Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso dell’Ottocento la mobilità degli individui, sulle brevi ma anche sulle lunghe distanze, aumenta vertiginosamente. È un aspetto del processo di mondializzazione in via di accelerazione. Le conseguenze innanzitutto demografiche, ma anche economiche e culturali di questi spostamenti sono enormi. La vertiginosa crescita della popolazione delle Americhe e dell’Australia dipende essenzialmente dalla massiccia corrente immigratoria proveniente dall’Europa e dall’Asia. L’immigrazione comporta nei Paesi di destinazione la formazione di comunità con tradizioni culturali, religiose e linguistiche diverse. Nei territori di emigrazione, come l’Italia, questi spostamenti provocano assestamenti sociali importanti, mentre le rimesse degli emigranti costituiscono, a livello locale, ma anche nazionale, una risorsa economica di grande importanza.
Un mondo in movimento
L’Ottocento non è solo il secolo della borghesia e dell’industrializzazione, è anche il periodo in cui il mondo conosce un significativo aumento della mobilità umana infra-continentale e inter-continentale, superando una lunga fase che la storiografia ha descritto come fondata sul paradigma della sedentarietà e dando così un forte impulso al processo di mondializzazione in corso.
Sebbene questa manichea opposizione tra l’uomo ottocentesco sempre con la valigia in mano e un uomo sei-settecentesco dalla mobilità modesta e geograficamente limitata sia stata recentemente stemperata, portando alla luce l’immagine di un’Europa moderna dinamica, “sulle cui strade si muovevano quotidianamente ‘nomadi’, ‘girovaghi’ e ‘viaggiatori’ di riguardo”, nonché “i più svariati gruppi di migranti per mare e per terra” (Bade, 2001), è senza dubbio vero che il “lungo Ottocento” vede fenomeni migratori particolarmente significativi non esclusivamente in termini quantitativi, ma anche per il ruolo decisivo che essi giocano nella definizione degli assetti politici, economici e sociali del mondo contemporaneo.
Dunque, non si assiste solo al fenomeno delle migrazioni stagionali che sin dal Medioevo vedono individui e gruppi in cerca di lavoro dar vita a “sistemi migratori” che connettono le zone costiere dell’Europa nord-occidentale (sistema del Mare del Nord), Catalogna-Linguadoca-Provenza o ancora l’Italia centrale (circa 100 mila lavoranti affluiscono in Toscana, Lazio e Corsica ogni estate per i lavori agricoli o l’edilizia); e nemmeno unicamente a quegli spostamenti lungo l’asse campagna-città etichettati come “inurbamento”, che non di rado valicano i confini regionali, perdendo i tratti di quella “micro-mobilità” per certi versi non assimilabile alle migrazioni vere e proprie. Mentre la già ingarbugliata matassa delle traiettorie interne al Vecchio Continente e al bacino del Mediterraneo non cessa d’infittirsi, acquisiscono via via maggiore importanza le migrazioni transatlantiche che, se nel primo trentennio dell’Ottocento si mantengono sui livelli di fine XVIII secolo (50 mila persone di media all’anno), conoscono nei decenni successivi un incremento tanto spettacolare quanto difficilmente quantificabile a causa della disomogeneità dei coevi metodi di rilevazione, dell’incapacità delle amministrazioni pubbliche di cogliere e registrare adeguatamente i ritorni e le diverse forme di pendolarismo, nonché della vaghezza della definizione stessa di “emigrante” (spesso confuso con turisti, uomini in viaggio d’affari, ecc.).
Pur nella varietà delle stime, pare ormai accertato che circa 50 milioni di persone lasciano l’Europa alla volta del Nuovo Mondo tra la Restaurazione e lo scoppio della Grande Guerra, dirigendosi in parte verso Stati Uniti e Canada (in particolare inglesi, irlandesi, tedeschi, polacchi e, a partire dai primi anni del Novecento, molti italiani), e in parte verso l’America latina (il 77 percento degli immigrati tra 1854 e 1924 è composto da italiani, spagnoli e portoghesi).
Viaggiare è anche sinonimo di cambiamento
L’impatto che questa aumentata mobilità ha in ambiti cruciali della vita socio-economica e politica dei Paesi d’origine e d’arrivo è enorme. Non vennero profondamente alterati solo gli equilibri demografici (l’Irlanda passa da 8 a 4,5 milioni di abitanti tra 1846 e 1901; l’Italia vede partire oltre 14 milioni di persone nel solo trentennio 1871-1914; la popolazione americana, invece, passa dai 5,3 milioni del 1800 agli oltre 76,2 milioni del 1900), le dinamiche economico-sociali (la bilancia commerciale, i flussi monetari condizionati dalle rimesse, la composizione del mercato del lavoro ecc.), gli assetti urbanistici (con la creazione dei quartieri etnici come le Little Italy) e le culture (attraverso prestiti, transfers e veri e propri procedimenti mimetici tra il background dei nuovi arrivati e quello delle società ospiti); in uno spazio politico e giurisdizionale ancora segnato dall’incertezza dei confini, delle identità e delle appartenenze, il crescente numero di persone che abbandonano – definitivamente o anche solo temporaneamente – le proprie case per recarsi altrove richiede agli Stati eredi della macchina amministrativa di matrice napoleonica anche di definire più precisamente il proprio territorio e di utilizzare tutti gli strumenti offerti dalla “rivoluzione identificatoria” di fine Settecento (anagrafe, passaporti ecc.) per meglio monitorare e classificare i migranti, rimettendo in discussione i tradizionali criteri di assegnazione della cittadinanza e confrontandosi con la necessità di coinvolgere anche queste migliaia di persone nei processi di costruzione delle identità nazionali avviati in quegli anni.
Chi migra
Ciò appare ancor più necessario alla luce della crescente ampiezza e complessità dell’universo dei migranti, un universo composto di mille galassie, in perenne movimento e troppo eterogeneo dal punto di vista sociale per poter essere appiattito sulla figura dell’indigente vagabondo. Certo, tra coloro che solcano strade, mari e oceani ci sono migliaia di unwanted, che girovagano ovunque malaccetti perché considerati bocche da sfamare, facili prede della propaganda sovversiva e persino potenziali veicoli di contagio epidemiologico. Tuttavia, ci sono anche gli esuli politici in fuga dalle repressioni antiliberali e poi antisocialiste dei regimi più conservatori, i membri di minoranze religiose discriminate nei Paesi d’origine e i giovani che cercano di sfuggire alla coscrizione obbligatoria, per non parlare dei tantissimi lavoratori che provano a offrire le proprie braccia su piazze più ricettive (non solo gli agglomerati urbani, ma anche i cantieri edili, quelli ferroviari, le zone caratterizzate da produzioni agrario-capitalistiche a carattere prevalentemente monoculturale ecc.), dei giovani che si spostano per affinare la propria preparazione culturale, degli apprendisti che lasciano casa per completare con uno stage il proprio percorso formativo e di quei membri dell’élite imprenditorial-mercantile che raggiungono i grandi centri del commercio e della finanza mondiale per impiantarvi le proprie aziende o che, al contrario, provano a sfruttare il vantaggio competitivo derivante dal loro capitale umano e sociale in Paesi late comer, dove la concorrenza è meno temibile e magari gli Stati offrono condizioni di vantaggio a chi può contribuire alla crescita economica della nazione.
...e perché migra
A questa pluralità di soggetti migranti – di cui le donne rappresentano una parte non trascurabile – corrisponde ovviamente un’altrettanto ampia varietà delle ragioni che spingono ad abbandonare i luoghi natii. Alla tradizionale lettura economicistica dei fenomeni migratori, che li vuole in sostanza legati al differenziale di opportunità tra luoghi diversi, secondo la formula push and pull, si sono aggiunte nel tempo spiegazioni non meno convincenti, capaci di dare ragione di comportamenti migratori altrimenti incomprensibili. È il caso delle migrazioni eurocoloniali, significativi trasferimenti di persone lungo l’asse madrepatria-colonie (tra il 1871 e il 1880 circa 1/3 degli emigrati britannici sceglie come meta aree interne all’impero) incoraggiati da alcuni governi europei perché legati inscindibilmente alle loro esigenze di controllo dei territori d’oltremare e alle politiche di “smaltimento dei poveri” attraverso l’emigrazione tese a ridurre le tensioni sociali interne generate dal crescente pauperismo. È anche il caso delle migrazioni forzate, un fenomeno che avrà il suo apice nel XX secolo ma che già nel corso dell’Ottocento conosce non solo gli esodi coatti registrati nell’Impero ottomano e in quello zarista (circa 190 mila i tatari di fede mussulmana cacciati dalla Crimea dallo scoppio della guerra al 1860), ma anche più subdole coercizioni economiche perpetrate attraverso la distruzione da parte dei colonizzatori delle basi di esistenza tradizionali dei popoli indigeni (come per esempio nel Camerun tedesco), nonché vere e proprie forme di lavoro coatto di stampo para-schiavistico, come nelle miniere del Congo belga o come il reclutamento nell’Impero britannico di circa un milione di persone inviate forzosamente nelle piantagioni caraibiche o a costruire ferrovie in Malesia. Libere, ma comunque non spiegabili esclusivamente in chiave economicistica, sono infine le cosiddette network-mediated migrations, ossia quelle “catene migratorie” che spingono migliaia di persone a scegliere le proprie mete soprattutto in funzione dei legami che esse vantano con parenti, amici e conterranei già emigrati, pronti a ricreare la comunità d’origine in un luogo diverso e offrirne ai membri i vantaggi materiali e immateriali (sostegno economico, ospitalità, reti di relazioni ecc.).
Come migra
Proprio il guardare alle migrazioni ottocentesche sovrapponendo allo spazio fisico lo spazio sociale ha suggerito a storici e sociologi di misurare gli spostamenti umani con unità di misura meno oggettive del chilometro, ma più vicine alla reale percezione dei protagonisti di questi viaggi. La distinzione tra “migrazioni di rottura” e “migrazioni di mantenimento” (Rosental, 1990), per esempio, ha consentito di relativizzare l’importanza della lontananza fisica tra luogo di partenza e di arrivo nella definizione delle strategie migratorie, stemperando di conseguenza anche la tradizionale dicotomia tra migrazioni a lungo e breve raggio, infra-nazionali e inter-nazionali, infra-continentali e inter-continentali, tutte facce di un unico fenomeno e spesso legate tra loro al punto da rappresentare – nella concreta esperienza di migliaia di migranti – tappe successive all’interno di spostamenti multipli.
Osservare le migrazioni attraverso gli occhi dei migranti ha infatti portato alla luce il carattere spesso plurigenerazionale e perennemente in fieri dei progetti migratori, la loro capacità adattiva rispetto a vincoli endogeni (il ciclo di vita, il mutamento del quadro familiare ecc.) ed esogeni (i grandi avvenimenti storici come guerre, catastrofi e cambi di regime, le politiche migratorie degli Stati ecc.), nonché la natura multipla degli spostamenti effettuati dagli uomini e dalle donne nel corso del XIX secolo. L’ “immigrato/emigrato” è dunque in realtà il “migrante”, un soggetto capace di muoversi da una località all’altra in uno spazio geografico multipolare entro il quale egli disegna spesso traiettorie multidirezionali. A volte, esse si presentano come una serie di segmenti che collegano punti disparati, senza assumere mai la rassicurante forma della retta tipica dei progetti organici di mobilità; altre volte riconducono i migranti da dove sono partiti, dando vita a “migrazioni di ritorno” sul modello di quelle che riportano in Italia circa metà degli “emigrati” negli USA entro pochi anni dalla partenza; altre volte ancora, costituiscono vere e proprie forme di pendolarismo basate sulla compatibilità delle opportunità offerte da aree diverse, come nel caso dei golondrinas, circa 100 mila braccianti agricoli che ogni anno fanno la spola tra Italia e Argentina per sfruttare le opposte stagioni dei due emisferi, giovandosi della diffusione nel corso del secolo di mezzi di trasporto sempre più veloci, sicuri, affidabili ed economici quali le navi a vapore (nel 1880, un viaggio dall’Italia all’America dura poche settimane e costa meno che andare dal nord Italia al nord della Germania).
Con l’Ottocento, insomma, i fenomeni migratori non solo confermano il loro carattere complesso, articolato e non diadicamente opposto alla sedentarietà, ma finiscono per intensificarne i tratti, ampliarne ulteriormente il raggio e coinvolgere un numero molto più ampio di persone in ogni parte del globo, giungendo a configurarsi come uno dei fattori chiave nella definizione del quadro politico-economico e sociale del mondo, che viaggia, a sua volta, veloce, verso “l’età della violenza”.