EMILIA-ROMAGNA
Regione dell'Italia settentrionale comprendente le due regioni storiche dell'Emilia a O e della Romagna a E. La denominazione della parte occidentale deriva dalla via Emilia, quella dell'asse viario romano che corre tra Piacenza e Rimini nella pianura pedemontana, mentre quella della parte orientale risale al termine Romania, terra degli ultimi Romani, i Bizantini. Il binomio rivela la contrapposizione delle due aree, che si trovarono unificate solo al tempo dei Galli Boi e dei Romani: infatti coincidono con la regione Cispadana e, con poche varianti (Sarsina e Mevaniola), con la Regio VIII augustea, che comprendeva il triangolo tra Po, Appennini e mare Adriatico; nel 215 la parte orientale fu aggregata alla Flaminia et Umbria, mentre in seguito la parte occidentale venne unita alla Liguria e alla Tuscia.I Romani avevano bonificato la bassa pianura e avevano strutturato il sistema delle comunicazioni, sia quello fluviale, sia quello viario costituito dalla via Emilia, cui afferivano i percorsi tramites appennini verso l'Etruria e Roma, e a E dalla Popilia e dalla Flaminia. Se nel 387 le città padane erano semirutarum urbium cadavera (Ambrogio, Ep., XXXIX, 3; PL, XVI, col. 1146) a causa della crisi demografica, Ravenna invece continuò a prosperare prima come città portuale cosmopolita, poi dal 402 come capitale; allora maestranze, forse di provenienza milanese, costruirono adeguati centri del potere religioso usando tecniche in parte romane, in parte paleocristiane e fondendo tipologie occidentali e orientali. La struttura muraria, diversamente da Milano e Roma, era a mattone pieno e il mattone era, tranne che al tempo di Giuliano Argentario, di reimpiego, mentre le tegole erano di fattura recente; il riutilizzo di spoliae marmoree fu invece limitato alla prima metà del sec. 5°, poi si usarono elementi nuovi. La città fiorì durante il regno di Teodorico (493-526), caratterizzato da un programmatico recupero delle strutture romane, funzionali e di rappresentanza; per il resto dell'area in esame resta notizia della costruzione della residenza di Palazzolo e di interventi a Parma. La città emiliana aumentò la propria estensione da ha 14 a 23 mentre, per es., Bologna aveva ridotto la superficie da ha 70 a 25. Eppure il rinnovamento dovette essere così ampio da permettere a Paolo Diacono di affermare che l'Emilia "locupletibus urbibus decoratur, Placentia scilicet et Parmaque, Regio et Bononia Corneliique Foro, cuius castrum Imolas appellatur" (Hist. Lang., II, 18; MGH. SS rer. Lang., 1878, pp. 12-187:83).L'arrivo nel 568 dei Longobardi doveva nuovamente trasformare l'Emilia in fronte militare, con un limes fluttuante; essendo la pianura invasa dalle acque dalle quali emergevano solo insulae, la guerra si combatté nella zona pedemontana e montana. I Longobardi riuscirono a insediare i loro castelli entro il 603 nella zona di Piacenza e Parma e poi procedettero, entro il 628, alla conquista dai castra di Castell'Arquato, Castellana, Bismantova, che garantivano ai Bizantini le comunicazioni con i porti di Luni e Pisa. Mentre perdeva d'importanza la via Emilia, il traffico si spostava lungo la via Lombarda di monte Cirone e poi lungo la via Francigena di monte Bardone, itinerari poi percorsi da pellegrini di tutto l'Occidente. Nella politica longobarda del territorio rientrò anche la fondazione tra il 613 e il 614 del monastero di S. Colombano a Bobbio, nel 720 di S. Moderanno a Berceto, per volontà di Liutprando, e di Fanano nell'alta valle del Panaro, subito abbandonato poiché venne preferita la ormai conquistata pianura, dove sorse nel 751 il monastero di Nonantola, sempre a opera di Anselmo, duca del Friuli, che arricchì il cenobio di preziosi manoscritti portati da Montecassino; nel bolognese furono fondati S. Lucia di Roffeno e S. Maria di Monteveglio. Di questi monasteri, come di cellae, ecclesiae, oratoria, xenodochia i cui nomi affiorano nei documenti, restano incerte testimonianze archeologiche di alta età, tranne che per la piccola rotonda, con coronamento ad archetti, di Lizzano in Belvedere. Solo alcuni manoscritti delle ricchissime biblioteche di Bobbio e Nonantola permettono di ricostruire la complessa rete di rapporti e scambi che intercorsero tra i cenobi emiliani e quelli italiani ed europei.Frattanto anche i Bizantini avevano provveduto a costruire un articolato sistema difensivo, i castra e le pievi della pianura, a guardia dei passi agibili attraverso le paludi: furono muniti i monasteri di S. Maria in Padovetere, Argenta, Pomposa, fondati dagli arcivescovi ravennati all'inizio del sec. 6° come avamposti per l'espansione a N, e nuovi castra si aggiunsero, tra i quali quello di Ferraria (Ferrara), che finì per aggregare i territori circostanti che la guerra separava dai naturali bacini di afferenza. Recenti scavi archeologici hanno fornito dati variamente interpretabili, concordi solo nell'attestare per l'età longobarda e altomedievale la continuità d'uso degli edifici pubblici romani e il mantenimento di tecnologie edilizie romane da parte di maestranze specializzate. Sembra comunque che nell'area bizantina sia riscontrabile una certa persistenza di vita urbana e rurale, mentre nell'area longobarda si assisterebbe a un processo di ruralizzazione delle città.A Rimini e a Ravenna l'edilizia privata era in mattoni di recupero, mentre a Piacenza, Modena, Bologna, Ferrara prevalsero il legno e il consumo di materiali preesistenti; crebbero le stratificazioni urbane, dovute a crolli, rifiuti non rimossi, e l'impiego di tecnologie edilizie povere, mentre furono utilizzati le sepolture urbane e i riporti di terreno per coltivazioni. Non è stato individuato un preciso programma edilizio, anzi a Piacenza il rapporto tra spazi liberi e abitati sembra estraneo a qualunque regola per l'abbandono delle strutture delle insulae romane, parcellizzandosi la proprietà in seguito al disgregarsi dei patrimoni familiari.Anche in età franca l'Emilia costituì il limes e i valichi dell'Appennino continuarono a essere considerati la porta verso il Patrimonium Petri dai sovrani carolingi che con diverso interesse guardarono alle città. Mentre i Longobardi avevano privilegiato le zone extra moenia, i Franchi fortificarono la curtis regia e intervennero nell'economia cittadina servendosi dei monasteri. I primi cenobi documentati nelle città emiliane sono quelli femminili, proprietà privata di nobildonne franche: a Parma Cunigonda fondò S. Alessandro e S. Bartolomeo; a Reggio Emilia la stessa regina fondò S. Tommaso, extra moenia; a Piacenza Engelberga, moglie di Ludovico II, fondò S. Sisto.Al sistema fortificato di queste cittadelle imperiali si contrapposero i castra dei vescovi, che non erano più solo una presenza patrimoniale, ma anche politica. Nell'872 il vescovo di Piacenza ottenne il permesso di utilizzare resti delle vecchie mura, nel 900 fu la volta del vescovo di Reggio e contemporaneamente anche a Parma si fortificò la nuova sede presso la curtis regia. Diverso il caso di Mutina (Modena), danneggiata da esondazioni e da guerre e abbandonata da Liutprando a favore di una nuova sede fortificata, Civitas Nova (Cittanova): a Mutina rimase il vescovo a tutelare l'antico centro romano che rifiorì soprattutto con Leodoino (869-898). Il suo successore Gotefredo costruì un proprio castello presso Cittanova, segnando l'inizio del fenomeno dell'incastellamento che si diffuse rapidamente in tutta l'Emilia terrorizzata dalle invasioni degli Ungari. Questi si volsero contro i monasteri, come Nonantola e S. Stefano, costruito fuori le mura di Bologna nel sec. 5°, accresciuto dai Longobardi e infine donato nell'887 da Carlo il Grosso al vescovo di Parma non essendo il vescovo bolognese, privo di poteri temporali, in grado di difendere la propria chiesa in una città dipendente da Roma, ma in mano ai Franchi.Analoga situazione a Ferrara, ove gli arcivescovi ravennati, detentori di un cospicuo patrimonio fondiario, grazie alla complicità dei sovrani franchi si sottrassero alla dipendenza romana. A Ravenna ormai non si costruiva più, con l'unica eccezione del palatium ottoniano extra moenia (Storia di Ravenna, 1991-1992), e la situazione urbanistica si avvicinò, alla fine del sec. 9°, a quella delle città emiliane.Delle trasformazioni subìte dagli edifici di culto in relazione alla riforma liturgica carolingia restano i frammenti di amboni, pergulae e recinzioni presbiteriali di Bobbio, S. Vitale di Carpineti, Modena, Bologna, Ferrara, Ravenna. Nel sec. 10° vi fu una generale ripresa delle città, il cui tessuto edilizio tendeva nuovamente a compattarsi, eliminando le zone rurali interne, mentre all'esterno si aggregavano i borghi. Il nuovo potere episcopale favorì la fondazione di monasteri urbani dipendenti dall'ecclesia cittadina: nel 983 i Benedettini s'insediarono in S. Stefano a Bologna e Sigifredo II di Parma fondò S. Giovanni e poi S. Paolo; nel 996 Giovanni di Modena fondò S. Pietro; nel 1013 Teuzone di Reggio S. Prospero, mentre a Piacenza erano episcopali le chiese di S. Savino e S. Sepolcro e a Ferrara di S. Bartolo e S. Silvestro. Nel contado, presso i castra signorili, si edificarono o riedificarono le pievi e gli oratori, ma anche monasteri come quello cluniacense di Vigolo Marchese (Piacenza), o quello di Castione Marchesi (Parma), del 1033.Alla metà del sec. 10° nell'area occidentale Adalberto Atto di Canossa acquisì una vasta proprietà fondiaria, base per il potere politico conferitogli nel 982 da Ottone II, mentre il figlio Tedaldo fu nominato da papa Silvestro II conte di Ferrara. A questa dinastia è legata la restituzione, o la costruzione, di gran parte dei castelli, pievi e monasteri della regione tra la fine del sec. 10° e l'inizio del 12°, a partire da S. Apollonio, sulla rocca di Canossa. Al margine della zona di influenza canossiana restano gli edifici piacentini, caratterizzati da un'ampia gamma di tipologie lombarde; cripta a oratorio con volte a botti penetranti e a crociera, pianta ad aula unica triabsidata, pianta centrale, pianta a tre navate e facciata a salienti, traccia di Westwerk carolingio (S. Antonino, 1014-1050). Limitato è il corredo plastico superstite, come i capitelli di S. Dalmazio con foglie ad acqua angolari; semplicemente scantonati sono invece i capitelli del sacello di S. Paolo a Parma (inizio del sec. 11°), mentre le erratiche testimonianze plastiche della restante area emiliana di diretto dominio canossiano rivelano una preferenza per il corinzio, modificato in differenti trascrizioni. Castell'Arquato, Fornovo di Taro, Carpi, Montovolo provano il prevalere negli edifici intorno al Mille della pianta basilicale a tre navate, con una o tre absidi e con probabile copertura a botte sulla nave mediana.All'estremità orientale della regione il massimo cantiere è quello di Pomposa, ove Mazulone, artefice colto e aperto ai modelli orientali e islamici, operò nel 1026, al tempo dell'abate Guido, che segnò un momento di programmato confronto con Ravenna documentabile nel reimpiego del pavimento musivo di S. Severo di Classe (Russo, 1986). Quando nel 1063 Deusdedit realizzò il campanile, il clima culturale era mutato; la presenza di una forte componente lombarda sottolinea l'interesse del monastero per quanto accadeva nel resto della regione, così come S. Maria Maggiore di Bologna offre testimonianza della diffusione delle novità del cantiere pomposiano; analoga compresenza di elementi si riscontra in S. Pietro in Sylvis a Bagnacavallo.Il governo di Matilde diCanossa segnò un ritorno della regione al ruolo di limes tra papato e impero nell'ambito della lotta per le investiture, che si combatté anche in Emilia, dove prevalevano i vescovi e gli abati filoimperiali; per ripristinare la chiesa evangelica delle origini si cercò un modello nell'ambito cenobitico, con particolare attenzione a quelle famiglie monastiche che già da tempo avevano attuato la riforma, soprattutto Montecassino e Cluny. È da intendersi in quest'ottica la comparsa di elementi borgognoni nelle chiese emiliane che si riedificarono nella seconda metà del sec. 11° per ottemperare alla riforma gregoriana che propugnava la vita in comune del clero secolare e la liturgia comunitaria; gli interventi si incentrarono sulle fabbriche canonicali annesse alle chiese (leggibili a Roffeno e Badia Cavana), sul transetto che collega chiesa e canonica e sull'ampliamento dell'area presbiteriale. Nella fase iniziale si assistette a una ripresa dell'antico generalizzata, ma non rigorosamente programmata, che si espresse nei capitelli 'corinzieschi' di S. Stefano a Bologna, di Roffeno, di Nonantola, di Frassinoro, della cripta di Modena, di quella di Parma, nel S. Savino di Piacenza, in cui è stata individuata l'opera più o meno diretta di maestranze lombarde; ugualmente diversificata risulta nelle strutture architettoniche la ripresa delle piante di Cluny II e della collegata cappella di S. Maria, ripresa evidente soprattutto negli edifici minori degli anni settanta-ottanta del secolo. A partire dagli anni novanta la programmazione divenne più rigorosa e coinvolse tutto l'edificio, dalla struttura e plastica architettonica all'arredo interno, ai pavimenti musivi, agli oggetti liturgici: Nonantola, Polirone, Modena, Cremona, Piacenza furono le tappe della c.d. officina della riforma (Quintavalle, 1984a; 1991), che attuò i nuovi programmi narrativi, esemplati sulle coeve esperienze di Cluny III, ma anche della Chaise-Dieu e di altri cenobi riformati. Tali programmi, voluti dal partito riformista e da Matilde, furono affidati all'officina di Wiligelmo, formatosi nell'area cassinese-amalfitana (Quintavalle, 1991, p. 305), e di Lanfranco, tramite di complesse esperienze europee.Accanto ai temi del lavoro (i portali dei Mesi), della salvezza (Genesi, Pantocratore), compaiono i racconti agiografici, del pellegrinaggio e della crociata; la narrazione assume significato all'interno dalla costante citazione dell'antico, del paleocristiano, segno della chiesa delle origini, antico come reimpiego (Quintavalle, 1964-1965), come recupero del sistema basilicale, della copertura a capriate, del transetto, antico come Roma, ma anche come Bisanzio, sede dell'impero, riferimento oggi più avvertibile in quello che resta della pittura e della miniatura.La morte di Matilde e la formazione dei comuni mutarono il rapporto tra officina e committenti: Nicolò divenne l'interlocutore dei ceti cittadini emergenti. La sua fase finale coincise con la comparsa in Emilia dei Cistercensi a Chiaravalle della Colomba (1136) e a Fontevivo (1142), abbazie fronteggiantisi lungo il confine tra Parma e Piacenza in relazione allo sfruttamento dei pozzi salini di Salso e alla bonifica del territorio; iniziate in età bernardina, mostrarono nella seconda metà del secolo una sottile capacità di scelta all'interno del repertorio costruttivo del Romanico emiliano, pur mantenendo assoluta fedeltà allo spirito dell'Ordine.Restano ancora da indagare i nessi tra i cantieri cistercensi e quelli campionesi, cui era affidato il completamento delle cattedrali e la loro manutenzione in tutta l'Italia settentrionale, problema particolarmente interessante a Parma, ove dal 1178 al 1215 ca. operò Benedetto Antelami. Trasformazioni liturgiche e controversie ereticali favorirono la riprogrammazione del racconto ai fideles con modifica dell'arredo interno delle cattedrali, pontili (Modena) o pulpiti (Parma) con storie della Passione o con il Cristo del Giudizio finale (Reggio Emilia). La presenza di Antelami a Fidenza, la diffusione dei suoi modelli lungo la via di monte Bardone, le ristrutturazioni di Toano (Quintavalle, 1977) e Fanano (Gandolfo, 1987) attestano come il pellegrinaggio fosse ancora il mezzo di diffusione più importante dei modelli religiosi.Anche in Emilia la situazione era però destinata a mutare: la città assorbì la funzione di assistenza propria dei monasteri, costruì i propri ospedali e xenodochi, rinnovò le proprie sedi del potere e alla città si rivolsero i nuovi Ordini mendicanti presenti in Emilia in date assai precoci.Insediatisi dapprima in edifici preesistenti, i Francescani non tardarono a innalzare fabbriche proprie secondo diversificate tipologie, ma nel consueto rispetto delle esigenze territoriali degli altri insediamenti mendicanti e in accordo con il Comune: a Bologna, dal 1236, si trascrisse nel cotto il sistema delle cattedrali con coro ad ambulacro e cappelle radiali, sistema ripreso a Piacenza dal 1278; a Ravenna si riutilizzò la bizantina S. Pietro (1261); a Parma (1233) e a Modena (1244) si edificarono edifici a tre navate, tre absidi, con copertura a capriate e facciate a capanna contraffortate.Molto meno resta delle chiese domenicane, limitate al S. Domenico di Bologna (1221) e al S. Giovanni in Canale di Piacenza, che rappresenterebbero rispettivamente l'edificio-mausoleo e l'edificio d'uso corrente dei Domenicani, caratterizzati dalla copertura della navata maggiore, con volte a crociera verso il coro e capriate verso la facciata (Wagner-Rieger, 1956; Cadei, 1980). Alla funzione aggregante che le grandi fabbriche mendicanti esercitarono sul tessuto urbano si contrappose l'azione strutturante degli edifici comunali che plasmarono i nuovi o rinnovati spazi delle piazze civiche (Parma, Piacenza, Bologna) o che ridefinirono lo spazio in rapporto alla cattedrale (Reggio Emilia, Modena, Ferrara). Anche i cantieri delle cattedrali e delle abbaziali si rinnovarono, le seconde soprattutto nelle fabbriche monastiche, come a S. Stefano (Bologna), Pomposa, Chiaravalle della Colomba, S. Felicola (Parma); accanto agli onnipresenti Campionesi comparvero differenti maestranze, come il Maestro dei Mesi attivo a S. Mercuriale di Forlì e alla cattedrale di Ferrara (Gnudi, 1975) o gli scultori di cultura reimsiana che sempre a Ferrara realizzarono nel 1250 ca. il Giudizio finale.Con questa cultura architettonica si confrontarono i frescanti e musivari che dovettero adeguare i modelli narrativi bizantini a spazi differentemente articolati; nonostante la difficoltà di lettura imposta dalla frammentarietà dei testi superstiti, da rese tecniche incerte e da discontinue matrici formali, sembra tuttavia che l'area dell'Emilia orientale abbia incontrato minori difficoltà ad assorbire nei propri contesti narrativi iconografie astoriche codificate, mentre nell'area occidentale, a Modena, Reggio, Novellara, Parma e Piacenza si compirono diversificate scelte in differenti contesti.Nel battistero di Parma i committenti si rivolsero a precisi modelli, provenienti dall'area balcanica, per narrare l'unità fra Oriente e Occidente cui tendeva la Chiesa di Roma dopo la sconfitta definitiva dei ghibellini (Quintavalle, 1989). Nessi individuati con la produzione delle regioni limitrofe hanno riproposto il problema della patria di origine dei pittori, alternativamente ritenuti bizantini o padano-occidentali (Boskovits, 1988-1989).La miniatura coeva riflette la presenza di modelli costantinopolitani nelle codificate iconografie religiose, ma l'esecuzione da parte di miniatori legati ai locali scriptoria favorì, come dimostrano i manoscritti di Piacenza, Modena e Nonantola, la sopravvivenza di elementi romanici e l'apertura verso le novità d'Oltralpe; dopo la metà del secolo Bologna divenne il centro di produzione libraria più importante - crogiuolo di esperienze internazionali dove si produssero opere di differente qualità e diversificata cultura - e di una complessa stratificazione di esperienze destinate ben presto a confrontarsi con il linguaggio giottesco.Proprio dal tema di questo confronto di vasariana tradizione è iniziata la lenta rivalutazione della cultura emiliana del Trecento sulla base di un'indagine che ha privilegiato il medium pittorico. Sebbene anche ora l'universo segnico del sec. 14° mantenga degli aspetti poco indagati, si è in grado di valutare meglio la situazione regionale alla luce degli intensi rapporti con l'ambiente circostante e di volgere lo sguardo, oltre che a Rimini e a Bologna, anche agli altri centri del territorio, come Parma, ove il Maestro del 1302 tramita modelli romani negli affreschi del battistero, o Ferrara, ove in S. Antonio in Polesine opera il protogiottesco Maestro della Passione.Allentatasi la dominazione pontificia a seguito dell'esilio del papa in terra di Francia, la regione divenne il teatro privilegiato dello scontro tra impero e Angioini fino agli anni trenta e poi tra Visconti ed Estensi; nelle singole città forze comunali e signorili si contesero il potere, con un netto prevalere di minuscole signorie locali nella Romagna, mentre altrove si rinforzarono le famiglie feudali nel contado e quelle borghesi nelle città. L'instabilità politica e le pestilenze che si susseguirono incessantemente, con particolare violenza intorno alla metà del secolo, costituirono l'elemento determinante per comprendere le motivazioni della discontinuità e differente qualità della produzione artistica.La manifestazione più evidente delle continue lotte fu il proliferare di rocche e castelli, che presentano in tutta la regione una certa omogeneità e si articolano in tre tipi: il castello sviluppato in altezza, il castello a torre centrale (Imola, Reggiolo) e quello a torri angolari, diffuso non solo in pianura, ma anche a mezza costa (Castell'Arquato). Le piante nel corso del secolo tesero a diventare quadrilatere e le torri quadrate, tranne che nel piacentino, ove permase la forma rotonda di tradizione locale, ben documentata nella roccaforte del capoluogo (1315-1373). Il castello di Statto sul Trebbia segna il passaggio dalla struttura a piombo delle mura a quella a sporgere, realizzata a Ferrara nel 1385 da Bartolino da Novara; qui trionfa lo schema quadrato con torri angolari di ascendenza lombarda, ipotizzabile anche a Faenza, Cortemaggiore e Imola. Se a Vigoleno nel 1389 castello e abitato formavano un unico insieme difensivo, nelle altre città invece il rapporto tra la nuova struttura del potere e il vecchio palazzo comunale era sempre molto difficile, anche se lo spopolamento rese disponibili vaste aree all'interno delle mura: in area viscontea (Piacenza, Parma, Bologna) il castello sorse a ridosso delle mura, sul lato rivolto verso Milano, a Reggio Emilia invece nel 1335 la gonzaghesca roccaforte di S. Nazzaro andò a occupare ca. un ventesimo della superficie urbana (Mussini, 1987), mentre a Ferrara e nella Romagna il castello si situava nel cuore del tessuto urbano modificandone gli equilibri; veniva determinata così l'ascesa di una nuova categoria di artefici, gli architetti militari e idraulici, che ebbero un ruolo molto importante nella vita cittadina e dai cui ranghi sarebbe uscito nell'ultimo quarto del secolo Antonio di Vincenzo, per dirigere il cantiere di S. Petronio a Bologna.Di minor respiro furono invece gli interventi dei 'magistri da muro', di cui cominciarono a tramandarsi gli statuti (Modena): proseguirono i cantieri delle cattedrali, diretti ancora dai maestri campionesi, gli unici a possedere un'adeguata tecnologia nella lavorazione della pietra, mentre la devozione popolare, sollecitata dagli eventi disastrosi, incrementò le chiese mendicanti e quelle del movimento dei Flagellanti.Il cotto fu il materiale funzionale a queste fabbriche, che perpetuarono coerentemente il dinamico linearismo delle superfici di ascendenza cistercense (Romanini, 1964); la concezione cromatica della parete del Gotico lombardo entrò però in crisi nella seconda metà del secolo, con il diffondersi della consuetudine di aggregare oratori e cappelle gentilizie alle navate laterali delle chiese e di sostituire agli archetti correnti di ascendenza 'lombarda' le più complesse e preziose scorniciature in cotto, realizzate dai boccalari o terracottari, la cui corporazione si affermò con importanza in tutte le città della regione. Anche i 'magistri da lignamine' cominciarono a differenziare il proprio operare da quello dei 'magistri da muro', cui erano associati per un'antica tradizione che risaliva ai Longobardi, che avevano unito la tecnica romana della costruzione in cotto a quella germanica della costruzione in legno; alla fine del secolo i cori lignei di Giovanni da Baiso a Ferrara (S. Domenico) e a Bologna (S. Petronio) dimostrano l'alto livello conseguito da questi artefici.Analoga scissione tra ferrai e orafi è documentata a Bologna fin dal 1298, mentre nei documenti compaiono ricamatori, vetrai, calligrafi, fonditori. Il diversificarsi della committenza e le stesse strutture cittadine resero più articolato il sistema della produzione artistica; a differenti esigenze corrispose sempre più una specializzazione tecnica, ampiamente dimostrata da Conti (1981) per le botteghe librarie bolognesi e da Grandi (1982) per quelle degli scultori. In assenza di una tradizione locale dell'ars marmoris, nell'area emiliana, a giudicare dagli scarsi testi superstiti, prevalse la tradizione campionese, mentre in quella romagnola i modelli privilegiati dovevano provenire da Venezia, come dimostrano i sarcofagi ferraresi (quello di Bonalbergo di Bonfado, del 1343, nella cattedrale e quello della chiesa di S. Maria Nuova e S. Biagio) o l'arca del beato Jacopo Salomoni, del 1340 (Forlì, Pinacoteca Civ.); a Bologna invece, sebbene l'esecuzione delle imprese di maggiore impegno fosse affidata a maestri di provenienza esterna, come Manno di Bandino, Giovanni di Balduccio o Agostino e Agnolo da Siena, per i sepolcri monumentali si organizzò una produzione locale, seppure gestita da maestri immigrati che operavano in sintonia con le botteghe dei pittori.Mentre negli anni venti Pietro da Rimini maturava in senso gotico il suo linguaggio artistico e nel refettorio di Pomposa si aggiornava il giottismo sulla base delle più recenti esperienze padovane, pur nell'osservanza della sempre imperante tradizione veneto-adriatica, a Bologna, crocevia degli intellettuali d'Europa, con il Maestro del 1328 e il Maestro del 1333, Francesco da Rimini, lo pseudo-Jacopino, l'Illustratore e il giovane Vitale si affermava la grande cultura nata dalla fusione delle esperienze maturate nelle corti di Francia e quelle delle città toscane.Se la forza di penetrazione di questi modelli arrivò fino al battistero di Parma con il Maestro del Trionfo della morte e con un seguace dello pseudo-Jacopino, autore di alcuni affreschi nei nicchioni sudoccidentali, altri elementi si manifestarono nell'area più settentrionale della regione, come nel Pantocratore di Travo (pieve di S. Antonino), ove fin dal primo quarto del secolo risultarono stabiliti i referenti lombardi per la tradizione locale.Dopo l'interruzione del 1348 nell'area estense si formò un linguaggio coerente, plasmato sulla forza narrativa di Tomaso Barisini e di Serafino de' Serafini, mentre Parma e Piacenza (S. Lorenzo) si allinearono sempre più al racconto fantastico del Gotico lombardo, i cui modelli nordici stavano, anche se per altra via, approdando a Ferrara nel ciclo cavalleresco di palazzo Minerbi e in seguito si diffusero a Bologna nel complesso crogiuolo del cantiere petroniano.
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