiese per il F. la reintegrazione nelle cariche e la restituzione dei suoi beni, ben meritati per le grandi prove di lealtà e affezione date dal F. a Lorenzo de' Medici. Inoltre mandò in missione a Mantova Pietro Bembo, che perorò la causa del F. in due colloqui, a luglio, con Federico e Isabella. Nel modo più diplomatico possibile, però, la marchesa di Mantova fece presente al papa che Francesco II non aveva perdonato il F. neanche in punto di morte e non si poteva contravvenire così presto alla volontà del defunto.
Eppure il F. aveva intrapreso per conto proprio un riavvicinamento ai Gonzaga, grazie a suo fratello Alberto, che era entrato nell'esercito di Federico già nel 1517. Inoltre, durante la permanenza a Roma, fece arrivare a Mantova lettere di raccomandazione firmate da cardinali e offerte di servizi particolari a danni di altri nemici dei Gonzaga. Tenne anche un comportamento relativamente prudente, ad esempio nel marzo 1520: coinvolto in una rissa tra gli uomini degli Orsini e quelli di Giovanni de' Medici, non replicò in alcun modo alle accuse di vigliaccheria lanciategli platealmente da quest'ultimo.
Leone X rinnovò nell'agosto 1520 le pressioni su Mantova, affidando un'altra missione a vantaggio del F. al proprio segretario Fabrizio Peregrino e il 23 settembre trovò una soluzione teologica al problema. Isabella d'Este, che chiedeva per il figlio Federico la nomina a capitano generale della Chiesa, ritenne di non dover dispiacere il papa e nel marzo 1521 il F. tornò a Mantova, reintegrato nel suo grado, provvisto di tutto quanto aveva prima tranne la moglie Teodora, la cui reclusione non causava al marito grandi problemi.
Per dimostrare la sua gratitudine alla marchesa organizzò l'assassinio di Ludovico Camposampiero, un altro ex cortigiano di Francesco II, avvenuta a Roma davanti alla chiesa della Pace il 19 maggio a opera di una banda di sette armati capeggiati da Emilio Furlano. Logico allora che Baldassarre Castiglione vedesse il F. "accarezzato et honorato" da Federico e Isabella. A questo punto avrebbe potuto ritirarsi a fare vita di corte ma l'ambizione e la passione per le armi ebbero nuovamente la meglio su di lui.
Nel luglio al ritorno da Napoli, dove si era rifugiato suo fratello dopo il delitto, il F. entrò al servizio del duca di Ferrara, che pure combatteva contro i suoi protettori, alleato dei Francesi. Le ultime fortune avevano un po' esaltato il F., che tra agosto e settembre girava per il campo francese, promettendo al maresciallo di Lautrec, Odet de Foi, la cattura come niente fosse di 2.000 fanti spagnoli del papa. Il Lautrec però, al corrente della sua fama di cortigiano, non si fidò di lui. Il F. allora raggiunse Alfonso d'Este, che aveva attraversato con il suo esercito il Po su di un ponte di barche, a Bondeno.
Il duca decise di mandare la compagnia del F. in avanscoperta a occupare il piccolo fortilizio di Finale, situato in zona poco distante che si riteneva sgombra da nemici. Invece proprio in quella direzione avanzavano i fanti di V. Vitelli e R. Ramazzotti. Egli se ne accorse e chiese soccorso ma nel campo estense per due volte non credettero a quelle che sembravano le fantasie di uno spaccone. Il F. decise di non morire da cortigiano ma da soldato e ordinò la resistenza a oltranza. I pontifici, sopraggiunti la notte del 9 ott. 1521, lo massacrarono con tutti i suoi uomini dopo una strenua difesa, che dette ad Alfonso d'Este il tempo di tagliare il ponte di Bondeno e fuggire a Ferrara.
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