ENDOSCOPIA
(XIII, p. 961)
Una nuova fase nella e. ha avuto inizio nel 1958 a opera di Hirschowitz, Curtiss e Peters, con la realizzazione di un endoscopio totalmente flessibile, detto anche fibroscopio per la natura del materiale usato, basato sullo sfruttamento delle proprietà fisiche delle fibre di vetro (ottima conduzione di immagini e di luce, flessibilità, resistenza alla trazione e al calore) e che consente di effettuare un'esplorazione meno traumatica per il paziente, raggiungendo aree ``cieche'' o poco accessibili allo strumento rigido. L'atto diagnostico viene completato dall'esecuzione di fotografie e di riprese televisive delle cavità studiate, grazie anche all'impiego di generatori di luce a elevata intensità (fonti allo xeno). La trasmissione televisiva delle immagini consente di oggettivare la diagnosi attraverso l'osservazione e la discussione collegiale.
Oggi l'e. permette di esplorare vari distretti: i ventricoli cerebrali, le articolazioni, il tubo digerente, le vie biliari e pancreatiche, le cavità peritoneale, pleurica, vaginale, del testicolo, le vie aeree tracheobronchiali, il cavo faringo-laringeo, le cavità paranasali, le vie urinarie, ecc. In tutte queste aree all'impiego diagnostico si aggiunge quello terapeutico nei suoi vari aspetti. Piccole telecamere vengono applicate agli oculari degli endoscopi rigidi (laparoscopi, cistoscopi, laringoscopi) poiché il sistema ottico rigido, costituito da lenti, offre un'ottima qualità d'immagine. La possibilità di ottenere una valida documentazione scientifica con strumenti flessibili, invece, trova un limite tecnico nella struttura stessa dei fibroscopi costituiti da un fascio di sottili fibre cilindriche flessibili, di materia trasparente, strettamente accostate una all'altra; a un'estremità del fascio si ha un'immagine per punti della zona che si affaccia all'altra estremità.
L'introduzione della videoendoscopia ha costituito indubbiamente un progresso nella qualità e nella quantità delle informazioni fornite dall'esame endoscopico. La videoendoscopia elettronica consente infatti di riportare l'immagine endocavitaria su uno schermo televisivo così da permettere l'osservazione simultanea da parte di più osservatori. L'immagine non è più trasmessa da un fascio di fibre ottiche, ma da un cavo elettrico connesso a una telecamera miniaturizzata posta sulla punta dell'endoscopio. Simile concettualmente all'occhio composto di alcuni insetti, la telecamera è formata da decine di migliaia di sensori luminosi (CCD: Charge Coupled Device) che trasformano l'energia luminosa in energia elettrica; gli impulsi vengono elaborati da un microprocessore d'immagine connesso all'apparecchio endoscopico.
Il perfezionamento delle tecniche, l'alta specializzazione richiesta per l'impiego della strumentazione, l'integrazione tra le principali metodiche chirurgiche e l'impulso fornito dalla ricerca scientifica sono tutti fattori che hanno progressivamente contribuito a configurare l'e. come una disciplina autonoma; a essa spetta attualmente un ruolo fondamentale sia nella diagnosi sia nella terapia.
La definizione d'immagine raggiungibile con metodiche non invasive (ecografia, tomografia computerizzata, risonanza magnetica nucleare) ha ridimensionato le indicazioni di alcuni esami endoscopici, quali la mediastinoscopia, la pleuroscopia e la laparoscopia, ma questi stessi esami stanno trovando una nuova dimensione negli aspetti operativi, che si vanno affermando sempre di più. L'esplorazione endoscopica permette l'osservazione macroscopica dettagliata e a colori delle cavità studiate e il prelievo di frammenti delle aree sospette per esame isto-citologico. L'indagine endoscopica si rivela utile soprattutto in campo oncologico poiché consente di diagnosticare i tumori in fase precoce esaminando soggetti sintomatici o soggetti che non abbiano sintomi di malattia, ma che appartengano a gruppi ad alto rischio di sviluppare tumori. Nello stomaco, per es., l'e. ha condotto al riconoscimento e alla definizione di carcinomi early (confinati alla mucosa e sottomucosa), small (con diametro inferiore a 10 mm) e minute (con diametro inferiore a 5 mm). La loro identificazione è resa possibile dall'attenta sorveglianza di patologie ad alto rischio di degenerazione, di lesioni pre-cancerose e di organi già operati per neoplasia. Queste lesioni hanno possibilità di guarigione in oltre il 90% dei casi, con interventi estremamente limitati. Questo consente di ridurre il trauma per il paziente e i costi sociali, perché ne consegue una interruzione dei costi di cura e una rapida ripresa dell'attività lavorativa.
L'individuazione di aree patologiche può essere facilitata dall'impiego di tecniche collaterali come la colorazione o il rilievo della fluorescenza (fig. 1). I coloranti vitali (lugol, blu di toluidina, blu di metilene) vengono spruzzati sulla superficie dell'organo da esaminare; ciò consente di evidenziare in modo diretto o indiretto le aree in cui si è verificata una deviazione citoarchitetturale di tipo francamente maligno o premaligno (metaplasie, displasie) anche se non macroscopicamente evidente. La fluorescenza, che viene eccitata adoperando sorgenti di luce laser, si avvale della somministrazione per via sistemica di sostanze fotosensibili capaci di fissarsi nel tessuto tumorale con concentrazione e per periodi di tempo superiori a quelli ottenibili nel tessuto normale. Le porfirine sono le sostanze attualmente più usate a questi scopi. Quando una radiazione laser a bassa lunghezza d'onda viene portata attraverso l'endoscopio all'interno della cavità da esaminare e raggiunge del tessuto ad alta concentrazione di porfirina, ne eccita la fluorescenza; tale segnale, opportunamente amplificato, consente l'individuazione della lesione. Recentemente, l'impiego di piccole sonde ecografiche, poste sull'estremità dell'endoscopio, ha trovato vaste applicazioni nella diagnostica. L'ecoendoscopio consente di discriminare tra lesioni maligne e benigne, di individuare precocemente recidive anastomotiche, di definire il livello di infiltrazione intramurale delle neoplasie e l'interessamento di linfonodi e strutture adiacenti (vasi, organi) con limiti di risoluzione sempre minori.
Endoscopia Terapeutica. - La terapia endoscopica iniziò negli anni Settanta quando si effettuò il primo intervento di asportazione di polipi mediante ansa diatermica; tale metodica costituisce un atto di terapia e contemporaneamente di prevenzione. Infatti la polipectomia previene la trasformazione da polipo benigno a cancro, soprattutto nel colon e nel retto.
Per via endoscopica è possibile effettuare, oltre alla polipectomia, la rimozione di corpi estranei, la sclerosi di varici esofagee (mediante iniezione locale di sostanze sclerosanti), l'emostasi di lesioni sanguinanti (mediante iniezione locale di farmaci vasocostrittori, applicazione di collanti tessutali, elettrocoagulazione, fotocoagulazione con luce laser), l'asportazione di lesioni benigne ostruenti (adenomi bronchiali e prostatici), il trattamento della calcolosi biliare (mediante asportazione, frantumazione e dissoluzione chimica dei calcoli) e infine veri e propri interventi di chirurgia addominale a cielo coperto (colecistectomia perlaparoscopica, lisi di aderenze, asportazione di cisti, legatura delle tube, gastrostomia, drenaggi addominali).
Una menzione particolare merita il trattamento endoscopico di neoplasie in stadio iniziale. Accanto alla elettroresezione con ansa diatermica di polipi degenerati, esiste la possibilità di trattare con energia laser i tumori raggiungibili per via endoscopica. I tipi di laser principalmente impiegati sono quello a neodimio-YAG (lunghezza d'onda 1064 nm, ad alto potere di penetrazione), quello a CO2 (lunghezza d'onda 10.600 nm, a basso potere di penetrazione) e quello ad argo (lunghezza d'onda 488÷514 nm, a potere di penetrazione intermedio); di essi, quello a CO2 può essere utilizzato per il momento solo con strumenti rigidi (in campo ginecologico e otorinolaringoiatrico) per motivi tecnici legati alla trasmissione della radiazione. Del laser può essere sfruttato l'effetto termico o esso può essere usato a basse potenze per indurre un effetto fotodinamico utilizzabile a fini terapeutici (terapia fotodinamica): nel primo caso la radiazione viene applicata direttamente sul tessuto con sviluppo di calore che raggiunge alte temperature, mentre nel secondo l'irraggiamento attiva localmente sostanze chimiche precedentemente somministrate. La terapia fotodinamica (PDT) viene effettuata somministrando ematoporfirine o loro derivati (HpD) con modalità analoghe a quelle utilizzate per la diagnostica a fluorescenza. L'effetto citocida si manifesta quando il tessuto maligno, che ha accumulato HpD, viene illuminato con luce rossa di 630÷640 nm ottenuta da un laser a colorante (dye-laser). La reazione luce-farmaco fotosensibile determina la liberazione di ossigeno di singoletto, altamente reattivo, mediatore dell'effetto citocida. In questo modo è possibile trattare lesioni pre-cancerose e neoplasie a estensione superficiale degli apparati respiratorio e digerente in pazienti ad alto rischio operatorio.
Le terapie endoscopiche a scopo palliativo vengono effettuate per arrestare sanguinamenti o ripristinare il transito di organi cavi, in pazienti affetti da neoplasie ostruenti, quando queste non siano operabili perché l'intervento presenta alto rischio o la malattia è troppo avanzata. La palliazione del sanguinamento di masse neoplastiche viene eseguita abitualmente mediante fotocoagulazione laser. In questi interventi il laser a neodimio-YAG viene preferito al laser ad argo poiché il maggior potere di penetrazione consente di coagulare in profondità il tessuto neoplastico; infatti la particolare affinità della luce dell'argo per l'emoglobina fa sì che la radiazione venga assorbita sulla superficie della lesione sanguinante.
La disostruzione dell'albero tracheo-bronchiale e del tratto gastro-intestinale viene ottenuta con metodiche endoscopiche diverse a seconda delle caratteristiche della lesione. Se la neoplasia si presenta come una vegetazione endoluminale, la riduzione della massa si effettua con l'elettroresezione e la fotocoagulazione laser (neodimio-YAG laser). In questi casi l'effetto è immediato; meno rapida è la ricanalizzazione ottenuta con la necrosi del tessuto tumorale indotta dall'iniezione locale di sostanze chimiche (alcool, polidocanolo). Nei casi in cui prevalgono l'infiltrazione o la compressione estrinseca, la pervietà del lume viene ottenuta con dilatazione meccanica e introduzione di un tubo protesico che mantiene beante il lume del viscere. La dilatazione può essere eseguita con dilatatori pneumatici o pieni; i primi vengono preferiti nel trattamento di stenosi angolate o su anastomosi, ove l'impiego di quelli pieni è più rischioso. La dilatazione pneumatica avviene sotto controllo visivo diretto, poiché il catetere a palloncino viene introdotto nel canale operativo del fibroscopio. I dilatatori pieni sono di tipo cilindrico-conico (di Savary-Gilliard e di Celestin) o ad oliva (di Eder-Puestow); i primi sono più flessibili e sono idonei a una progressione più graduale. Il posizionamento di un filo guida metallico attraverso la stenosi sotto controllo endoscopico e radioscopico precede la dilatazione, che avviene sotto controllo radioscopico facendo scorrere sul filo guida una serie di dilatatori di calibro crescente.
Nei casi in cui il tumore vegetante provoca una stenosi serrata, la dilatazione meccanica precede il trattamento laser affinché questo possa essere effettuato in senso retrogrado. Le endoprotesi vengono posizionate attraverso tratti stenotici dell'apparato respiratorio o del tratto gastro-intestinale superiore per stabilizzare i risultati ottenuti con le dilatazioni e/o la laserterapia oppure per occludere l'orifizio di tramiti fistolosi tra l'esofago e le vie aeree, il mediastino o, in certi casi, il peritoneo. Il tipo di protesi (Celestin, WilsonCook, Atkinson) viene scelto in base alle caratteristiche della stenosi; esistono delle protesi con un manicotto gonfiabile, cosiddette ``cuffiate'', che vengono abitualmente impiegate per il trattamento palliativo di neoplasie esofagee complicate da fistolizzazione.
Un cenno a parte meritano la diagnostica e la terapia endoscopica delle patologie bilio-pancreatiche. L'impiego di un duodenoscopio con visione laterale consente l'osservazione frontale della papilla di Vater e della cosiddetta ``area vateriana'', dove possono estrinsecarsi lesioni maligne e benigne; nell'orifizio papillare possono essere introdotte pinze e spazzole, per prelevare sotto controllo radioscopico campioni di tessuto per esame isto-citologico, e cateteri, per iniettare mezzi di contrasto nelle vie biliari e pancreatiche (colangiopancreatografia retrograda endoscopica).
Le metodiche operative iniziarono nel 1973 con la papillosfinterotomia endoscopica; la sezione dello sfintere comune, associata o meno a quella dello sfintere proprio biliare, viene praticata abitualmente allo scopo di estrarre calcoli dalla via biliare principale e da quelle intraepatiche o di introdurre tubi protesici. Le lesioni maligne itterigene vengono successivamente trattate a scopo palliativo mediante posizionamento di drenaggi esterni (naso-biliari) o interni (endoprotesi), preferibilmente di largo calibro (fino a 12 French); quando la stenosi neoplastica è troppo serrata, l'introduzione di cateteri e protesi per drenaggio viene fatta precedere da dilatazioni meccaniche.
Più recente è stata l'introduzione di sistemi di fibroscopi mother/baby (fig. 2); si tratta di duodenoscopi a grosso canale (motherscope), all'interno del quale si introduce un fibroscopio sottile (babyscope) che può essere fatto risalire nella via biliare principale e in quelle epatiche. L'esplorazione endoscopica per via transpapillare dell'albero biliare consente di effettuare trattamenti disostruttivi sotto diretto controllo visivo, analogamente a quanto avviene per l'apparato respiratorio e il tratto gastro-intestinale.
La patologia benigna di più frequente riscontro è la litiasi delle vie biliari extraepatiche, che viene trattata con successo per via endoscopica nel 90÷95% dei casi. I calcoli vengono estratti mediante cateteri a palloncino e cestelli di Dormia (fig. 3 e 4); quando le dimensioni dei calcoli, valutate in termini assoluti o relativi alla sfinterotomia attuabile, non consentono la loro estrazione immediata esistono diverse possibilità. Se i calcoli sono radiotrasparenti, possono essere frantumati mediante litotrissia extracorporea a onde d'urto dopo l'esecuzione di sfinterotomia endoscopica e il posizionamento di un drenaggio naso-biliare. In alternativa, il catetere naso-biliare può essere utilizzato per l'instillazione di sostanze litolitiche (metil-ter-butil-etere).
Esistono infine le metodiche di litotrissia perendoscopica transduodenale, il cui impiego non è condizionato dalla composizione chimica dei calcoli; la frantumazione viene così ottenuta con energia meccanica, elettroidraulica o laser (per effetto sia termico che meccanico). Sono attualmente in fase di studio sonde a ultrasuoni utilizzabili per via endoscopica transpapillare. Queste metodiche trovano già applicazione nell'apparato urinario.
Questa esposizione sulle diverse tecniche di applicazione dell'e. dimostra come essa stia vivendo un momento di grande sviluppo sia nel campo diagnostico sia in quello terapeutico. Vedi tav. f.t.
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