SERENI, Emilio
– Nacque a Roma il 13 agosto 1907, ultimo di cinque figli, da Samuele e da Alfonsa Pontecorvo, una coppia della buona borghesia ebraica (il padre era medico della Casa reale) e dalla brillante vita intellettuale, che fu per Emilio fonte di stimoli precoci.
Sin dalla giovanissima età, oltre che con i cugini Eugenio Curiel, Guido e Bruno Pontecorvo, strinse duraturi legami con coetanei, tra cui spiccano i nomi di Tullio Ascarelli, ma anche Carlo e Nello Rosselli, Eugenio Artom e Pietro Grifone, tutti destinati a lasciare il segno nella storia del nostro Paese. D’ingegno vivacissimo e dotato di una memoria eccellente, esplorò sin dai primi anni i più diversi settori del sapere, acquisendo ben presto anche un'eccezionale gamma di competenze linguistiche. Per un certo tempo, insieme al fratello Enzo, prese parte al movimento sionista impegnandosi a fondo negli studi e nella vita religiosa ebraica. Con una scelta non del tutto ovvia per un giovane della buona borghesia professionale romana, egli s’iscrisse alla facoltà Agraria di Portici, con il progetto di partecipare alla migrazione ebraica in Palestina, optando poi coerentemente per una tesi sulla colonizzazione ebraica in quella regione. Dopo la laurea proseguì nei suoi studi d’agraria, sotto la guida dei suoi maestri di Portici, da lui sempre ricordati, acquisendo una preziosa e quanto mai formativa esperienza ‘sul campo’ a diretto contatto con la realtà contadina del Mezzogiorno d’Italia. Negli anni di Portici, inoltre, Sereni s’immerse nella lettura dei classici del marxismo, partendo da un saggio di Lenin che lo portò a un radicale mutamento delle sue convinzioni e alla piena adesione alle posizioni del Partito comunista, ormai in clandestinità, al quale s’iscrisse nel 1926. In quegli anni si era consolidata la sua stretta amicizia con il suo compagno di studi Manlio Rossi-Doria e con Giorgio Amendola, che proprio da Sereni fu indotto ad avvicinarsi e poi ad aderire al Partito comunista, allontanandosi dall’ambiente politico crociano. Pressoché naturale che, stimolato dai suoi anni napoletani e dai suoi studi, maturasse il suo duraturo interesse per le condizioni di sottosviluppo del Mezzogiorno d’Italia, legate alla patologica persistenza dei rapporti tardofeudali, mai superati mediante un’adeguata riforma del regime della proprietà fondiaria. Un grande tema dibattuto sin dall’età giolittiana. Malgrado il suo precoce impegno politico svolto clandestinamente insieme ai suoi amici, in quegli anni Sereni proseguì l’allargamento delle sue conoscenze e delle sue letture in ogni settore dello scibile: dalla storia e dalla letteratura dell’antichità greca e romana alla linguistica. A quest’ultima disciplina egli era tanto più interessato in ragione del numero sempre più elevato di lingue che veniva acquisendo, sia moderne che antiche, con un eccellente dominio del greco e del latino, ma che si spingeva sino a quelle dell’antico Oriente mesopotamico.
Dopo la sua laurea, nel 1928, si sposò con Xenia Silberberg, figlia di due socialisti rivoluzionari russi (il padre era stato impiccato in Russia, dopo la rivoluzione del 1905). Da questo intenso rapporto, in cui gli aspetti personali s’intrecciarono totalmente alla comune fede rivoluzionaria, nacquero tre figlie: Lea, Marinella e Clara (due altre figlie di Sereni, Anna e Marta, nacquero dal secondo matrimonio con Silvana Pecori, avvenuto nel 1953).
La passione politica e la forza di Xenia aiutarono Sereni ad affrontare l’arresto, nel 1930, a seguito di una delazione, e la successiva condanna a quindici anni, insieme a Manlio Rossi-Doria, da parte del tribunale speciale, per la sua appartenenza al disciolto Partito comunista e per la sua attività di propaganda: era appena rientrato a Napoli da un viaggio a Parigi, dove aveva preso contatto con i dirigenti del Centro clandestino del partito, incontrando anche Togliatti. Liberato cinque anni dopo a seguito di un’amnistia, espatriò clandestinamente in Francia, chiamato a far parte di questo stesso ‘Centro estero’, dove fu redattore capo di Stato operaio e de La voce degli italiani, responsabile per la politica culturale del partito. Da tali incarichi, tuttavia, sarebbe stato rimosso quando l’intero gruppo dirigente italiano fu messo sotto accusa in occasione delle grandi 'purghe staliniane' del ’37, senza tuttavia che ciò intaccasse la sua lealtà di militante e la sua fede politica.
Con l’arrivo delle truppe tedesche, Sereni lasciò Parigi spostandosi insieme a Giuseppe Dozza a Tolosa, in quella parte del paese restata libera dall’occupazione, dove si dedicò all’attività d’agricoltore. Qui, tuttavia, si mise soprattutto in collegamento con gli altri emigrati antifascisti, in un lavoro comune che portò al «documento di Tolosa» (di cui lui fu l’estensore materiale) sottoscritto nel settembre 1941 dai tre pincipali partiti antifascisti italiani (firmarono Sereni e Dozza per il Partito comunista, Pietro Nenni e Giuseppe Saragat per il Partito socialista e Silvio Trentin e Fausto Nitti per Giustizia e Libertà). Era l’avvio di quel ‘comitato d’azione’, che sfociò più avanti nella formazione del Comitato di liberazione nazionale (CLN).
Nel frattempo, Sereni s’era impegnato nella propaganda clandestina tra le truppe d’occupazione italiane nella Francia meridionale, fondando a tale scopo il giornale La parola del soldato, mentre, con la Resistenza francese, partecipò anche a scontri armati e ad azioni di sabotaggio nella zona delle Alpi marittime. Ed è lì che venne arrestato nel giugno del ’43, dai carabinieri delle forze d’occupazione italiane in Francia, subendo anche torture, prima di essere processato a condannato a 18 anni di carcere dal tribunale straordinario di guerra della 4a armata italiana per la sua azione sovversiva e di propaganda tra i militari. Tradotto in Italia, dopo falliti tentativi d’evasione dal carcere di Fossano a opera dei suoi compagni di partito, finì nelle mani delle SS (che fortunatamente ignoravano la vera identità del prigioniero), rimanendo per sette mesi nel braccio della morte nel carcere delle Nuove di Torino. Ne sortì nell'agosto del 1944 a seguito di un disperato e sorprendente strattagemma organizzato dalla moglie Xenia, insieme al suo antico amico romano e compagno di lotta antifascista Edoardo Volterra.
Il Partito comunista, una volta libero, lo inviò a Milano, con l’incarico di dirigere la propaganda e le attività di agitazione, ma anche di far parte, insieme a Luigi Longo, del CLN, in rappresentanza dei comunisti, oltre che del comando generale delle brigate Garibaldi. A Milano, nell’aprile del 1945, fu tra i dirigenti dell’insurrezione nel Nord Italia, firmando il manifesto d’assunzione dei poteri del CLN per la Lombardia.
Nominato, dopo la Liberazione, commissario del ministero degli Interni per l’Alta Italia, Sereni fu eletto al quinto congresso del PCI, il 29 dicembre del 1945, membro del Comitato centrale e della Direzione del partito, di cui fece parte ininterrottamente nel successivo trentennio, venendo anche designato a far parte della Consulta nazionale. L’anno seguente il suo impegno teorico e organizzativo nella politica del PCI fu consacrato dal compito attribuitogli di dirigere, a Napoli, l’azione del partito nel Mezzogiorno. Eletto come capolista a Napoli all’Assemblea Costituente, nel luglio di quell’anno, fu chiamato a far parte del secondo governo De Gasperi, come ministro dell'Assistenza post-bellica: una funzione di controllo importante sulla gestione degli aiuti postbellici. Non meraviglia che il suo deciso impegno a estendere il ruolo pubblico in questo settore, fino ad allora quasi esclusivamente in mano alle organizzazioni cattoliche ed ecclesiastiche, ingenerasse una crescente serie di attriti con lo stesso presidente del Consiglio. Nel terzo gabinetto De Gasperi – l’ultimo governo della giovane Repubblica in cui i comunisti furono presenti – Sereni fu chiamato a ricoprire il ministero dei Lavori pubblici, di notevole importanza ai fini della ricostruzione nazionale.
Con la fine dell’esperienza governativa, nel maggio del ’47, proseguirono, sommandosi tra loro e generando una mole di lavoro pesantissima, gli incarichi attribuitigli dal PCI. Mentre proseguiva l'impegno nella politica meridionalistica e la presenza a Napoli, s’avviò anche il suo progressivo coinvolgimento nell’elaborazione e direzione della politica agraria del partito, sino ad assumere in seguito la presidenza dell’Alleanza nazionale dei contadini: un organismo di massa con cui il PCI veniva a fronteggiare, nelle campagne, le organizzazioni cattoliche che facevano capo alla Democrazia cristiana. Contemporaneamente gli fu affidata la responsabilità della commissione Cultura, e, infine, fu nominato nell’esecutivo mondiale del Movimento dei partigiani della pace. Sereni svolse così un lavoro di rilievo nella più generale strategia del blocco comunista, che però lo costrinse a un ininterrotto susseguirsi di viaggi, incontri, manifestazioni pubbliche, redazione di documenti e discussioni politiche.
Ciò si riflesse negativamente sulla sua salute, già logorata dai duri anni di prigione e della lotta antifascista e che, ancor prima della fine della guerra, aveva destato allarme. Di lì a poco, Sereni si sarebbe trovato a fronteggiare anche una grave crisi personale, con l’insorgere e lo sviluppo di una malattia della moglie – un tumore – destinata a concludersi con la sua morte, nel gennaio del 1952. L’assistenza prestata a Xenia, con i tentativi di cura anche all’estero, in URSS prima, e poi in Svizzera, gravò pesantemente anche sulla sua tenuta fisica, al punto che il peggioramento delle sue condizioni di salute lo costrinsero a temporanee sospensioni dei suoi impegni politici.
Anche, ma non solo per questo, Togliatti, nel luglio del 1951, sollevò Sereni dall’incarico di direzione della commissione Cultura, malgrado la sua stima personale. Sereni, in effetti, per il suo sapere onnivoro e la sua vivacità intellettuale, era uno dei pochissimi che il segretario riconoscesse come un interlocutore alla pari sul piano intellettuale.
Nel periodo successivo pocò sembrò mutare: Sereni continuò a fare parte della direzione del PCI e restò membro del Parlamento sino alle elezioni del 1972. Pochissimi anni dopo la sua fondazione, nel 1966 fu chiamato a dirigere la rivista teorica del PCI, Critica marxista, di cui restò direttore sino alla sua morte. E, tuttavia, verso la fine di quel decennio, soprattutto negli anni successivi alla repressione sovietica della primavera di Praga, nel 1968, malgrado che apparissero alcuni suoi saggi ancora notevolmente innovativi, Sereni iniziò a immergersi in quel suo silenzio di cui scriverà la figlia Clara in Il gioco dei regni (Firenze 1993) e su cui Andrea Giardina (Emilio Sereni e le aporie della storia d'Italia, in Studi storici, 1996, n. 37, pp. 693-726) ci ha poi lasciato importanti riflessioni. Ma è un silenzio che lo accompagnò, anche da parte dei suoi compagni di lotta e della vita intellettuale, nei suoi ultimi anni di vita, per estendersi oltre la sua morte.
Gli anni della comune lotta antifascista, della prigionia di 'Mimmo' (com'era chiamato il marito) e, poi, della dolorosa malattia che la colpì, furono narrati in una toccante autobiografia di Xenia, firmata con il nome assunto durante la clandestinità Marina Sereni, Gli anni della nostra vita (Roma 1955). La redazione originaria del volume era stata tuttavia manipolata a cura del partito, in vista della sua pubblicazione, per presentare un modello ideale di unione familiare. Il racconto, ad ogni modo, era quello di una dedizione totale dei militanti alla causa del partito, non rara in una generazione uscita dai duri anni della dittatura, dalle attività cospirative e dalla lotta armata, che però in Sereni si espresse in modo duraturo in un allineamento senza sfumature alla linea del Partito, anche a costo di rotture o allontanamenti da persone a lui molto care, come dal suo stesso fratello Enzo, che continuò nel suo impegno sionista in Israele.
Tutto ciò, peraltro, non esauriva la sua personalità, scoppiettante e carica di un’intima, giovanile disponibilità: anche verso i ‘non compagni’ e gli eretici. Sino a far pensare, come alcuni probabilmente a ragione hanno sostenuto, che la sua rigidità fosse frutto d’una deliberata autoimposizione e che, nella sostanza, egli fosse restato essenzialmente un intellettuale, seppure completamente immerso nella politica per convinzione e per senso del dovere, senza però mai divenire, sino in fondo, un ‘politico’ puro. Certo si è che, tanto la repressione della rivolta ungherese da parte delle truppe sovietiche che la stessa guerra dei Sei giorni tra Israele e le potenze arabe, videro Sereni fermamente allineato sulla linea della più rigida ortodossia. Aanche quando un altro grande dirigente comunista come Umberto Terracini, nell'ultimo caso, ritenne giusto disgiungere la sua posizione personale e schierarsi a favore di Israele.
La storia sin qui evocata è solo una parte di ciò che Sereni è stato, anzitutto nella storia del suo Paese (e, probabilmente, neppure la più significativa). L’impronta più forte è duratura da lui lasciata riguarda la vita intellettuale e culturale, dove ha inciso in profondità su una molteplicità di campi del sapere e della conoscenza. Giuseppe Prestipino, nella sua meritoria bibliografia degli scritti di Sereni (Bibliografia degli scritti di Emilio Sereni, a cura di G. Prestipino, Istituto Alcide Cervi, Firenze 1987), ha potuto elencarne più di mille. Dove quello che colpisce non è la presenza di tanti interventi d’occasione, ovvi nella storia di un politico, come anche di molti accademici, ma la grande quantità di scritti su una molteplicità di argomenti diversi, di grande impegno intellettuale, fondati sul dispiegamento severo ed efficace delle migliori capacità critiche e di una sterminata conoscenza.
Coerentemente a quanto s’è già detto della sua formazione, nella sua opera è presente un gran numero di saggi sulle tante questioni relative all’agricoltura italiana e all’arretratezza del Mezzogiorno d’Italia. Essi si sgranano nel tempo, sin dai suoi primi impegni politici e con caratteri diversi: dal mero intervento politico alle monografie scientifiche e con varie angolature tematiche. Tra i tanti contributi, tra cui ben tre volumi apparsi nell’immediato dopoguerra, s’impone soprattutto il suo libro pubblicato con Einaudi nel 1947, ma più volte riedito, Il capitalismo nelle campagne. Nel volume la questione dell’arretratezza economico-sociale del Mezzogiorno d’Italia è affrontata attraverso un’analisi storica di ampio respiro che investe gli aspetti politici, ma anche economico-finanziari del processo di unificazione nazionale. Le tesi sviluppate in esso e ampiamente riprese poi nella ricca pubblicistica dell’autore, avevano una forte connotazione politica, ma, soprattutto, sembravano svolgersi in parallelo alle note tesi di Gramsci sul Risorgimento come mancata rivoluzione popolare, che in quegli anni iniziavano a esser conosciute attraverso l’edizione dei suoi scritti. Talché, contro la sua interpretazione del Risorgimento come 'rivoluzione passiva' derivata dalla mancata saldatura dei ceti dirigenti con le masse popolari, si rivolse la forte polemica di uno dei migliori e più autorevoli storici liberali, Rosario Romeo.
Restò tuttavia, allora, abbastanza in ombra la sostanziale diversità dell’approccio di Sereni rispetto agli orientamenti prevalenti in ambito comunista, dove il latente idealismo di cui era impregnata tanta parte dei gruppi dirigenti favorì la persistente sottovalutazione delle logiche propriamente economiche, ma anche il ruolo dei processi tecnologici. E che Sereni fosse, in ultima analisi, più moderno di tanti suoi compagni, malgrado i suoi dogmatismi marxisti-leninisti (sino all'indubbio scivolone segnato dalla sua acritica adesione alle tesi di Lysenko), lo attestano altri straordinari segmenti della sua produzione scientifica.
A partire da uno dei libri più ‘stalinisti’ che egli ebbe a scrivere: le Comunità rurali nell’Italia antica (Roma 1955). Il ricorso, in ogni pagina del libro, agli schemi più rozzi dello storicismo marxista prodotti da trent’anni di comunismo sovietico dovette suscitare già allora un abbastanza generalizzato ripulso, tanto che le molte frettolose citazioni a pié di pagina che si fecero del volume non possono mascherare il sostanziale disinteresse dei sapienti, salvo rarissimi e meritori casi. Ciò che, però, ha quasi sempre impedito di cogliere la straordinaria vivacità di un complesso percorso storiografico che fermentava sotto la pesante coltre marxista-leninista. Perché Sereni in questo massiccio volume di quasi seicento pagine effettuò più operazioni in parallelo. Da un lato recuperava due filoni problematici che avevano variamente impegnato i massimi storici dell’antichità e del Medioevo sin dal primo Ottocento: la questione delle strutture sociali antecedenti alla formazione degli ordinamenti cittadini e la possibile linea di continuità con le forme più tarde. Dall'altro, affrontava il problema delle origini delle forme comunitarie dello sfruttamento della terra nell’Europa medievale. Confrontandosi altresì con l’altro grande tema apertosi a fine Ottocento, tra Theodor Mommsen e Max Weber, circa la possibile interpretazione dei sistemi territoriali romani arcaici con gli schemi delle comunità medievali.
Sereni ribaltava addirittura l’architettura disegnata dai grandi maestri del passato, valorizzandone peraltro le strutture di fondo ricollocate ora in una nuova prospettiva dove s’imponeva il nodo della ‘lunga o lunghissima durata’: dalla preistoria agli albori dell’età moderna. Secondo uno schema che gli permetteva d’individuare il fattore dinamico essenzialmente nella trasformazione dei rapporti sociali di produzione, con un impiego, qui veramente raffinato, dell’analisi marxista. Questo sviluppo così innovativo e sorprendente della sua analisi si fondava, poi, su una pluralità di strumenti d’indagine quasi totalmente sconosciuti ai metodi praticati negli studi antichistici, conseguendo risultati nuovi e inattesi. Non è solo il ricorso sistematico ai dati offerti dalla toponomastica, o l’attenzione per i dati catastali, ma è anche un uso affatto innovativo della linguistica (una disciplina di cui Sereni aveva acquisito specifiche ed estese conoscenze) che contraddistinguevano il suo percorso.
Può apparire sorprendete la somiglianza che si propone qui tra quest’opera e il successivo libro di Sereni, questo sì ben più fortunato, sulla Storia del paesaggio agrario (Bari 1961). Indiscutibili le diversità, anzitutto per la forma infinitamente più leggera, questa, per l’oggetto e per il metodo, nonché per il tipo di documentazione utilizzata e per gli stessi quesiti in esse proposti. Eppure v’è un elemento che le accomuna e che fa emergere quella che è la cifra di Sereni come storico delle forme economiche e delle strutture sociali: la sua enorme attenzione – quasi del tutto estranea alla tradizione accademica italiana – per il dato materiale. Sereni sembrava partire dal cielo dei concetti, immerso nell’universo della sinistra hegeliana, ma in ogni momento del suo lavoro egli faceva poi i conti con i fatti, con le cose, con il modo in cui le mani applicano tecniche antiche o recenti. Sono sempre storie molto materiali quelle di cui Sereni si è occupato, individuate sovente con un’acutezza pari alla fantasia, e sempre fecondate dalla superiore capacità di trovar nessi tra i tanti elementi eterogenei di cui disponeva il suo smisurato universo di conoscenze.
Ormai questo libro fa parte del canone culturale italiano, ma, quando fu scritto, dovette attendere anni per esser pubblicato da Laterza, essendo rifiutato da un paio di editori, compreso quello del PCI: gli Editori riuniti. E fu pubblicato con una drastica riduzione di quell’apparato iconografico che era senz’altro l’elemento documentario più innovativo utilizzato dall’autore e che probabilmente s’è perso per sempre nella sua dimensione originaria.
Queste due opere furono concluse negli anni Cinquanta: prima dunque che le categorie storiografiche introdotte da Fernand Braudel divenissero parte dell’universo concettuale degli storici, ma in un momento in cui la stessa grande opera di Marc Bloch, che non si riduce ai soli Caractères originaux de l'histoire rurale française, I-II (Paris 1931-56), iniziasse a penetrare in modo sostanziale nella cultura europea. Le peculiarità del percorso di Sereni, che pure a Bloch espressamente si richiamava, s’evidenzia nei tanti piccoli suoi saggi dedicati agli scritti sull’agricoltura apparsi sin dal tardo medioevo e nei secoli successivi, dove una raffinata dimensione storico-culturale sconfina con l’erudizione. Mentre in molti veloci passaggi della sua Storia del paesaggio, c’imbattiamo in un’utilizzazione così circostanziata e articolata delle più specifiche tecniche agrarie, da non trovar riscontro nelle pur magistrali ricerche di Bloch. Dove ancor meno s’incontra quel sistematico riferimento al ‘paesaggio’, associato a una specie di corso di pittura che, invece, Sereni ci impartisce nelle sue pagine. Il paesaggio e la sua storia appare rivivere anche in altre linee di ricerca come quella dominata dal rapporto ‘città-campagna’, ora applicato direttamente all’analisi politica, ora sviluppato nelle più sofisticate trattazioni di storia antica.
Dobbiamo anche tener presente che, in quello stesso periodo, le indagini di Sereni si estesero pure verso altre direzioni restate, ancor più del ‘paesaggio’, al margine dei moderni orizzonti (ed è per questo che non si può accogliere la sua riduzione a grande epigono della tradizione umanistica, se non per l’ampiezza dei suoi orizzonti), malgrado qualche importante apertura ottocentesca. Due saggi come Popolo e poesia di popolo in Italia attorno al ’48 (in Quaderni di Rinascita, 1948, n. 1, monografico: Il 1848. Raccolta di saggi e testimonianze, pp. 109-123), e le Note sui canti tradizionali del popolo umbro (in Cronache umbre, 1958, n. 4, pp. 19-51 e n. 6, pp. 4-15-40), parrebbero avvicinarlo alla personalissima esperienza di Ernesto De Martino e alle aree battute da Giuseppe Cocchiara e da Alberto Mario Cirese, mentre le Note di storia dell'alimentazione nel Mezzogiorno: i napoletani da "mangiafoglia" a "mangiamaccheroni" (in Cronache meridionali, 1958, n. 4, pp. 272- 295; n. 5, pp. 353-375; n. 6, pp. 398-422), vanno in una direzione diversa dalla sapiente esplorazione di Croce, perché fortemente focalizzate sui nessi tra comportamenti sociali e rapporti economici.
Si tratta di pochi spezzoni che andrebbero integrati con quanto giace nell’Archivio dell’Istituto Alcide Cervi, che oggi ha sede a Gattatico di Reggio Emilia, fondato nel ’72 su suo impulso e a cui ha donato la sua enorme biblioteca. Lì infatti si trovano le 300.000 schede dello ‘schedario bibliografico’ da lui redatto, in cui, come sottolineò lui stesso, è raccolta un'imponente quantità di ricerche di prima mano, già pronte o quasi per la loro redazione scritta. Come non pensare a un impossibile progetto di storia universale, partendo dalla terra, dall’agricoltura e dai fatti economici?
Ciò ben s’inquadra con le prospettive perseguite da Sereni, almeno a partire dagli anni Sessanta, quando, alla ricchezza dei suoi
tanti interessi, s’aggiunge una specifica attenzione per le tendenze dello strutturalismo francese, in lui tanto più viva per la sua
derivazione dalle teorie linguistiche di Ferdinand de Saussure. Questi aspetti si ritrovano, indirettamente, nella crescente importanza che assunse, negli anni della sua direzione di Critica marxista, la centralità da lui data alla nozione di «formazione economico-sociale» all’interno della teoria marxista. Un profondo rinnovamento che in sostanza tendeva a emarginare il basilare strumento ermeneutico rappresentato dai modi di produzione come criterio periodizzante nella teoria marxista della storia. Fu forse l’ultimo grande dibattito cui Sereni prese parte, in polemica tra l’altro con le strade percorse dai marxisti francesi a partire da Louis Althusser, ma anche da Cesare Luporini.
La prospettiva di Sereni appare ormai molto distante dai pur persistenti approcci di tipo unilineare all’analisi storica e politica, valorizzando al massimo la complessità inerente alla nozione di «sistema dei rapporti necessari». Ciò che, a sua volta, gli permetteva una nuova attenzione verso l’opera di Weber, manifestata con la sua prefazione alla nuova traduzione italiana della Storia agraria romana (un’opera, tra l’altro, tutta imperniata sull’idea, così lontana dal marxismo ortodosso, di un ‘capitalismo’ romano, espresso da una società tipicamente schiavistica). Era il 1967, quando all’ostilità marxista, si combinò ancora il sostanziale disinteresse, salvo importanti ma isolate eccezioni, della cultura europea per l’opera del grande tedesco. Il silenzio che accompagnò l’ultimo grande sforzo di Sereni d’innovare la cultura marxista non fece che anticipare il più ampio e desolato silenzio che segnò la sua fine e, anche successivamente, la sua opera, fino al nuovo interesse maturato intorno alla sua biografia personale e intelletuale nel nuovo secolo.
Morì a Roma il 20 marzo 1977.
Opere: oltre a quelle indicate nel testo si segnalano: Da Marx a Lenin: la categoria di 'formazioine economico-sociale', in Critica Marxista, 1970, Suppl. n. 4, pp. 29-78; La rivoluzione italiana, a cura di G. Prestipino, Roma 1978; Terra nuova e buoi rossi: le tecniche del debbio e la storia dei disboscamenti e dissodamenti in Italia, Bologna 1979; Diario (1946-1952), introduzione e cura di G. Vecchio, Roma 2015.
Fonti e Bibl.: Gattatico (Reggio Emilia), Istituto Alcide Cervi, Biblioteca Archivio Emilio Sereni, Fondo Emilio Sereni. E. Volterra, Emilio Sereni studioso storico dell’agricoltura, Roma 1978; T. Redolvi Riva, La nozione di formazione economico-sociale nel marxismo di Emilio Sereni, in Il pensiero economico italiano, 17, 2009, 1, pp. 111-124; Emilio Sereni. Ritrovare la memoria, a cura di A. Alinovi et al., Napoli 2010; A. Sereni, La formazione di Emilio Sereni. Note dall’archivio di famiglia, in Italia rurale. Paesaggio, patrimonio culturale e turismo. Lezioni e pratiche della Summer School Emilio Sereni, a cura di G. Bonini- R. Pazzagli, Gattatico 2018, pp. 39-58; Emilio Sereni. L’intellettuale e il politico, a cura di G. Vecchio, Roma 2019.