DUNI, Emmanuele
Nacque a Matera il 24 marzo 1714 dalle seconde nozze di Francesco, maestro di cappella nella città lucana, con Agata Vacca, originaria di Bitonto. Nella sua prima educazione ebbe certo un peso rilevante la cultura musicale dell'ambiente familiare. Assistito dalle sorelle maggiori (le quali, abbracciata la vita religiosa, furono insegnanti di musica nei chiostri di Trani e Monopoli), il D. poté raggiungere agevolmente un'adeguata preparazione in campo musicale.
Anche se non scelse la professione paterna, e non segui l'esempio dei fratelli maggiori Antonio ed Egidio Romualdo, destinati (soprattutto il secondo) a notorietà internazionale come compositori, tentò di mettere a frutto il suo giovanile tirocinio e lasciò, secondo la testimonianza di L. Giustiniani, "delle composizioni da gravicembalo, nelle quali oltre del vedersi osservate le regole dell'armonia, vi si osserva benanche la non comune inventrice fantasia".
L'impegno profuso in queste prime prove dovette però ben presto scemare a vantaggio degli studi giuridici intrapresi all'università di Napoli. Il D. s'incammino allora senza incertezze sulla strada della dedizione scientifica alle discipline storiche e legali, che lo avrebbe condotto, da Matera e Napoli, su una cattedra della Sapienza di Roma e, soprattutto, all'incontro decisivo con le opere di Giambattista Vico, che in lui trovarono un sostenitore tenace ed appassionato, ed un ripetitore indubbiamente poco originale e ben lontano dalla ricchezza del modello, ma di sicura efficacia sul piano della circolazione delle idee. La fortuna di Vico nel Settecento italiano, ed anche europeo, deve infatti al D. alcuni dei suoi episodi più noti e significativi.
Non sappiamo con esattezza quando si recò per la prima volta a Napoli per studiarvi giurisprudenza (certo prima della fine degli anni Trenta) e non disponiamo di notizie precise sull'ambiente da lui frequentato durante i soggiorni universitari. Indicazioni preziose a quest'ultimo riguardo ci vengono però sia dalla sua prima opera a stampa, introdotta da uno scambio epistolare con Giuseppe Pasquale Cirillo, uno dei professori più prestigiosi dell'ateneo napoletano (e di cui non sarà inutile ricordare l'ammirazione per Vico); sia dal Saggio del 1760, dedicato al promotore della politica riformatrice del Regno meridionale, il ministro Bernardo Tanucci. Qualche maggiore puntualizzazione sulla sua carriera accademica, rispetto alle scarne cronache biografiche da tempo note, è invece desumibile dagli incartamenti concorsuali della Sapienza romana, recentemente segnalati da M. Guercio. Laureatosi a Napoli in utroque iure nel novembre 1742, e superato con il massimo grado di approvazione l'esame per l'esercizio della professione, il D. (anche in seguito alla morte del padre nel dicembre dello stesso 1742) negli anni immediatamente successivi abbandonò definitivamente Matera, dove aveva già intrapreso la pratica dell'avvocatura e ricoperto per un triennio l'ufficio di lettore di diritto civile e canonico nel locale seminario arcivescovile.
È probabile che almeno per un certo periodo dimorasse stabilmente a Napoli. Nell'autunno del 1746 partecipò in Roma al concorso per una cattedra soprannumeraria di legge alla Sapienza, classificandosi al secondo posto, ex aequo con altri due concorrenti. dietro al vincitore, il sacerdote romano Silverio Orbini. Identico risultato ottenne l'anno successivo al concorso per la cattedra di logica, che fu assegnata al veneto Lorenzo Savorini. Nella domanda di ammissione presentata in questa seconda occasione si dichiarava "versato in molte altre facoltà, come filosofia, teologia, storia sacra e profana, jus pubblico, ecc." (Archivio di Stato di Roma, Università di Roma, busta 91, p. 117v): una diretta testimonianza, dunque, del dilatarsi della sua formazione culturale entro un ricco orizzonte di interessi. Ormai noto negli ambienti accademici, ed apprezzato dallo stesso card. Argenvilliers, a cui papa Lambertini, Benedetto XIV, aveva affidato il difficile compito della riforma della Sapienza, si trasferì a Roma ben prima di riuscire vincitore nel concorso del settembre 1753 per una cattedra soprannumeraria della facoltà legale (ma è da ritenere falsata per eccesso la dichiarazione da lui resa in questa circostanza di essere "da dieci anni dimorante in Roma"). Fu qui che pubblicò, con una dedica a Benedetto XIV, la sua prima opera, il De veteri ac novo iure codicillorum commentarius (Romae 1752).
Concepita orignariamente come confutazione dell'opinione espressa da J. H. Böhmer (in una dissertazione riproposta in appendice al Commentarius), secondo cui la tarda giurisprudenza romana avrebbe ammesso la validità dei codicilli, purché confermati da testamento, anche in assenza del requisito dei cinque testimoni, lo scritto duniano aveva poi assunto la forma di un esame erudito e sistematico dell'intera evoluzione dell'istituto del codicillo. L'analisi critico-legale lasciava di rado spazio all'evidenziazione delle più personali matrici culturali dell'autore (come nel caso dell'esigenza più volte sottolineata, e in cui si potrebbe forse ravvisare una prima suggestione vichiana, di non confondere le formulazioni giuridiche appartenenti a diverse fasi storiche; o come nella discussione, condotta in riferimento a Locke sui concetti di identità e differenza: cfr. De veteri, p. 241) e si manteneva rigorosamente vincolata all'ermeneutica giuridica.
Con il Commentarius il D. acquistò fama di solida dottrina, riscuotendo pubblici consensi: "ingegno, sapere, eloquenza, ordine, e politezza scintillano in ogni parte di questa sua nobil fatica", scrivevano pochi mesi dopo la pubblicazione le Memorie per servire all'istoria letteraria di Venezia (1753, p. 12); e con eguali accenti le ugualmente veneziane Novelle della repubblica letteraria (1754, pp. 59 ss.) lodavano "l'esattezza e l'erudizione somma legale" di "questo trattato scritto con bellissimo metodo".La favorevole risonanza ottenuta dall'opera agì da spinta decisiva per il successo conseguito nel già menzionato concorso del 1753. Corrisponde ad un singolare equivoco la tradizione, risalente al Giustiniani, secondo cui in un concorso precedente il D. avrebbe "riportati eguali voti con un Romano", che poi gli sarebbe stato preferito solo a causa della cittadinanza d'origine. A vero invece che proprio nel 1753 egli risultò primo a pari merito con il senese Niccolò Salulini, ed ottenne la nomina grazie al favore accordatogli da Benedetto XIV (al quale fu riservata la deliberazione finale), nonostante che la candidatura del suo concorrente, da anni membro dell'Accademia teologica della Sapienza, fosse stata autorevolmente sostenuta. Sempre per "ordine espresso" di papa Lambertini, gli fu da subito assegnata la cattedra delle Pandette (Archivio di Stato di Roma, Università di Roma, busta 88, c. 245v, in data 17 sett. 1753), che tenne nell'anno accademico 1753-54 in qualità di lettore soprannumerario, per entrare poi dall'anno successivo nell'organico ordinario. Fino alla morte nel 1781, "per quasi trent'anni, con una costanza davvero impressionante, dal 6 novembre al 21 luglio di ogni anno accademico, Duni tenne la sua lezione giornaliera, sempre nella seconda ora mattutina" (M. Guercio).
La tranquillità e la sicurezza del nuovo incarico diedero finalmente modo al professore materano di confrontarsi a fondo con i temi più speculativi delle discipline giuridiche, e di cercare negli autori moderni, "massime oltramontani", le basi adeguate di una concezione scientifica del diritto, di "un finito sistema dell'Universal Giurisprudenza". Di questi primi anni di insegnamento egli stesso ci ha lasciato una cronaca enfatica ma sostanzialmente attendibile, descrivendo al Tanucci, nella dedica del Saggio sulla giurisprudenza universale, il trascorrere dei suoi studi "in mezzo ad un tempestoso mare di scritti" e l'approdo conclusivo "nel porto della sapienza dell'incomparabile, (e dicasi pur francamente) del gran filosofo, filologo e giureconsulto Giambattista Vico".
Croce suggerì l'ipotesi che il D. avesse frequentato lo studio privato di Vico: circostanza che il D. tuttavia non menziona, e che non risulta da altri documenti o testimonianze (talché Gennarelli la escluse affatto). Alle opere vichiane egli confessava bensi di essersi accostato più volte nel passato (e probabilmente fin dagli anni napoletani), ma di essere riuscito a "soffrirne l'amaro", a penetrare la scorza di un linguaggio "tutto metafisico", solo negli anni più recenti, sotto la spinta concomitante delle nuove responsabilità universitarie e dell'insoddisfazione crescente per i sistemi filosofici più accreditati. Il "sorprendente piacimento" tratto dalle prime occasionali letture di Vico aveva esercitato un'attrazione ricorrente e si era infine tramutato in adesione incondizionata.
Eleggendo Vico a suo maestro, il professore della Sapienza aveva ora in animo di realizzare il programma di un diritto universale come "fonte di tutte le leggi e costumi umani", come "scienza del mondo degli uomini". Nacque cosi, quale prima anticipazione di un'opera sistematica e compiuta a cui dedicare ogni energia, il Saggio sulla giurisprudenza, universale in cui si propone altresì la metodo, colla quale sarà pienamente trattata (Roma 1760). L'operetta comparve contemporaneamente, in forma di articolo e senza la lettera dedicatoria, anche sulla rivista stampata a Roma dai fratelli Pagliarini (Giornale de' letterati per gli anni MDCCLVIII, e MDCCLIX, art. XXI, pp. 305-359): circostanza generalmente trascurata, ma non priva di rilievo per un'esatta valutazione della diffusione di questo scritto duniano.
Il Saggio indicava esclusivamente nel "vero", o conformazione dell'intendere all'ordine delle cose, il principio unitario delle conoscenze umane, a cui ricondurre anche la fondazione delle scienze morali. Il bene o "vero morale", che differisce dal vero metafisico o matematico perché comporta anche l'"elezione" volontaria del vero conosciuto, si esprime come "onestà" (retto comportamento dell'uomo riguardo a se stesso) e come "giustizia" (retta distribuzione delle utilità tra gli uomini associati). Il riferimento a questo divino ordine provvidenziale, che garantisce appunto la coincidenza di "verum" e "bonum", è dunque un presupposto imprescindibile della individuazione delle immutabili leggi morali e dell'eterno diritto di natura. Ma la regolazione provvidenziale del mondo umano vive anche nella dimensione storica, attraverso l'"autorità" dell'arbitrio (il legislatore) e il "certo" delle leggi positive. Il diritto universale - scienza delle forme del governo provvidenziale dei costumi e degli assetti sociali - si articola perciò in tre principali codici: 1) il codice razionale del diritto di natura, che discende direttamente dal vero eterno; 2) il diritto delle genti, che riflette l'uniformità del corso storico delle nazioni e si evolve secondo il ritmo necessario della storia mentale del genere umano (sicché usi e costumi, "nelle date uguaglianze di etadi d'ogni nazione, han dovuto necessariamente esser uniformi, come nati dalla uniformità delle idee, almeno quanto a quei capi di leggi, che riguardano il sostegno, l'ordine, e la conservazione d'ogni società, e repubblica": Saggio, p. 36); 3) il codice propriamente civile o positivo, che, secondo la formula di Ulpiano, consta delle "aggiunte e detrazioni" contingenti, dipendenti dalle particolarità storiche delle diverse nazioni. Quest'ultimo codice, aggiungeva il D., corrisponde a quel livello d'indagine che Montesquieu ha affrontato nell'Espritdes lois, senza però evidenziarne i nessi teorici con l'immutabilità dei vero (diritto di natura) e l'uniformità del certo (diritto delle genti).
Il Saggio è insomma, come si vede, una mera riformulazione sintetica, con pretese sistematizzanti, delle problematiche vichiane (qui, soprattutto, con particolare riferimento al De Uno), assunte però, come notò M. Ascoli, in un quadro concettuale notevolmente irrigidito, incapace di conferire vitalità al tema della compenetrazione di vero e certo, di ordo e facere. Ben si comprende, dunque, come al D. sia stata mossa, da Ferrari a Croce, Taccusa di plagio: tanto più che agli espliciti riconoscimenti di un profondo ma generico debito intellettuale nei confronti di Vico fa da contrappunto, nel Saggio come negli scritti successivi, la quasi totale assenza di riferimenti specifici e trasparenti alle opere vichiane. Tuttavia, al di là del giudizio sul D. (che del resto lo stesso Croce accostò, per questo aspetto, a Genovesi, Pagano, Filangieri, ecc.), si ha l'impressione che la semplice e sola etichetta di "plagio" comporti il rischio di una sottovalutazione eccessiva delle forme spesso criptiche e sotterranee, ma non perciò meno consistenti, in cui l'influenza di Vico ebbe modo di manifestarsi già lungo il corso dei XVIII secolo. Resta il fatto che "negli scritti, dalla cattedra in Roma per oltre venticinque anni il Duni tenne desto il culto e la tradizione del Vico negli studi giuridici" (G. Solari).
Dopo la pubblicazione del Saggio, il D. non si applicò immediatamente al compimento dell'edificio della "giurisprudenza universale", e preferi invece mettere alla prova il nesso vichiano di filosofia e filologia sul terreno specifico, ma paradigmatico, della storia di Roma. Era certo il terreno più congeniale alla sua formazione culturale: ed infatti, pur mutuando sempre da Vico l'intero bagaglio delle intuizioni teoriche, storiche e filologiche, egli seppe produrre in questa occasione la sua opera più valida e compiuta, non tanto per gli sparsi spunti originali di analisi, quanto per l'intelligente sistemazione ed utilizzazione in un coerente tessuto narrativo della ricchissima eredità del Vico romanista. L'Origine, e progressi del cittadino e del governo civile di Roma (Roma 1763-1764, in due tomi) è divisa, come annuncia il titolo, in due sezioni distinte, che procedono parallelamente secondo la scansione delle età vichiane.
Da una parte, la progressiva estensione alla plebe dei diritti civili e politici di cittadinanza, inizialmente riservati alle gentes patrizie in virtù del monopolio religioso degli auspici; dall'altra, ma congiuntamente, l'evoluzione del regime politico-istituzionale lungo le tre tappe dell'aristocrazia, democrazia e monarchia (che è poi il "corso naturale dei corpi civili"). Pienamente consapevole del carattere radicalmente innovativo del "metodo genetico" vichiano, l'autore aggrediva il mito della impenetrabilità dei tempi arcaici o favolosi, ribaltando spesso, senza tiniori, il dettato delle narrazioni tradizionali di Tito Livio e Dionigi d'Alicarnasso. L'asse diacronico della rappresentazione storica si spostava sul conflitto tra patrizi e plebei, e sulle secolari lotte condotte da questi ultimi per accedere alle magistrature e alla piena uguaglianza civile. Il mutamento delle idee e dei costumi che accompagna questo conflitto, e si ripercuote sul mutamento delle forme di governo, era d'altra parte sempre interpretato, pur in costante e documentato riferimento alle fonti, sullo sfondo di quella "provvidenza regolatrice dell'universo" per cui ogni nazione è destinata a "vivere dentro un certo giro del suo proprio essere", secondo un "determinato ordine di vicende e gradi" (II, Introduzione). Ciòsignifica che le trasformazioni sociali ed istituzionali "non dipendono dai strani accidenti ma dal corso naturale … e dall'intrinseca natura delle società civili; ed i cambiamenti del governo dipendono dal cambiamento dell'idee, e de' costumi generali degli stessi uomini governati" (II, p. 426).
Era, insomma, la vichiana ricostruzione della storia romana arcaica "polita e corredata da citazioni delle fonti, ordinata sistematicamente e con più accurata precisione" (S. Mazzarino). Anche qui è irritante trovare menzione esplicita di Vico solo a proposito della confutazione dell'origine grecanica delle XII tavole: menzione non casuale (come osservarono Cantoni e poi Croce), trattandosi della questione più notoriamente associata, per il lettore dell'epoca, al nome dell'autore della Scienza nuova. Ciò nonostante, grazie all'Origine, letesi vichiane poterono trovare nuovo ascolto, in Italia come al di là delle Alpi. Così avvenne in Francia, dove la conoscenza dell'opera del D. fu promossa attivamente dal fratello Egidio Romualdo, già affermatosi sulla scena musicale parigina e ben introdotto nell'ambiente dei philosophes: la parigina Gazette littérairede l'Europe annunciò, al termine di una recensione assai elogiativa dell'Origine (fasc. 30 dic. 1764, pp. 79-86), che sarebbe presto comparso il primo volume di un'edizione in lingua francese. Ma prima che la traduzione fosse pronta per le stampe, l'abate Du Bignon - che in un suo soggiorno in Italia aveva conosciuto personalmente il D., e discusso con lui di storia romana e di Vico - pubblicò l'Histoire critique du gouvernement romain (1765), opera in cui le pagine dell'Origine erano ampiamente riprese e rielaborate. Il D. denunciò quello che riteneva un vero e proprio plagio in una lettera alla già citata Gazette littéraire (15 ott. 1765, pp. 191 s.); Du Bignon replicò sulla stessa rivista respingendo ironicamente la pretesa duniana di vantare un "privilegio esclusivo" sui testi di Vico (30 ott. 1765, pp. 309 s.). Risultato di questa polemica e della sua eco (per esempio sulla Correspondance littéraire di Grimm e Diderot) fu di far riemergere un interesse diretto per Vico: il quale è infatti citato come "caposcuola" del D. e del Du Bignon nel De la félicité publique di F.-J. Chastellux (Amsterdam 1772; 3 ed., 1776, I, pp. 60 s.).
Molti anni più tardi, non ancora spenta in Germania la discussione sulle analogie, o i pretesi rapporti, tra la Scienza nuova e la Römische Geschichte di B. G. Niebuhr, A. H. L. Heeren, il noto storico della scuola di Gottinga, presenterà al pubblico tedesco un'opera di W. Eisendecher (Über die Entstehung, Entwickelung und Ausbildung des Bürgerrechtes im alten Rom, Hamburg 1829), meravigliandosi che un "Abbate Duni" avesse gia trattato, nel 1764, gli stessi problemi delle condizioni e delle lotte della plebe romana che erano venuti imponendosi nelle "ricerche più recenti" (p. IX). Si trattava, più o meno trasparentemente, di un nuovo attacco a Niebuhr.
Il libro di Eisendecher altro non era che una traduzione appena ritoccata ed aggiornata della prima parte dell'Origine del D. (con qualche estratto o sunto dalla seconda parte): il frontespizio taceva ogni riferimento, ma nella introduzione l'autore lodava l'Hauptwerk duniano e riconosceva di aver fatto semplice opera di rielaborazione, con la trasposizione "quasi letterale di interi capitoli" (p. 9). Tra l'altro Eisendecher - che ignorava, a quanto pare, l'originario modello vichiano - rammentava che il nome del D. era già circolato in Germania, citando un'importante recensione de La scienza del costume (cfr. Göttingische Anzeigen von gelehrten Sachen, 1778, Suppl., II, pp. 698-701).
Le traduzioni o rielaborazioni di Du Bignon e Eisendecher ci riconducono a quanto è affermato dai primi biografi del D., i quali ce lo descrivono noto "specialmente presso gli stranieri", in corrispondenza "con varj letterati dell'Europa", ed accolto nelle cerchie culturali più influenti durante i suoi frequenti viaggi all'estero (il Giustiniani, in particolare, riferisce che al tempo del pontificato di Clemente XIV, e quindi tra il 1769 e il 1774, il D. avrebbe utilizzato un anno sabbatico per fermarsi a lungo in Francia, "a Parigi, e in altre principali Città di quel Reame, ove conversò con varj uomini di lettere, tra i quali col Sig. di Voltaire, che seco il volle in una delle sue ville"). A queste testimonianze non sono purtroppo affiancabili, almeno attualmente, riscontri più precisi e diretti. Un'eccezione di notevole interesse è però la lettera del 3 apr. 1763 (già nota grazie alle puntuali citazioni di F. Venturi) indirizzata al console inglese a Venezia, John Strange.
In essa il D. esprimeva la sua ammirazione per la cultura d'Oltremanica ("tra tutte le nazioni d'Europa, la sola Inglese è quella, che nell'età nostra sa distinguere in ogni genere il vero dal falso con proteggere e promuovere l'ottimo di ogni cosa") e lamentava le arretratezze culturali che a Roma minacciavano di ostacolare il suo lavoro all'opera sistematica promessa con il Saggio del 1760: "amerei d'essere incoraggito, anzi stimolato per proseguire la gran fatica dell'opera principale, che a parlar chiaro mi costa sudori di sangue, che spesso m'avviliscono; massime perché mi trovo in questa già depravata Italia, anzi nella Città, dove piucché in ogn'altra parte d'Italia giace sepolta la purità della dottrina, che appena lice d'adorarla tra le private pareti (e ciò sia detto in pura legge di confidenza)". Nonostante che la cultura del D. non abbia mai accennato a spingere il vichismo entro l'alveo riformatore o radicale del movimento illuminista, essa era però almeno in parte disponibile ad un confronto con il pensiero europeo, ad uno sforzo di individuazione di quelle nuove acquisizioni che potevano arricchire la lezione del grande filosofo napoletano. Terminata a Roma la stagione lambertiniana, il D. presenti forse che su questa direzione si sarebbe trovato sempre più solo.Le preoccupazioni confidate a Strange trovarono immediata conferma nella celebre polemica che egli fu costretto ad ingaggiare con il padre domenicano Bonifazio Finetti: episodio a cui il nome del D. rimane legato, eppure l'unico veramente clamoroso di una vita estremamente riservata, tutta assorbita dalle lezioni universitarie e dagli impegni di studio. Bonifazio (al secolo Germano Federico) Finetti pubblicò a Venezia nel 1764, firmandosi col nome del fratello Gian Francesco, due volumi De principiis iuris naturae, et gentium adversus Hobbesium, Pufendorfium, Thomasium, Wolfium, et alios: tra questi "altri" figuravano anche il D. e Vico, discussi e criticati in due sezioni dell'opera (l.VIII, c. 2; l.XII, c. 6: cioè il capitolo conclusivo).
Le censure finettiane concernevano la genericità del verum come fonte del diritto universale e la sostanziale irrilevanza dell'indagine genetica per le ricerche sul diritto delle genti; ma soprattutto la questione, su cui verrà concentrandosi la polemica, dell'originario "stato ferino" dell'umanità gentilesca. Alla critica di questa fondamentale tesi vichiana, come della stessa Scienza nuova, il Finetti era stato spinto dalla lettura del Saggio duniano del 1760. Accostati ad Hobbes e Rousseau, maestro ed allievo venivano dunque accomunati in una stessa condanna: "At Deus, hominesque Dunio parcant, et Vico, et siqui sunt alii, qui aliquando homines fuisse belluas, ut ita dicam, materialibus, corporeisque solum ideis instructos sibi persuadent, aliisque persuadere nituntur" (t. II, p. 327).
Era, di fatto, un'accusa di empietà, che dalla sua cattedra universitaria nella Roma pontificia il D. non poteva lasciar cadere, nonostante i toni formalmente rispettosi del suo critico. Tradito dal temperamento o dalla preoccupazione per la delicatezza della controversia, controbatté con irruenza persino eccessiva dando alle stampe una Risposta ai dubbj proposti dal signor Gianfrancesco Finetti sopra il Saggio sulla giurisprudenza universale (Roma 1766), in cui dichiarava preliminarmente di scendere nell'agone polemico solo per difendere la memoria di Vico.
La condizione ferina dell'umanità - spiegava la Risposta, riproponendo le indicazioni vichiane sulle caratteristiche delle primitive forme di vita (erramento solitario ed eslege, assenza di linguaggio articolato e di concubito certo) - dev'essere presupposta per comprendere l'emergere faticoso del processo di incivilimento dall'aspro materialismo delle origini, e per riconoscere nelle fasi di questo processo le occasioni predisposte dalla regolazione provvidenziale del corso storico. Non solo Vico e le fonti antiche, ma gli stessi resoconti emografici moderni o le recentissime pagine di un Goguet dimostravano "che senza tali origini di cose umane sopra le nazioni gentili ci si chiude affatto la strada di poter intendere e spiegare i monumenti più sicuri della storia, i costumi degli antichissimi popoli, non meno, che di tanti altri scoperti a' giorni nostri, e che tutto dì si vanno scoprendo dai nostri europei" (p. 43). L'autore della Scienza nuova aveva del resto chiaramente sottolineato come questa "storia profana" non riguardasse né la condizione adamitica antediluviana né la nazione ebrea, e quindi potesse perfettamente conciliarsi con la tradizione scritturale. La Risposta si concludeva quasi sul piano dell'invettiva personale contro il "teologo" che aveva messo in dubbio l'ortodossia della scienza vichiana.
In una lettera alle fiorentine Novelle letterarie (30 maggio 1766, p. 338) il Finetti lamentò lo scadimento della discussione su un versante personalistico e annunciò la controreplica, che apparve poi col titolo Apologia del genere umano accusato d'essere stato una volta una bestia ("Parte prima", Venezia 1768). La prefazione di questa operetta - presentata con lo pseudonimo di Filandro Misoterio ("amico degli uomini" e "nemico delle bestie") - assicurava che persino nella Sapienza di Roma si davano ormai battaglia i "due partiti di Ferini e Antiferini".
Un intervento di autorità, probabilmente, convinse od obbligò i due antagonisti a cessare un conflitto divenuto troppo acre e rumoroso: la seconda e terza parte dell'Apologia, già promesse dal Finetti, non videro mai la luce, mentre il D. si astenne dalla pubblicazione di altri libelli. La polemica ebbe ancora qualche coda, in forme più accademiche ma sempre molto astiose, nelle brevi note aggiunte alle nuove edizioni del De principiis finettiano e nella stessa Scienza del costume pubblicata anni dopo dal Duni. L'Apologia di Filandro Misoterio venne del tutto dimenticata per più di un secolo, fino agli studi di B. Labanca e all'edizione crociana del 1936, approntata con l'intento di dimostrare l'inanità dei tentativi di recupero della filosofia di Vico entro la tradizione dell'ortodossia cattolica.
Gli ultimi anni della vita del D. - dopo la contesa tra "ferini e antiferini" - appaiono sempre più silenziosi e privi di avvenimenti esterni. Probabilmente egli limitò al solo insegnamento universitario il suo impegno attivo nella città pontificia e si dedicò con maggior frequenza ai rapporti con l'estero (si è già detto dell'anno sabbatico trascorso in Francia), intensificando anche i legami mai interrotti con Napoli (della cui Accademia di scienza e belle lettere divenne membro nel 1779). Non a Roma, ma a Napoli, pubblicò La scienza del costume o Sia sistema del diritto universale (1775), dedicata al cardinale Leonardo Antonelli.
L'opera, che avrebbe dovuto rappresentare il compimento sistematico del progetto di una "scienza dell'uomo", aggiungeva ben poco al Saggio del 1760. Nel primo dei tre libri della Scienza del costume venivano esaminate criticamente le teorie di Grozio, Selden, Hobbes, Pufendorf, Cumberland, Thomasius, Barbeyrac, Burlamaqui, Wolff; ulteriori spunti critici (per esempio nei confronti di Vattel, Montesquieu, D'Alembert) erano sparsi negli altri due libri, che riproponevano più distesamente, ma senza reali approfondimenti o innovazioni, la trattazione dei tre codici basati sul verum (diritto di natura) e sul certum (diritto delle genti e diritto civile). In tale contesto l'antiferino Finetti era invitato a riflettere sui "migliori Interpreti, Padri, e Dottori della Chiesa… i quali non solamente adottarono la teoria dello stato barbaro, e ferino degli antichissimi popoli gentileschi, anziché si avvalsero espressamente di tale tradizione, come uno de' più gravi argomenti per confutare il Gentilesimo" (p. 219).
Con la Scienza del costume, che chiude la serie delle pubblicazioni duniane, si spegneva poco brillantemente l'ambizioso tentativo di una rielaborazione sistematica delle dottrine filosofico-giuridiche di Vico. Pochi anni dopo, nel novembre del 1781, durante un breve soggiorno a Napoli, la morte colse il D. mentre ancora meditava, secondo Giustiniani, "un'altra opera, a cui dava il titolo della Giurisprudenza universale".
A Roma il Diario ordinario (Cracas) (n. 720, 24 nov. 1781, pp. 10 s.) ne dava cosi avviso: "con le lettere di Napoli si è ricevuta la spiacevole notizia di esser passato all'altra vita in quella città, ove si era portato da qualche tempo a respirare di quell'aria salubre, per alcune sue indisposizioni, il Sig. Dottore Emanuelle Duni di Matera Lettore delle Pandette in quest'Università della Sapienza". A Napoli il fratello Saverio provvide a farne tumulare la salma nella chiesa di S. Marco e ad illustrarne la memoria con una iscrizione latina.
Gli scritti del D., di cui si sono già citate le edizioni originali, furono raccolti alla metà del secolo scorso nei cinque volumi dell'edizione curata da A. Germarelli: Opere complete di E. Duni già professore di giurisprudenza nella Università romana ora per la prima voltariunite. Si aggiungono le osservazioni di Gianfrancesco Finetti, la vita dell'autore ed un discorso sulle opere del medesimo e sullo stato degli studi storici per cura del dott. Achille Gennarelli, Roma 1845. Le Notizie di E. D. premesse dal curatore (I, pp. VII-XXIII) e il suo Discorso preliminare (pp. XXV-CLXVIII), che riguarda in particolare le tesi vichiano-duniane sulla storia di Roma, costituiscono un utile avviamento alla ricerca. Secondo il "neoghibellino" A. Vannucci (Storia dell'Italia antica, Milano 1873, I, p. 658) la diffusione dei testi riproposti da Gennarelli fu notevolmente ostacolata: "i preti che a loro spese gli avevano fatti stampare alla Tipografia Camerale, impauriti dal proprio ardimento ne impedirono la pubblicazione: e quindi quella edizione rimase quasi ignota del tutto".
Rimane da chiedersi se il fratello minore Saverio, anche lui giurista (fu avvocato di una certa notorietà nel foro napoletano), non si sia appropriato di carte ed abbozzi già elaborati dal D., e non sia dunque in realtà più il curatore che l'autore dei due volumi Della giurisprudenza universale di tutte le nazioni in cui si tratta del vero diritto di natura e della diversa indole, origine e progressi del dritto delle genti, e civile, comparsi a Napoli nel 1793.
Già F. P. Volpe, nel 1818, collegava questa Giurisprudenza universale pubblicata da S. Duni con la notizia fornita dal Giustiniani riguardo all'opera dallo stesso titolo concepita o lasciata incompiuta dal D., ed asseriva che Saverio avrebbe semplicemente "riforniato, rimpastato, e condotto a termine il predetto disegno di suo fratello". Con più attente considerazioni, G. Gattini stimò invece sostanzialmente legittima da parte di Saverio la pubblicazione dell'opera a proprio nome. In effetti la Giurisprudenza universale siapriva proprio con una discussione della Scienza del costume del D., cui si riconosceva il merito di aver mostrato le contraddizioni delle teorie giusnaturalistiche, ma non quello di aver determinato adeguatamente le norme eterne del vero morale. Esse consisterebbero "nel rendere amore ossequio per gratitudine a Dio in tutta la vita nostra, e niente amare più se stesso, che l'altro uomo, a se simile" (I, p. 27). Quie altrove, la lettura dell'opera convince a lasciare immutata l'attribuzione a Saverio (pur senza escludere l'eventuale utilizzazione di manoscritti incompiuti del fratello), ma anche a sottolineare la completa mancanza di originalità del suo pensiero. Tuttavia lo scritto del minore dei Duni - come ha avvertito E. Garin, richiamando su di esso l'attenzione dopo un lungo oblio - costituisce pur sempre "un altro paragrafo nella storia della fortuna di Vico alla fine del Settecento". Più ancora delle opere del D. la Giurisprudenza universale ricalca l'insieme dell'esposizione della Scienza nuova, dalla quale vengono spesso citati e commentati lunghi brani, a volte per pagine e pagine (cfr. per esempio, I, pp. 128-146, sulla sapienza poetica; o pp. 168-204, sulle società di famiglia). Il quinto e ultimo libro dell'opera, dedicato alla storia arcaica di Roma, ci riconduce invece al D.: si tratta infatti di una sorta di riassunto dell'Origine, e progressi del cittadino e del governo civile di Roma. Si allungava cosi di un ulteriore anello la catena delle contraffazioni più o meno mascherate delle dottrine e opere vichiane: anche Saverio Duni, sia che attingesse agli scritti del fratello sia che risalisse direttamente a Vico, ostentava sempre la convinzione di produrre un'opera nuova e originale.
Fonti e Bibl.: Come già detto, dobbiamo a M. Guercio l'indicazione delle carte della Sapienza utili per la ricostruzione della carriera accademica dei D.: Arch. di Stato di Roma, Università di Roma, buste 91 (per i concorsi del 1746, 1747e 1753), 88 (per le assegnazioni dei ruoli e degli stipendi), 85 (per le registrazioni delle assenze dalle lezioni fino al 1759; purtroppo mancano le puntature dei bidelli per gli anni 1760-1782), 213 (per i Cataloghi dei lettori, delle materie e degli orari delle lezioni: il nome dei D. è registrato anche in quello stampato per l'anno acc. 1781-82). La lettera a J. Strange del 3 apr. 1763è alla British Library, Add. Mss., 23.729, ff. 52s (cfr. F. Venturi, elementi e tentativi di riforme nello Stato pontificio del Settecento, in Riv. stor. ital., LXXV [1963], pp. 790 s.); cfr. ibid. anche Egerton Mss., 1981 (lettera in lingua latina del D. del 13 nov. 1762e minute della risposta di Strange).
Sono già state citate alcune recensioni settecentesche delle opere duniane: ulteriori indicazioni si potranno trovare nei lavori elencati qui di seguito, ma manca ancora uno spoglio sistematico. Un'interessante relazione sulla polemica D.-Finetti comparsa nel 1767 sul Magazzino italiano è stata ristampata in Giornali veneziani del Settecento, a cura di M. Berengo, Milano 1962, pp. 292-295. Per le notizie biografiche cfr. L. Giustiniani, Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli, I, Napoli 1787, pp. 291 ss.; F. M. Renazzi, Storia dell'Università degli studj di Roma detta comunemente La Sapienza, IV, Roma 1806, p. 253; F. P. Volpe, Memorie storiche profane e religiose su la città di Matera, Napoli 1818, pp. 64 ss.; G. Gattini, Note storiche sulla città di Matera, Napoli 1882, pp. 457-461. Numerose, anche se spesso marginali e imprecise, le menzioni nella letteratura vichiana ottocentesca: cfr. almeno G. Ferrari, La mente di G. B. Vico, Milano 1837, p. 262; G. Carmignani, Scritti inediti, II, Lucca 1851, p. 219; C. Marini, G. B. Vico al cospetto del sec. XIX, Napoli 1852, p. 65; F. Predari, La sorte di Vico nel sec. XVIII, in G. B. Vico, La scienza nuova, Torino 1852, p. XXXII; e soprattutto C. Cantoni, G. B. Vico. Studii critici e comparativi, Torino 1867, pp. 319-324, e P. Siciliani, Sulrinnovamento della filosofia positiva in Italia, Firenze 1871, pp. 39-45. Sul D. storico di Roma antica cfr. anche l'Appendice alla Storia romana di M. B. G. Niebuhr, II, Pavia 1833, pp. 386-388; C. Cantù, Storia degli Italiani, I, Torino 1855, p. 225; F. Serafini, Elementi di diritto romano, Pavia 1859, I, p. 54; A. Vannucci, op. cit., pp. 658-659. Le ricerche di B. Labanca (Giambattista Vicoe i suoi critici cattolici con osservazioni comparative su gli studi religiosi dei secoli XVIII e XIX, Napoli 1898) offrirono la prima organica ricostruzione della polemica D-Finetti; l'Apologia di quest'ultimo fu ripubblicata da B. Croce col titolo della prima parte, l'unica data alle stampe, Difesa dell'autorità della Sacra Scrittura contro Giambattista Vico. Dissertazione del 1768, Bari 1936 (si tratta però di un'edizione parziale, priva delle sezioni specificamente concernenti il Duni). A Croce dobbiamo anche le fondamentali indagini confluite nella Bibliografia vichiana, a cura di F. Nicolini, Napoli 1947 (sul D., in particolare, I, pp. 263-270, 352 s., 511). Le indicazioni di Croce e Nicolini sono da integrare (soprattutto per la polemica col Du Bignon) con F. Venturi, L'antichità svelata e l'idea del progresso in N. A. Boulanger (1722-1759), Bari 1947, pp. 128 ss., 149 s. Sulla filosofia del diritto cfr. G. Solari, La scuola del diritto naturale nelle dottrine etico-giuridiche dei secc. XVII e XVIII, Torino 1904, pp. 210 ss., e la breve ma importante monografia di M. Ascoli, Saggi vichiani, I, La filosofia giuridica di E. D., Roma 1928. Una prima documentazione bibliografica è in G. Natali, Idee costumi uomini del Settecento: Studii e saggi letterarii, Torino 1916, p. 39, e poi in Id., Storia letteraria d'Italia. Il Settecento, Milano 1973, I, pp. 358 s., 426.
Riferimenti al D. si incontrano frequentemente anche negli studi novecenteschi su Vico e la sua influenza. Tra i più recenti vanno segnalati: E. Garin, Dei rapporti fra D. e Vico, in Giorn. critico filos. ital., XXXVI (1957), pp. 131 s.; Id., Dal Rinascimento all'Illuminismo. Studi e ricerche, Pisa 1970, pp. 163-167, 188; S. Mazzarino, Vico, l'annalistica e il diritto, Napoli 1971, pp. 74 ss.; S. Sarti, Il presupposto filosofico della polemica tra Bonifacio Finetti e G. B. Vico, in La filosofia friulana e giuliana nel contesto della cultura italiana, Udine 1972, pp. 171-186; N. Badaloni, La cultura, in Storia d'Italia (Einaudi), III, Dal primo Settecento all'Unità, Torino 1973, pp. 880 s.; Id., Introduzione a Vico, Bari 1984, pp. 138 s.; P. Rossi, I segni del tempo. Storia della terra e storia delle nazioni da Hooke a Vico, Milano 1979, pp. 291-297. Molto importante l'ultimo contributo specificamente dedicato al D. (e in particolare all'Origine del 1763-1764): M. Guercio, E. D., storico del diritto e della società antica, professore alla Sapienza, in Arch. della Società romana di storia patria, XCVII (1974), pp. 147-173. Sull'insegnamento universitario cfr. anche M. R. Di Simone, La "Sapienza" romana nel Settecento. Organizzazione universitaria e insegnamento del diritto, Roma 1980, pp. 197-202.
M. Di Lisa