Emenda fiscale tra dichiarazione e processo
L’emenda della dichiarazione fiscale è lo strumento col quale il contribuente, nell’ambito del procedimento amministrativo, può far emergere errori od omissioni dichiarativi di fatto o di diritto, conseguendo il beneficio di utilizzare per la eventuale compensazione il maggior credito vantato. La dichiarazione emendata è soggetta ai controlli automatizzati ed alla procedura di accertamento ordinaria, all’esito della quale l’amministrazione può disconoscere le conclusioni dichiarative del contribuente; tuttavia, anche in sede di impugnazione dei conseguenti atti è riconosciuta la possibilità al contribuente di far valere le proprie ragioni di merito, secondo le regole generali sull’onere probatorio del diritto tributario. Nel caso di indebito pagamento di imposte il contribuente ha, inoltre, la possibilità di richiederne il rimborso. Su questi temi si intende fare il punto alla luce delle ultime decisioni di legittimità e della recente riforma.
La riscrittura delle regole dettate in tema di dichiarazione integrativa, ad opera dell’art. 5 d.l. 22.10.2016, n. 193 (Disposizioni urgenti in materia fiscale e per il finanziamento di esigenze indifferibili), come conv. dall’art. 1, co.1, l. 1.12.2016, n. 225, costituisce l’occasione per esaminare un tema complesso, che ha raccolto nel corso degli anni plurimi interventi normativi e giurisprudenziali.
Se infatti, a far data dalla fondamentale sentenza Cass., S.U., 25.10.2002, n. 15063 (chiamata ad applicare una normativa previgente), non è più stata in discussione la emendabilità della dichiarazione fiscale anche a favore del contribuente, prevista normativamente con l’introduzione del co. 8-bis nell’art. 2 d.P.R. 22.7.1998, n. 322 (Regolamento recante modalità per la presentazione della dichiarazione dei redditi), le recenti pronunce a S.U., 30.6.2016, n.13378, e 8.9.2016, n. 17757 e n. 17758, sono ritornate sulla questione, affrontando approfonditamente tempi, modalità ed effetti della emendabilità a favore della dichiarazione fiscale da parte del contribuente: in particolare hanno fatto risaltare l’insufficienza dell’assetto normativo chiamate ad applicare – sul quale il legislatore è prontamente intervenuto – ed hanno ribadito la possibilità di una tutela giurisdizionale delle ragioni di merito fondate su errori o omissioni propri del contribuente, atta a contrastare le pretese dell’amministrazione, tutela che ha trovato spazio nella novella.
Come è noto la dichiarazione fiscale del contribuente individua il punto di partenza di un procedimento di diritto pubblico, inteso all’accertamento del concreto contenuto dei rapporti tributari, che risulta fondato su una leale e fattiva collaborazione tra parte privata ed amministrazione, ed è connotato da una rigorosa scansione temporale, volta a soddisfare le esigenze di un razionale svolgimento, oltre al conseguimento, quanto più rapido possibile, di risultati stabili: ciò comporta che alla dichiarazione conseguano automaticamente gli effetti propri degli atti giuridici in senso stretto.
Ciò posto, pur apparendo i vincoli di forma e di tempo ai quali la dichiarazione è soggetta come sintomatici di una sostanziale irretrattabilità, ben presto ci si è interrogati sul se e come potessero emergere gli eventuali errori del contribuente, una volta scaduti i termini della presentazione e cessata la possibilità di presentare una dichiarazione sostitutiva.
Il tema dell’emenda della dichiarazione fiscale si è sviluppato sulla considerazione che sarebbe stato difficilmente compatibile con i principi costituzionali di capacità contributiva (art. 53, co. 1, Cost.) e di oggettiva correttezza dell’azione amministrativa (art. 97, co. 1, Cost.) un sistema legislativo che, radicalmente negando la emendabilità della dichiarazione, si proponesse di sottoporre il contribuente dichiarante, sulla base di tale atto, ad un prelievo fiscale sostanzialmente e legalmente indebito, come efficacemente valorizzato dalla sentenza della Cass., S.U., n. 15063/2002. Anche di recente è stato ribadito che le esigenze di mera stabilità amministrativa, in ossequio alle quali si è sostenuta, in passato, la non modificabilità della dichiarazione, non possono comprimere in modo assoluto il diritto del contribuente a versare le imposte secondo il principio di capacità contributiva. Ciò in sintonia con la disposizione dell’art. 10 l. 27.7.2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente), secondo la quale i rapporti tra contribuente e fisco sono improntati al principio di collaborazione e buona fede, essendo, appunto, conforme a buona fede non percepire somme non dovute, ancorché dichiarate per errore dal presunto debitore. Va peraltro rimarcato che la emendabilità della dichiarazione dagli errori di fatto e di diritto, testuali ed extratestuali, in attuazione dei ricordati parametri costituzionali, è stata fatta discendere, nella pronuncia a S.U. n. 15063/2002, «dalla relativa natura di atto non negoziale e non dispositivo, recante una mera esternazione di scienza e di giudizio», come tale, «in linea di principio modificabile nell’acquisizione di nuovi elementi di conoscenza e di valutazione sui dati riferiti e/o valutati, e dal fatto che essa non costituisce il titolo dell’obbligazione tributaria, ma integra un momento dell’iter procedimentale inteso all’accertamento di tale obbligazione ed al soddisfacimento delle ragioni erariali che ne sono l’oggetto», secondo un’ermeneutica che ha trovato conferma anche nelle più recenti decisioni delle S.U.
La riflessione su questo tema ha prodotto negli ultimi quindici anni plurimi interventi normativi volti a regolamentare la facoltà emendativa, conciliandola con il complessivo sistema tributario, seguiti o preceduti da molteplici pronunce della Cassazione, anche a S.U., che conviene esaminare secondo un criterio cronologico, nel quale sostanzialmente si possono distinguere tre fasi, di modo da valorizzare gli arresti che nel tempo si sono consolidati e rimarcare i punti di cesura.
In un primo momento, sulla scorta delle disposizioni contenute nei co. 7 ed 8 dell’art. 9 d.P.R. 29.9.1973, n. 600, nel testo vigente negli anni 1993 e 1994 – pertinenti la rimozione di omissioni e la eliminazione di errori suscettibili di importare un pregiudizio per l’erario – la già ricordata Cass., S.U., n. 15063/2002 aveva rimarcato che nessun limite temporale all’emendabilità ed alla ritrattabilità della dichiarazione dei redditi affetta da errori in danno del contribuente era desumibile dal dettato di queste disposizioni, ricavandone a contrario un generale principio di libera emendabilità della dichiarazione fiscale.
Già in questa decisione tuttavia si affacciavano altri due temi, sempre concernenti la rilevabilità degli errori e/o omissioni dichiarative da parte del contribuente, che nel corso del tempo si sono ancor più intrecciati con quello della emenda della dichiarazione. Segnatamente: quello afferente alla possibilità di richiedere a rimborso l’imposta indebitamente versata, ai sensi dell’art. 38 d.P.R. 29.9.1973, n. 602 – che disciplina la ripetibilità dell’indebito pagamento tributario, stabilendo che può essere esercitato nel caso di errore materiale, duplicazione ed inesistenza totale o parziale dell’obbligo di versamento, mediante la presentazione di un’istanza entro un termine decadenziale – e quello relativo alla possibilità di far valere direttamente in sede giurisdizionale errori e/o omissioni dichiarative.
Invero, il caso all’attenzione della Corte riguardava proprio un’istanza di rimborso, respinta dall’amministrazione esclusivamente sulla scorta delle contrarie risultanze della dichiarazione fiscale. In relazione a questo contesto fattuale la Corte, da un lato aveva sottolineato la netta autonomia e non sovrapponbilità della procedura di rimborso rispetto a quella emendativa della dichiarazione, in quanto caratterizzata da presupposti propri (il versamento dell’imposta, assunto come indebito, e la presentazione dell’istanza all’amministrazione entro il termine decadenziale decorrente dal versamento); dall’altro aveva affermato con estrema pregnanza che il ricorso ai rimedi giurisdizionali, contemplato contro la reiezione, espressa o tacita, dell’istanza restitutoria, comportava l’esame del merito della questione dedotta circa la non debenza dell’imposta anche se versata in autotassazione, senza che ciò potesse essere precluso dalla erroneità della dichiarazione.
Questa fase segue l’abrogazione del ricordato art. 9, d.P.R. n. 600/1973 e la formalizzazione normativa della emendabilità della dichiarazione dei redditi, IRAP ed IVA ad opera del d.P.R. n. 322/1998 che, all’art. 2, co. 8, richiamato dall’art. 8, co. 6, relativo all’IVA, nella formulazione originaria consentiva semplicemente, salva l’applicazione di sanzioni, la possibilità di correggere errori o omissioni mediante una successiva dichiarazione da presentare all’amministrazione finanziaria, senza distinguere tra la emendabilità in danno o a favore del contribuente e senza individuare un termine espresso entro il quale esercitare tale facoltà.
Tale disciplina è stata modificata significativamente una prima volta dal d.P.R. 7.1.2001, n. 435, con effetto dal 1.1.2002, – con regole applicabili anche alla dichiarazione IVA – che, sempre facendo salva l’applicazione delle sanzioni, ha riscritto l’art. 2, co. 8, cit., stabilendo, che la dichiarazione integrativa ivi prevista poteva essere presentata «non oltre i termini stabiliti dall’art. 43, d.p.r. 29/09/1073, n. 600» e cioè non oltre i termini di esercizio dell’attività accertatrice riconosciuti all’amministrazione, ed ha introdotto il co. 8-bis, concernente l’integrativa a favore del contribuente.
Con quest’ultima disposizione è stata disciplinata l’emendabilità delle dichiarazioni fiscali a mezzo di dichiarazione integrativa presentata dal contribuente per correggere propri errori od omissioni che abbiano determinato l’indicazione di un maggior reddito o, comunque, di un maggior debito d’imposta o di un minor credito, «non oltre il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo». In tal modo sono stati stabiliti quei confini temporali che le S.U. del 2002 avevano rilevato non essere stati normativamente previsti in precedenza, con la espressa previsione di legge che «l’eventuale credito risultante dalle predette dichiarazioni può essere utilizzato in compensazione ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo n. 241 del 1997». Ricapitolando, il termine per la presentazione della dichiarazione integrativa a favore risultava sostanziosamente inferiore a quello previsto dal co. 8, ma la parte privata conseguiva la possibilità di avvalersi ai fini compensativi dell’eventuale credito risultante all’esito della procedura.
Appare utile ripercorrere l’approdo ermeneutico raggiunto dalle sentenze a Sezioni Unite n. 13378, n. 17757, n. 17758 del 2016, in ragione della preziosa ricognizione, connotata da perduranti ed interessanti profili di attualità, anche se il quadro normativo oggi è mutato.
In particolare la decisione n. 13378/2016, ha avuto il pregio di distinguere la pluralità di strumenti attraverso i quali il contribuente può far valere i propri errori, in termini più espliciti di quelli utilizzati dalla decisione del 2002, con la quale si pone comunque in linea di continuità, e di proporre una sorta di sistematizzazione degli stessi, distinguendone il campo di applicazione a secondo della riconducibilità delle concrete fattispecie alla disciplina dettata in materia di accertamento, di riscossione delle imposte o di contenzioso tributario, segnalando anche le differenze quanto a presupposti, condizioni, modalità di esercizio ed effetti, sia pure nei limiti consentiti dalla loro rilevanza nella controversia de quo.
Giova ricordare che la decisione in esame ha riguardato l’impugnazione di una cartella di pagamento emessa, a seguito di controllo automatizzato della dichiarazione fiscale ex art. 36 bis d.P.R. n. 600/1973, per omesso versamento di ritenute alla fonte e di IVA. Nello specifico la dichiarazione originaria era stata emendata dal contribuente con dichiarazione integrativa, risultata tuttavia tardiva ex art. 2, co. 8-bis. La Corte ha ritenuto non valida la dichiarazione integrativa, ma valutabili dal giudice di merito le prove dedotte dal contribuente in sede impugnatoria per contestare la fondatezza della pretesa tributaria. Nell’effettuare la ricognizione degli strumenti mediante i quali il contribuente può far rilevare gli errori od omissioni ridondanti a suo danno nell’attività dichiarativa intesa come dichiarazione di scienza – quindi, non come espressione di volontà negoziale – la Corte ha fatto emergere la pluralità dei percorsi, sostanzialmente autonomi, ma non alternativamente praticabili a scelta del contribuente: ciò nella misura in cui ciascuna via resta ancorata al contesto normativo in cui si colloca, a secondo dei casi, in materia di accertamento, di riscossione delle imposte o di contenzioso tributario ed alla ricorrenza dei presupposti di legge.
I tre strumenti, in sintesi, si sostanziano: nella possibilità di emendare la dichiarazione fiscale mediante la presentazione di una dichiarazione integrativa con eventuale valenza ai fini compensativi; nella possibilità di presentare istanza di rimborso del tributo versato indebitamente e di far valere le proprie ragioni di merito anche nella successiva fase contenziosa; nella possibilità di contrastare nella fase difensiva processuale la maggiore pretesa tributaria azionata dal fisco con diretta iscrizione a ruolo, trasfusa in cartella di pagamento a seguito di controllo automatizzato.
Sui confini della emendabilità della dichiarazione fiscale a favore, la Corte ha ravvisato la piena autonomia dei co. 8 e 8-bis, dell’art. 2 d.P.R. n. 322/1998. Ha così ricondotto l’emenda alla sola previsione del co. 8-bis, con l’effetto di ritenerla consentita nel ristretto arco temporale dell’anno successivo a quello della dichiarazione errata ed ha sottolineato che questa dichiarazione integrativa è connotata da una specificità funzionale dovuta al fatto che l’eventuale credito può essere utilizzato in compensazione ai sensi dell’art.11 d.lgs. 9.7.1997, n. 241 (Norme di semplificazione degli adempimenti dei contribuenti in sede di dichiarazione dei redditi e dell’imposta sul valore aggiunto, nonché di modernizzazione del sistema di gestione delle dichiarazioni), nel contempo circoscrivendo all’interno di questo procedimento l’incidenza del termine di decadenza ivi stabilito. Ha inoltre opportunamente precisato che l’emendabilità della dichiarazione fiscale incontra il limite delle dichiarazioni destinate a rimanere irretrattabili per il sopravvenire di decadenze, come nell’ipotesi prevista nel d.m. 22.7.1998, n. 275, che, all’art. 6, stabilisce che il credito di imposta è indicato, a pena di decadenza, nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo di imposta nel corso del quale il beneficio è concesso. Tale considerazione offre anche un argomento a sostegno della non emendabilità delle dichiarazioni fiscali a contenuto negoziale, atteso che, in detta fattispecie, la indicazione del credito di imposta nella dichiarazione costituisce modalità di fruizione del beneficio, come si evince dal contesto normativo in cui è inserito, volto a disciplinare una procedura che la parte privata può attivare manifestando la volontà di accedere al beneficio fiscale alle condizioni previste e non appare essere una mera dichiarazione di scienza.
Tornando ai diversi strumenti per far valere eventuali errori, è stata ricordata la procedura di rimborso. Nell’esaminare la regolamentazione del diritto al rimborso di cui all’art. 38 d.P.R. n. 602/1973, la Corte ha rimarcato che rientra nella disciplina della riscossione, sottolineando che il contribuente, con la presentazione della relativa istanza, dà impulso ad uno specifico procedimento amministrativo di rimborso, soggetto a termine di decadenza che decorre dalla data in cui il versamento è stato eseguito o la ritenuta operata. Tale procedimento è del tutto distinto sia dalla emenda eseguibile mediante dichiarazione integrativa, sia dalla attività di controllo automatizzato dell’amministrazione – formale ed in rettifica – originata dalla mera presentazione della dichiarazione fiscale, nella contestuale vigenza delle differenti procedure, ribadendo che il contribuente anche nella eventuale fase giurisdizionale può far valere l’errore materiale, nonché la duplicazione ovvero l’inesistenza totale o parziale dell’obbligo di versamento.
Da ultimo, la Corte ha esaminato la tutela riconosciuta in via giurisdizionale al contribuente in sede di impugnazione ed ha affermato il diritto di quest’ultimo ad adire la autorità giudiziaria per contestare la legittimità della pretesa impositiva dell’amministrazione, anche quando fondata sui dati da lui forniti, dando prova degli errori o delle omissioni commesse. Seguendo lo sviluppo argomentativo della Corte si può ritenere che il giudice di legittimità, laddove sostiene l’inapplicabilità al processo tributario delle decadenze previste per la fase amministrativa, intenda riferirsi alla esclusione di una applicazione analogica di termini decadenziali mutuati da altri procedimenti, ma non prospetti una riviviscenza di situazioni oramai pregiudicate per le intervenute precipue decadenze. Quindi, in buona sostanza, in occasione della contestazione in via giurisdizionale della pretesa tributaria non si potrà far luogo ad una dichiarazione integrativa e non potranno conseguirsi gli effetti ai fini compensativi ultra termine, né ugualmente potrà essere attivata una domanda di rimborso ultra termine, o in via riconvenzionale, che non è consentita nel processo tributario, poiché resta ferma sul punto la giurisprudenza, a partire da Cass., 12.7.2006, n. 15840, secondo la quale lo specifico regime vigente nell’ordinamento tributario per la ripetizione del pagamento indebito impedisce, in linea di principio, l’applicazione della disciplina prevista per l’indebito di diritto comune.
Invero la Corte, proprio sottolineando che oggetto del contenzioso giurisdizionale è l’accertamento circa la legittimità della pretesa impositiva, quand’anche fondata sulla base di dati forniti dal contribuente, ha tenuto a precisare che «É agevole rilevare che, in tal caso, non si verte in tema di “dichiarazione integrativa” ex art. 2 cit., o di richiesta di rimborso ex art. 38 cit., onde non può escludersi, sulla base dei suesposti principi, il diritto del contribuente a contestare il provvedimento impositivo, fornendo prova delle circostanze, quali anche errori o omissioni presenti nella dichiarazione fiscale».
Nell’applicare tali principi spetta all’interprete confrontarsi con le specifiche fattispecie, di modo da valutarne i concreti spazi operativi. In proposito sovvengono le rilevanti e significative sentenze a S.U. n. 17757/2016 e n. 17758/2016, pronunciate nella vigenza di una disciplina che non distingueva tra dichiarazione dei redditi e dichiarazione IVA. Le stesse vertono, prevalentemente, sul tema della diretta emersione di errori ed omissioni dichiarativi in sede contenziosa. Le fattispecie concrete concernevano il disconoscimento dell’eccedenza detraibile, recuperata dall’amministrazione con cartelle di pagamento emesse a seguito di controllo automatizzato, sul rilievo che il contribuente aveva esposto un credito IVA, in parte già fruito in compensazione, riportato dalla precedente annualità rispetto alla quale la dichiarazione annuale era mancante e la possibilità, per il contribuente, di dedurre a suo favore in sede contenziosa gli errori o le omissioni commessi.
Le S.U. (Cass., n. 17758/2016), sulla scorta di una attenta ricostruzione normativa, giurisprudenziale, nazionale ed unionale, nonché delle prassi, innanzi tutto hanno ritenuto possibile il controllo automatizzato ex art. 54 bis d.P.R. n. 600/1973 in luogo della procedura ordinaria di accertamento mediante avviso, anche per il caso della omessa presentazione della dichiarazione annuale IVA, sulla considerazione che, stante la natura sostanzialmente riepilogativa di detta dichiarazione, nella sua mancata presentazione può ben ravvisarsi un dato omissivo riscontrabile come notizia dello stesso e come mero dato storico, dal quale derivano conseguenze giuridiche. Hanno ritenuto, inoltre, che tale controllo sia esercitabile con procedura automatizzata anche sul dato omissivo. Ciò perché l’amministrazione provvede «sulla base dei dati e degli elementi direttamente desumibili dalle dichiarazioni fiscali presentate e di quelli in possesso dell’anagrafe tributaria» con un controllo che, pertanto, risulta meramente formale, atteso che esso non tocca la posizione sostanziale della parte contribuente ed è scevro da profili valutativi e/o estimativi e da atti d’indagine diversi da quel mero raffronto tra la dichiarazione fiscale e l’anagrafe tributaria esplicitamente consentito dall’art. 54 bis, cit.
Quindi le S.U. hanno riconosciuto espressamente al contribuente, nel giudizio impugnatorio della cartella, la possibilità di documentare, sulla base del principio dell’onere e della prossimità della prova, l’avvenuta presentazione della dichiarazione annuale, ritenuta omessa dal fisco sulla scorta dell’anagrafe tributaria, così esercitando il proprio diritto di difesa.
Le S.U (Cass., n. 17757/2016) hanno, altresì, affermato che il diritto di detrazione non può essere negato, nel giudizio d’impugnazione della cartella emessa a seguito di controllo formale automatizzato, anche nel caso in cui il contribuente effettivamente non abbia presentato la dichiarazione annuale per il periodo di maturazione, ma abbia tuttavia dimostrato in concreto – ovvero ciò non risulti controverso – che:
a) si tratti di eccedenza detraibile conseguente ad acquisti fatti da un soggetto passivo d’imposta, assoggettati a IVA e finalizzati ad operazioni imponibili;
b) la detrazione è stata eseguita entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto è sorto. Nel caso vagliato da Cass., S.U., n. 17757/2016, quindi, si è dato ingresso ad una tutela giudiziaria sulle ragioni di merito anche per il caso di omissione in toto della dichiarazione stessa, e non solo di errori o omissioni contenuti nella dichiarazione. A tal fine è stato rimarcato il carattere riepilogativo e non costitutivo dell’obbligazione tributaria ad opera della dichiarazione IVA, qualificando la violazione come formale, sulla considerazione che il diritto alla detrazione dell’IVA sorge nel momento in cui l’imposta a monte diviene esigibile e va esercitato entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto è sorto.
Su queste premesse le S.U. si sono soffermate efficacemente sul profilo probatorio della ricorrenza dell’errore o dell’omissione ed hanno chiarito che, ove la violazione sia formale – intesa come inadempimento di un obbligo distinto dalle condizioni essenziali previste dalle direttive IVA per l’esercizio della detrazione – l’infrazione è da ritenersi risolvibile sul piano impositivo laddove si disponga ugualmente delle informazioni necessarie per dimostrare che il soggetto passivo, in quanto acquirente, ha il diritto di recuperare l’imposta pagata a titolo di rivalsa, sempreché non risulti in concreto impedita la prova dell’adempimento dei requisiti sostanziali.
Giova in proposito ricordare che, in tema di onere della prova in materia tributaria la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che se il contribuente si attiene agli obblighi formali-contabili prescritti dalla normativa interna grava sull’amministrazione fiscale, che intenda disconoscere il diritto a detrazione, negando la corrispondenza della realtà effettuale a quella rappresentata nelle scritture contabili, l’onere della relativa contestazione e della consequenziale prova. Diversamente, se il contribuente non si attiene alle prescrizioni formali e contabili disciplinate dall’ordinamento interno, è onere dello stesso, a fronte della contestazione di omissioni o irregolarità, fornire adeguata prova dell’esistenza delle condizioni sostanziali cui la normativa comunitaria ricollega l’insorgenza del diritto alla detrazione, mediante regolari dichiarazioni periodiche e versamenti, fatture ed altra documentazione contabile. Ovverosia il contribuente deve dimostrare che, in quanto destinatario di transazioni commerciali, è debitore dell’IVA ed è titolare del diritto di detrarre l’imposta. Si tratta di circostanze che restano riservate all’accertamento in fatto da parte del giudice di merito.
Di recente, i co. 8 e 8-bis dell’art. 2 cit., sono state riscritti ad opera del d.l. n.193/2016, che ha anche introdotto ex novo i co. 6-bis, 6-ter, 6-quater e 6-quinquies nell’art. 8 del medesimo d.P.R., dedicati alla dichiarazione IVA.
Innanzi tutto sono stati uniformati i termini per la dichiarazione integrativa a sfavore e a favore del contribuente, come si evince dal riferimento operato al minore imponibile o debito di imposta ovvero al maggior credito, quali possibili esiti della dichiarazione integrativa, ed equiparati ai termini stabiliti per l’accertamento delle imposte, con la possibilità di avvalersi dell’istituto del ravvedimento ex art. 13 d.lgs. 18.12.1997, n. 472, in caso di rettifica a sfavore della parte privata.
Al novellato co. 8-bis è assegnato il compito di dettare in maniera molto più articolata i termini e le condizioni per utilizzare in compensazione i crediti risultanti all’esito. Non vi sono limitazioni alla compensazione qualora la dichiarazione integrativa venga inoltrata entro il termine di presentazione della dichiarazione successiva, come accadeva con il regime previgente; non vi sono limitazioni temporali alla compensazione in caso di errori contabili (non omissioni) riconducibili alla competenza temporale, secondo quanto già in precedenza accordato dalla prassi amministrativa. Qualora la dichiarazione integrativa sia stata presentata oltre l’anno, invece, è previsto che l’eventuale credito così risultante possa essere impiegato in compensazione, ma solo per eseguire il versamento di debiti maturati a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione integrativa: ciò sembrerebbe escludere che possa essere utilizzato per soddisfare debiti risultanti da dichiarazioni precedenti.
Per l’IVA è stato previsto un regime autonomo (art. 8, co. 6-bis e ss., d.P.R. n. 322/1998), anche se con soluzioni tendenzialmente coincidenti con quelle previste per la dichiarazione dei redditi: in particolare è stato unificato il termine per l’emenda sia a favore del contribuente che dell’amministrazione finanziaria, conformandolo a quello previsto per il procedimento di accertamento.
Al co. 6-ter è disciplinato l’utilizzo dell’eventuale credito derivante dal minor debito o dalla maggiore eccedenza detraibile risultante dalle dichiarazioni integrative: se ne consente l’uso in detrazione in sede di liquidazione periodica o di dichiarazione annuale, oppure in compensazione ai sensi dell’art. 17 d.lgs. 9.7.1997, n. 241, ovvero mediante la richiesta a rimborso, sempreché ricorrano i requisiti di cui agli artt. 30 e 34, co. 9, d.P.R. 26.10.1972, n. 633. Nel caso in cui la dichiarazione integrativa sia presentata oltre il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, ai sensi del nuovo co. 6-quater, l’eventuale credito può essere chiesto a rimborso ove ricorrano, per l’anno per cui è presentata la dichiarazione integrativa, i requisiti prescritti, ovvero essere utilizzato in compensazione per eseguire il versamento di debiti maturati a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione integrativa. Di grande rilievo è l’intervento sul termine di accertamento: coerentemente con l’ampliamento della facoltà emendativa, l’Agenzia potrà verificarne il corretto esercizio avvalendosi di uno slittamento del termine ordinario, tale da assicurare la pienezza dei poteri accertativi rispetto alla dichiarazione rettificata. In particolare, è stabilito che il termine di decadenza dell’azione di accertamento deve essere calcolato a partire dall’anno di presentazione della dichiarazione integrativa. La dichiarazione integrativa sia a sfavore che a favore, anche ai fini IVA, determina pertanto uno slittamento del dies a quo per conteggiare i termini decadenziali, sia per l’accertamento, sia per la liquidazione ed il controllo formale.
La posticipazione del termine è, comunque, limitata agli elementi che sono oggetto dell’integrazione della dichiarazione. Va dato atto che il legislatore ha espressamente riconosciuto l’esistenza di uno spazio per la tutela giurisdizionale nei seguenti termini: «Resta ferma in ogni caso per il contribuente la possibilità di far valere, anche in sede di accertamento o di giudizio, eventuali errori, di fatto o di diritto, che abbiano inciso sull’obbligazione tributaria, determinando l’indicazione di un maggiore imponibile, di un maggior debito d’imposta o, comunque, di un minor credito» (art. 2, co. 8-bis, ultimo periodo, cit.).
Dalla formula utilizzata si può evincere che la previsione normativa si pone in linea con gli arresti ermeneutici della Corte di cui si è dato conto: tale conclusione è corroborata dall’utilizzo della locuzione «Resta ferma», che presuppone una pregressa applicazione del principio, e dal diretto riferimento alla incidenza degli errori sul contenuto della obbligazione tributaria, che sostanzia il riconoscimento di una tutela giurisdizionale su questioni di merito. Va tuttavia rimarcato, sul piano letterale, che la disposizione concerne gli errori di fatto e di diritto e non richiama le omissioni.
Il nuovo ed articolato impianto normativo richiederà uno spazio di attuazione per valutarne i limiti e la efficacia operativa, sulla scorta di una adeguata elaborazione casistica. Si può tuttavia osservare che, nonostante sia stata rivoluzionata la scansione temporale della dichiarazione integrativa a favore, il sistema si pone in linea di continuità rispetto ai principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità nel corso degli anni. Tuttavia non può non rilevarsi che le decisioni a S.U. del 2016 hanno fissato una serie di principi, in particolare in merito alla autonomia dei percorsi emendativi ed ai presupposti e alle condizioni della tutela giurisdizionale e all’onere probatorio, che costituiscono un punto di riferimento ed un canone interpretativo valido anche del nuovo assetto normativo.
Già i primi commenti non hanno mancato di segnalare alcune criticità della novella.
Si è posto in evidenza che la nuova disciplina, pur ritenuta applicabile anche all’ipotesi che dalla emenda discendano perdite, non ha affrontato in modo approfondito il caso del riporto delle perdite e del loro impiego1: sul punto qualche chiarimento viene dalla circ., 28.4.2017, n. 15 (Scomputo delle perdite nell’ambito dell’attività di accertamento Riduzione in dichiarazione delle perdite utilizzate) dell’Agenzia delle entrate ove, al § 3.4, non è posto in dubbio che anche le perdite possano risultare dalla dichiarazione integrativa.
Ancora, è stato sostenuto che la nuova dichiarazione integrativa comporterebbe l’effetto di assorbire l’istanza di rimborso di cui all’art. 38 d.P.R. n. 602/1973, avendo un contenuto più ampio ed un termine più esteso2, ma questa conclusione pone seri dubbi se si considera che il rimborso afferisce ad imposta già versata, sia pure in modo asseritamente indebito, e che la dichiarazione integrativa al più può conseguire effetti a fini compensativi, ma non restitutori.
Quanto alla disciplina dettata in tema di IVA, rimarcando che detta imposta non è significativa di una vera e propria capacità contributiva, ma rappresenta l’ammontare di una obbligazione determinata in senso algebrico, è stata sollevata la questione sui limiti del potere emendativo da riconoscere al contribuente, in ragione di una, ritenuta necessaria, preventiva verifica sull’effettività dell’incisione a carico del soggetto che integra la dichiarazione a proprio favore e sulla circostanza se il suo ammontare, ancorché erroneo, sia stato o possa essere traslato, paventando il rischio di pervenire, altrimenti, ad un indebito arricchimento del contribuente a danno dell’erario3.
Nel campo dell’IVA va anche valutata la ricaduta, in termini di emendabilità della dichiarazione, dei severi obblighi di comunicazione trimestrale dei dati delle fatture emesse, di quelle ricevute e registrate, e delle relative note di variazione, nonché della comunicazione dei dati di sintesi delle liquidazioni periodiche IVA, introdotti agli artt. 21 e 21 bis d.l. 31.5.2010, n. 78, conv. dall’art.1 l. 30.7.2010, n. 122, come modificati dall’art. 4 d.l. n. 193/2016, ai quali è applicabile il ravvedimento operoso e sui quali si registra la risoluzione 28.7.2017, n.104, dell’Agenzia delle entrate. Anche in merito alla espressa conferma dello spazio di tutela giurisdizionale, parte della dottrina ha espresso alcuni dubbi, osservando che la soluzione, pure in linea con la giurisprudenza di legittimità ed intesa ad evitare una tassazione che non sia conforme alla realtà, comporta la possibilità per il contribuente di ampliare il thema decidendum a vicende estranee al contenuto dell’atto impugnato mediante la denuncia dei propri errori dichiarativi operata in sede contenziosa, essenzialmente a titolo di eccezione alla pretesa impositiva, idonea a condizionare l’entità globale del debito tributario. Si è sostenuto, in proposito, che ciò potrebbe produrre uno stravolgimento nella dinamica e nella natura del processo tributario che, congegnato come impugnatorio, diventerebbe di accertamento, in ragione di una peculiare eccezione del contribuente4. Si è anche osservato che la modifica operata dall’art. 5 d.l. n. 193/2016 potrebbe indurre la giurisprudenza a riflettere sugli orientamenti pregressi in tema di rettifica in sede processuale5, paventando un superamento deitermini di decadenza previsti dalla legge. É stato denunciato, inoltre, il rischio da un lato, di ingenerare un accertamento solo in sede processuale, pregiudicando l’esercizio dei poteri di controllo dell’amministrazione e, dall’altro, di travolgere le garanzie normalmente previste a favore del contribuente6.
L’evoluzione normativa e giurisprudenziale ripercorsa sembra circoscrivere l’operatività della integrativa agli errori di fatto o di diritto ed alle omissioni confluite nella dichiarazione fiscale, intesa come manifestazione di scienza, nozione sulla quale le S.U. del 2002 hanno costruito il principio di emendabilità. Con giurisprudenza, più volte ribadita, e dalla quale non sembrano staccarsi le più recenti S.U. del 2016 (es. n. 13378/2016, §23), è stata costantemente esclusa la emendabilità delle manifestazioni di volontà contenute nelle dichiarazioni negoziali alle quali il legislatore subordina la concessione di benefici fiscali, sulla considerazione che queste hanno il valore di atto negoziale e sono come tali irretrattabili anche in caso di errore, salvo che il contribuente non dimostri, secondo la disciplina generale dei vizi della volontà di cui agli artt. 1427 e ss. c.c., l’essenzialità dell’errore e la sua obiettiva riconoscibilità da parte dell’amministrazione finanziaria.
Tale conclusione si radica sulla considerazione che il contribuente può decidere di usufruire del beneficio fiscale, così modificando l’ordinario rapporto con il fisco, con una libera manifestazione di volontà negoziale7. Si è applicato il principio, propriamente civilistico, secondo il quale l’errore sulla valutazione economica di quanto costituisce oggetto del contratto non rientra nella nozione di errore di fatto idoneo a giustificare una pronuncia di annullamento della manifestazione di volontà, giacché non incide sull’identità o qualità dell’oggetto del negozio, ma attiene alla sfera dei motivi in base ai quali la parte si è determinata a concluderlo ed al rischio che il contraente si è assunto, nell’ambito dell’autonomia contrattuale, per effetto delle proprie personali valutazioni sull’utilità economica dell’affare8.
In questa linea, si è validato il diniego di rimborso dell’imposta pagata in esecuzione dell’opzione volontaria di versamento dell’imposta sostitutiva, in forza del carattere irrevocabile dell’opzione. Va tuttavia rilevato che si individuano alcune recenti decisioni di legittimità in cui, in ordine a fattispecie molto peculiari, viene valorizzata una più ampia valutabilità in sede giurisdizionale di merito delle ragioni di fatto confluenti in una pretesa erroneità della dichiarazione negoziale9.
1 Mastroberti, A., Integrativa di favore con perdite rigenerate, in Il fisco, 2016, 4224; anche Ferranti, G, Dichiarazioni integrative a favore; più equilibrato il rapporto tra Fisco e contribuenti, in Corr. trib., 2017, 335, segnala una insufficiente disciplina attuativa.
2 Fransoni, G.-Padovani, F., Nuovi termini per la rettifica della dichiarazione: il legislatore semplifica e corregge la Cassazione, in Corr. trib., 2016, 3365.
3 Centore, P. Emendabilità della dichiarazione IVA a dosaggio limitato, in Corr. trib., 2017, 97.
4 Carinci, A., La nuova dichiarazione integrativa di favore, in Il fisco, 2017, 313.
5 Fransoni, G.-Padovani, F., op. cit.
6 Sul punto il riferimento è a Cass., S.U., 15.3.2016, n. 5069, che ha affermato «In tema di rimborso d’imposte, l’Amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal contribuente nella dichiarazione dei redditi anche qualora siano scaduti i termini per l’esercizio del suo potere di accertamento, senza che abbia adottato alcun provvedimento, atteso che tali termini decadenziali operano limitatamente al riscontro dei suoi crediti e non dei suoi debiti, in applicazione del principio quae temporalia ad agendum, perpetua ad excepiendum».
7 Su questi temi, tra le tante: Cass., 30.9.2015, n. 19410; Cass., 8.10.2015, n. 20208; Cass., 20.1.2016, n.939; Cass., 5.5.2016, n. 9115; Cass., 20.12.2016, n. 26317; Cass., 31.1.2017, n. 2395; Cass., 9.8.2017, n. 19849. Cfr., in dottrina, Gaffuri, A.M., La rettificabilità degli errori commessi dal contribuente nell’esercizio delle opzioni fiscali, in Giur. it., 1998, 7; Tesauro, F., Istituzione di diritto tributario, Torino, 2009, I, 177. Vedasi anche l’art. 1, co. 1, d.P.R. 10.11.1997, n. 442 («L’opzione e la revoca di regimi di determinazione dell’imposta o di regimi contabili si desumono da comportamenti concludenti del contribuente o dalle modalità di tenuta delle scritture contabili»).
8 Cfr. Cass., 3.9.2013, n. 20148.
9 Cfr. da ultimo Cass., 14.9.2016, n. 18060; Cass., 23.9.2016, n. 18670; Cass., 26.10.2016, n. 21583; Cass., 26.10.2016, n. 21584; Cass., 6.12.2016, n. 24876; Cass., 21.12.2016, n. 26550; Cass., 31.1.2017, n. 2375.