EMBRIOLOGIA (XIII, p. 865; App. II, 1, p. 847)
Gli studi embriologici degli ultimi anni sono stati notevolmente influenzati dal sorgere della biologia molecolare, cioè di quella scienza che ha dimostrato come tutti i caratteri di un organismo vengano trasmessi ereditariamente per mezzo di una molecola, l'acido desossiribonucleico (DNA). Si è scoperto infatti che questa molecola fatta da un ripetersi continuo e per migliaia di volte di quattro molecole più piccole, diverse tra loro e variamente alternate, i nucleotidi, porta in un codice derivante dalla varia alternanza dei quattro nucleotidi tutte le informazioni atte a costruire una cellula. Sulla base delle tecniche e dei risultati conseguiti dalla biologia molecolare si è sviluppata un' "e. molecolare" che fa seguito all'"e. chimica" sviluppatasi nella prima metà del secolo (v. nucleici, acidi; biologia molecolare, in questa Appendice).
Il contributo più importante apportato da questa disciplina è diretto alla soluzione del problema del "differenziamento cellulare".
Il problema del differenziamento. - Tutti gli embrioni derivano da un'unica cellula, la cellula uovo, che viene fecondata da un'altra cellula, lo spermio. I nuclei di queste due cellule si fondono, ciascuno portando la sua quota di DNA. La cellula uovo fecondata comincia a dividersi in due, quattro, otto e così via. A ogni divisione cellulare il DNA si raddoppia sicché ogni cellula figlia avrà la stessa quota di DNA.
Le molecole di DNA delle cellule figlie che si vanno originando sono identiche tra loro. Dunque tutte le cellule di un embrione hanno lo stesso patrimonio genetico, la stessa informazione. Avviene però che a un certo momento le cellule cominciano a diventare differenti tra loro: alcune diventano per es. cellule del sangue, altre cellule muscolari, altre cellule ossee e così via. Che cosa le fa diverse? La diversità consiste principalmente nel fatto che esse sono costituite da proteine diverse.
Le proteine sono lunghe molecole fatte da 21 molecole più piccole, gli aminoacidi, questi ultimi diversi tra loro e ripetuti un gran numero di volte in varia alternanza. È questo diverso susseguirsi di aminoacidi che rende differenti le proteine e quindi le cellule tra loro. Le cellule del sangue contengono per es. la proteina emoglobina, diversa dalla miosina che è contenuta nelle cellule muscolari. Ogni cellula può contenere qualche decina di migliaia di proteine di tipo diverso. Chi detta la sequenza degli aminoacidi nelle proteine è il DNA con la sua sequenza nucleotidica. Ogni gruppo di tre nucleotidi consecutivi nel DNA rappresenta il segnale in codice per il montaggio di un determinato aminoacido nella molecola proteica. Questo messaggio in codice viene inviato, dal nucleo cellulare dove risiede il DNA, al citoplasma della cellula dove risiedono i macchinari per la sintesi proteica (ribosomi e altri fattori) per il tramite di una lunga molecola di acido ribonucleico, fatta di una sequenza nucleotidica analoga a quella del DNA: l'RNA "messaggero". Poiché come si è detto, però, tutte le cellule di un embrione possiedono lo stesso DNA, sorge il problema di come facciano a sintetizzare proteine diverse quando si differenziano.
È questa la moderna visione del differenziamento in termini molecolari. Le risposte teoriche che si possono dare a questo problema sono le seguenti:
1) il DNA stesso diventa diverso nelle diverse cellule.
Questa ipotesi appare improbabile perché il DNA delle varie cellule di un organismo appare uguale nei limiti della sensibilità dei metodi usati; inoltre gli esperimenti di trapianto nucleare in uova di Anfibi (M. Fishberg, 1958; R. Briggs e T. King, 1952-64; J. B. Gurdon, 1958-68) hanno dimostrato che nuclei di embrioni in vario stadio di sviluppo sono spesso capaci di far sviluppare normalmente uova anucleate nelle quali essi siano stati trapiantati, provando così che cellule almeno parzialmente differenziate contengono ancora tutte le potenzialità genetiche per far sviluppare un intero organismo e dunque contengono tutto il DNA non modificato, almeno irreversibilmente. A questa regola si ha qualche eccezione. La più notevole è quella degli ovociti di Anfibi nei quali è stato dimostrato che il DNA necessario alla formazione dell'RNA ribosomale viene "amplificato" in queste cellule, le quali devono sintetizzare tale RNA a elevatissima velocità. (M. L. Birnstiel, 1968; D. D. Brown, 1968; I. B. Dawid, 1968; O. L. Miller, 1970; P. Wellauer, 1974).
D'altro canto si è visto che cellule che nel differenziamento si specializzano per la sintesi di una particolare proteina, per es. la globina dell'emoglobina, hanno una o pochissime copie del DNA corrispondente (S. Paclan e altri 1972; P. R. Harrison e altri 1972). E. Scarano (1956-73) ha però suggerito che piccole modifiche del DNA come la metilazione di alcuni nucleotidi in punti chiave della molecola, potrebbero produrre in essa i cambiamenti responsabili del suo diverso funzionamento nelle diverse cellule. Bisogna inoltre riconoscere che una volta che una cellula ha intrapreso una via differenziativa, per es. si avvia a diventare una cellula muscolare, è capace di trasmettere questa potenzialità alle cellule figlie che essa va generando, sicché si può dire che il suo DNA viene mantenuto in uno stato di perenne modifica.
2) La seconda possibilità è che, con meccanismo ancora non noto, alcuni tratti del DNA generino RNA messaggero in alcune cellule di un organismo e tratti diversi del DNA generino RNA messaggero in altre cellule dello stesso organismo.
Che questo meccanismo possa essere operante è stato dimostrato dalla formazione dell'emoglobina in cellule che si differenziano in cellule del sangue (R. Williamson, 1975) e in cellule di ovidutto di pollo stimolate da ormoni a produrre proteine specifiche (B. W. O'Malley, 1975; A. E. Sippel, 1975). L'ipotesi più importante sul meccanismo che possa rendere operanti alcuni tratti del DNA in alcune cellule e altri in altre è quella di J. Paul (1968-75). Questo autore ha dimostrato che la cromatina (cioè il complesso DNA-proteine che si trova nel nucleo), quando è isolata continua a produrre RNA specifici per il tipo di cellule da cui la cromatina proviene. Ora è possibile dividere con tecniche fisico-chimiche la cromatina nei suoi componenti: DNA, alcune proteine basiche dette istoni, e alcune proteine a carattere acido. Il DNA isolato è capace, in presenza di enzimi che producono RNA, d'indicare la sequenza e dunque causare la sintesi di tutti gli RNA che qualsiasi cellula dell'organismo è capace di produrre. Se al DNA isolato si aggiungono gl'istoni, esso diventa silente, cioè incapace d'indicare la sequenza di alcun tipo di RNA. Se però si aggiungono anche le proteine acidiche cromatiniche di un certo tipo cellulare, per es. di una cellula del sangue, esso diventa capace di causare la sintesi di proteine di tipo sanguigno. Se invece vi si aggiungono proteine di una cellula di altro tipo, esso diventa capace di causare la sintesi di proteine di quest'altro tipo. Secondo questa ipotesi, che ha prove sperimentali buone ma non ancora definitive, sarebbero le proteine acidiche cromatiniche che, liberando alcuni settori di DNA dagl'istoni, ne consentirebbero la trascrizione in RNA specifico per il tipo cellulare.
3) La terza possibilità è che il DNA sia ugualmente attivo nella produzione dell'RNA messaggero in tutte le cellule di uno stesso organismo, ma che, con un meccanismo di controllo ancora ignoto, solo alcuni di questi messaggi vengano mandati al citoplasma in alcune cellule e altri in altre cellule.
Questo è suggerito dall'osservazione che una gran parte dell'RNA sintetizzato nel nucleo viene distrutto nel nucleo stesso, senza che raggiunga mai il citoplasma (H. Harris, 1963; K. Scherrer, 1966; B. J. McCarthy, 1967; G. P. Georgiev, 1969).
4) L'ultima possibilità è che esistano dei meccanismi nello stesso citoplasma che consentono a certe cellule di uno stesso organismo di usare certi messaggi e ad altre di usarne altri.
Che tali meccanismi debbano essere operanti è suggerito dagli esperimenti condotti su embrioni di riccio di mare (P. R. Gross, 1962; G. Cousineau, 1962; G. Giudice, 1968, 1973; S. A. Terman, 1970) che mostrano come questi embrioni siano capaci di usare messaggi diversi in momenti diversi dello sviluppo. Joseph e Judith Ilan (1970-74) hanno proposto che in larve d'insetti quest'ultimo meccanismo possa basarsi sulla comparsa di diversi fattori d'inizio della sintesi proteica o di diversi "RNA di trasferimento".
Un approccio generale allo studio del meccanismo di controllo dell'espressione del DNA durante il differenziamento è fornito dalla tecnica d'ibridazione delle cellule somatiche (G. Barski, S. Sorieul e F. Cornefert, 1960; B. Ephrussi, 1961; J. W. Littlefield, 1964; H. Harris e J. F. Watkins, 1965). Con questa tecnica è possibile introdurre il nucleo di una cellula nel citoplasma di un'altra. Tra i risultati di maggior rilievo, quelli che mostrano come il nucleo inattivo di una cellula differenziata "terminalmente", come quello dell'eritrocita maturo di pollo, possa essere stimolato a riprendere la sintesi dell'RNA del citoplasma di una cellula di topo in fase di sintesi attiva dell'RNA. N. R. Ringerz (1973) con simili tecniche ha dimostrato che proteine nucleari della cellula attiva migrano al nucleo della cellula inattiva.
Il problema della morfogenesi. - Se l'e. molecolare è riuscita a porre in termini razionali il problema del differenziamento, minore contributo è riuscita a dare al complesso problema della morfogenesi, del quale tratteremo appresso.
Affinché si formi un embrione non è solo necessario che le cellule si differenzino; esse devono anche interagire tra loro a formare la complessa architettura dei tessuti e degli organi in un mosaico costituito da milioni di cellule, ciascuna delle quali occupa un posto ben preciso nell'organismo. Se il problema del differenziamento è complesso, quello delle interazioni cellulari nella morfogenesi lo è dunque ancora di più.
Lo studio di queste interazioni ha compiuto importanti progressi in questi ultimi anni, grazie anche all'impiego di nuove tecniche. Tra queste quella della microscopia a scansione, che consente di avere una visione tridimensionale delle cellule nel contesto di un embrione con un dettaglio fino a 100 Å di risoluzione (R. Waterman, 1972). Questa tecnica ha consentito l'osservazione in dettaglio del variare dei rapporti intercellulari e della morfologia della superficie cellulare nella gastrulazione degli Anfibi (A. Monroy, B. Baccetti, 1975). Essa è stata usata per studiare il ruolo che certe strutture come lamine, docce, creste, hanno nel guidare la migrazione di alcune cellule durante l'organogenesi (teoria della contact guidance di P. Weiss, 1961). Questo ruolo è stato parzialmente confermato da studi di E. Hay e J. P. Revel (1974) sulla migrazione del mesenchima tra ipoblasto ed epiblasto e sul movimento delle future cellule endoteliali sulla faccia posteriore dell'epitelio corneale, nell'embrione di pollo.
Un ruolo estremamente importante nello studio delle interazioni cellulari hanno gli studi di disaggregazione e riaggregazione cellulare condotti su embrioni di diverse specie (A. A. Moscona, 1952-75; G. Giudice, 1962-73; B. Mintz, 1962-75; M. Steinberg, T. Humphreys, 1963-75). In questi studi si cerca di stabilire quale sia il meccanismo che consente durante l'embriogenesi alle cellule di riconoscersi l'un l'altra, aderendo reciprocamente nella maniera corretta in modo da portare alla perfetta costituzione degli organi e dell'intero organismo. La teoria più importante è quella di A. A. Moscona che ha dimostrato la produzione da parte delle cellule embrionali di una sostanza composta da aminoacidi e carboidrati che viene espulsa a ricoprire la superficie esterna cellulare e che consente alle cellule di uno stesso tessuto di aderire tra loro. La specificità di tessuto di questa sostanza è tale che sostanze diverse vengono prodotte da cellule di diverse sezioni del sistema nervoso; sicché si può pensare che l'interazione specifica tra cellule di uno stesso distretto dell'encefalo sia mediata dalla produzione di sostanze adesive intercellulari dello stesso tipo.
Un impulso allo studio delle interazioni cellulari è stato dato dalla migliore conoscenza che si va acquisendo della composizione chimica delle membrane cellulari, che ha portato per es. alla teoria del "mosaico fluido i di S. J. Singer e G. L. Nicolson (1972), e dalla disponibilità di certe macromolecole vegetali, le cosidette lectine, che sono capaci di reagire con particolari carboidrati delle glicoproteine delle membrane cellulari. L'uso di diverse lectine, quali per es. la concanavalina A, che reagisce con piranosidi del tipo α-glucosio, o l'agglutimina di germi di grano, che reagisce con l'N-acetilglucosamina, hanno consentito di riconoscere alcuni cambiamenti della superficie cellulare che avvengono nello sviluppo di diversi embrioni, da quello umano (M. M. Weiser, 1972) a quello di pollo (S. J. Kleinschuster e A. A. Moscona, 1972).
Lo studio del meccanismo di sintesi delle glicoproteine della superficie cellulare ha rivelato che la parte glicidica di queste può essere rappresentata in una grandissima varietà di forme, la quale può ben confortare l'ipotesi di un ruolo estremamente specifico delle glicoproteine nel riconoscimento intercellulare. Nella sintesi delle glicoproteine, le molecole glicidiche vengono legate l'una dopo l'altra, in una catena lineare o ramificata, alla parte proteica della molecola. L'aggiunta di ciascuna molecola glicidica è catalizzata da un enzima specifico, che riconosce gli ultimi due glicidi della catena da allungare. Questi enzimi sono detti glicosiltrasferasi (S. Roseman, 1968; H. I. Schachter e L. Roden, 1973; D. M. Carlson, 1973). S. Roseman (1970) ha proposto che il riconoscimento specifico intercellulare avvenga o attraverso ponti idrogeno che si stabiliscono tra i glicidi della superficie di una cellula e quelli di un'altra o attraverso il legarsi di una gliosiltrasferasi della superficie di una cellula al glicide corrispondente della superficie di un'altra cellula. Che segnali provenienti dalla membrana cellulare possano influenzare la sintesi del DNA e quindi la moltiplicazione delle cellule, elemento indispensabile per una corretta morfogenesi, è suggerito da esperimenti condotti su cellule isolate di blastule di riccio di mare, le quali riprendono la sintesi del DNA se la loro superficie viene alterata mediante trattamento con tripsina (M. L. Vittorelli e G. Giudice, 1973). Simile suggerimento viene da esperimenti condotti su cellule di retina di embrioni di pollo, nelle quali la sintesi del DNA viene stimolata dal trattamento con lectine (P. B. Kaplovitz e A. A. Moscona, 1974). L'importanza delle interazioni cellulari nell'induzione di cambiamenti metabolici delle singole cellule nello sviluppo embrionale è stata dimostrata da una serie di esperimenti di dissociazione e riaggregazione condotti soprattutto da G. Giudice (1962-73) su embrioni di riccio di mare e da A. A. Moscona su embrioni di pollo.
Un approccio sperimentale di grande importanza per la comprensione del meccanismo d'interazione delle cellule è quello dello studio di sezioni seriate al microscopio elettronico del sistema nervoso in via di sviluppo. L'analisi per mezzo di un calcolatore elettronico dei dati ottenuti consente una ricostruzione tridimensionale che permette di visualizzare l'estremamente complessa ramificazione neuritica e dendritica di una cellula nervosa via via che essa si forma (S. Brenner, 1971; P. Rakic, 1974; C. Levinthal, 1975) e migra verso la sua destinazione estremamente specifica. La conclusione provvisoria di queste ricerche, basata principalmente sullo studio di mutanti per il sistema nervoso, è che almeno in parte le cellule seguono ciascuna un cammino caratteristico, geneticamente prefissato e che esistono alcune cellule che tracciano la via alle altre durante questa migrazione.
Un interessante sistema sperimentale adottato per studiare il meccanismo che stabilisca i rapporti tra cellule nervose durante l'embriogenesi è quello delle connessioni retino-tettali. È stato infatti dimostrato che ciascuna cellula nervosa della retina si connette nei vertebrati con una porzione ben precisa del tetto ottico. Esperimenti di espianto dell'occhio di un embrione di anfibio, seguito da trapianto su di un fianco dell'embrione e reimpianto nell'orbita dopo un mese (R. K. Hunt e M. Jacobson, 1972) hanno dimostrato che le fibre retiniche crescono e formano connessioni normali col tetto ottico. Ciò indica che affinché questo avvenga non sono necessarie le condizioni specifiche per l'età dell'embione dei territori in cui le fibre della retina migrano. Tale ipotesi è confortata dal fatto che le fibre di un occhio trapiantato in una porzione dell'encefalo embrionale diverso dalla normale raggiungono regolarmente la porzione specifica del tetto ottico (E. Hibbard, 1967; S. S. Sharma, 1972). Altri esperimenti simili si basano sull'espianto e rotazione di un pezzo del tetto ottico (S. C. Sharma e R. M. Gaze, 1971) o sull'asportazione definitiva di una sua parte (D. G. Attardi e R. W. Sperry, 1960; R. M. Gaze, 1970). Di rilievo, per quanto riguarda la crescita delle cellule nervose, la scoperta da parte di R. Levi Montalcini di un fattore stimolante la crescita, oggi identificato come un insieme di proteine e glicoproteine (R. Levi Montalcini e P. Angeletti, 1968; E. Zaimis, 1972).
Un contributo agli studi sul meccanismo d'interazione tra le singole cellule è venuto dalle ricerche di elettrofisiologia. Sulla base di questi studi, accompagnati da indagini ultrastrutturali è stata avanzata l'ipotesi che le cosiddette "giunzioni intercellulari" a bassa resistenza giochino un ruolo importante nelle comunicazioni intercellulari. Mentre però è ampiamente dimostrato come tali strutture permettano il passaggio di segnali elettrici attraverso cellule eccitabili (M. V. L. Bennet, 1966, 1972; R. L. De Haan, 1972) non è stato ancora dimostrato il passaggio da una cellula all'altra di molecole regolatrici del differenziamento e della morfogenesi (W. R. Lowenstein, 1966,1973; E. J. Furshpan e D. D. Potter, 1968).
Un sistema embrionale che ha consentito notevoli studi sia sul problema del differenziamento sia sul problema della morfogenesi è quello delle larve di drosofila. Lo studio delle cellule di questi insetti ha dimostrato come esse nel corso dell'embriogenesi possano trasmettere alla loro progenie uno stato di "determinazione", cioè la potenzialità di originare una particolare struttura e solo quella. Questa conclusione deriva soprattutto dagli esperimenti condotti sui "dischi immaginali" (E. Hadono, 1966). Sono questi degli ammassi cellulari riconoscibili nella larva, che daranno origine, dopo la metamorfosi, al tegumento di strutture ben determinate dell'adulto: antenne, proboscide, ali, ecc. Se si trapianta un disco immaginale in un adulto, le cellule del disco si moltiplicheranno indefinitamente in successivi trapianti, senza differenziarsi. Se però a un certo punto le cellule del disco si trapiantano in una larva, esse si differenzieranno dando di nuovo origine, dopo la metamorfosi, alla struttura cui erano originariamente destinate: antenna, proboscide, ala, ecc.
Talora si è osservato il curioso fenomeno della "transdeterminazione" cioè, dopo molti trapianti in adulto, le cellule trapiantate in larva dànno origine alla struttura caratteristica di un altro disco (W. Gerhing, 1972). Ciò che prova, almeno in questi casi, la reversibilità della determinazione. Si è dimostrato inoltre che le cellule di un disco ritengono la memoria della loro determinazione anche se dissociate e mescolate con cellule di altra origine (R. Nöthiger, 1964; H. Tonler, 1966; G. A. Poodry e H. A. Scheniderman, 1971). Altri esperimenti sono stati condotti per rispondere ai seguenti quesiti: in quale momento della vita dell'embrione le cellule divengono "determinate" per la formazione di un disco immaginale? È una sola cellula che lo diventa e dà poi luogo a una progenie specificamente determinata, o sono più cellule che lo divengono indipendentemente? Una parziale risposta viene da esperimenti condotti sui cosiddetti "mosaici genetici" (R. Nöthiger, 1972). Questi sono ottenibili da mutanti in cui uno dei primi due nuclei formatisi nell'uovo perde un cromosoma X, rimanendo così XO, mentre l'altro nucleo è XX. Ora se un disco immaginale deriva da una sola cellula esso sarà composto nell'adulto o tutto da cellule XX o tutto da cellule XO, cosa facilmente riconoscibile. Se deriva da più cellule esso potrà essere costituito da un numero sempre maggiore di gruppi di cellule di costituzione tra loro diversa (cioè alcuni XX, e altri XO) quanto maggiore è il numero di cellule da cui il disco è derivato. Mediante esperimenti di questo tipo si è calcolato che il numero di cellule che originano un disco varia probabilmente da 8 a 40, secondo i vari dischi. È stato anche possibile usare un simile approccio genetico per calcolare la distanza relativa di due dischi immaginali al momento in cui essi si sono originati. Infatti, quanto più vicini essi erano, tanto maggiore probabilità avranno, nei mosaici genetici ora descritti, di essere formati tutti e due da cellule dello stesso tipo (XX o XO). Un approccio simile hanno usato A. Garcia-Bellido e Merriam (1969), i quali, basandosi su un'idea di A. H. Sturtevant (1920), hanno sviluppato una metodica che sta trovando oggi un crescente impiego (P. Ripoll, 1972). Con tale metodica Y. Hotta e S. Benzer (1972) hanno dimostrato che è possibile riconoscere su quale territorio anatomico dell'embrione agiscorio i geni la cui mutazione produce disturbi del sistema nervoso. Infatti si può formare un embrione costituito da un mosaico di cellule, alcune portanti la coppia cromosomica X*X dove X*, per es., contiene un carattere, come il colore, che fa riconoscere le cellule che lo contengono e la mutazione, ambedue legati a un allele recessivo, cioè a un gene che agisce solo nelle cellule di costituzione X*O e non in quelle X*X. Alcune cellule dell'embrione perdono X e diventano dunque X*O. Per mezzo delle mappe embrionali prima descritte si può riconoscere quali territori embrionali debbano essere mutanti (cioè X*O) perché si abbiano le singole alterazioni nervose studiate, cioè tremore delle zampe, posizione alterata delle ali, ecc.
La derivazione di una parte di un territorio embrionale da un gruppo di cellule derivate da un'unica cellula (clone) è stata studiata anche in mammiferi per mezzo dei mosaici genetici che si possono originare mescolando alcuni blastomeri di topo che portino dei marcatori genetici riconoscibili. Questa tecnica è derivata dagli originali lavori di A. K. Tarkowski (1961) e B. Mintz (1962). Una tale mescolanza di cellule, se reimpiantata nell'utero materno, si sviluppa fino a dare animali che vengono alla luce e crescono normalmente. Da blastomeri mescolati di topi a mantello bianco e nero, rispettivamente, si originano topi a mantello di colore misto bianco e nero (A. K. Tarkowski, 1964; B. Mintz, 1967). Simili studi si conducono oggi anche su "chimere" formate dalla riaggregazione di blastomeri di specie simili, quali per es. ratto e topo (R. L. Gardner e M. H. Johnson, 1975).
Interessante l'osservazione di A. Garcia-Bellido e altri (1973) che il territorio embrionale di alcuni Emitteri si può considerare diviso in "compartimenti", ciascuno dei quali è derivato dalla progenie di una singola cellula. Le cellule di un "compartimento" non si mescolano con quelle di un altro e, fatto importante, i prolungamenti neuritici delle cellule nervose che innervano un compartimento non penetrano in un altro (P. A. Lawrence, 1975).
Molto lavoro è stato dedicato anche in questi quindici anni a spiegare il meccanismo con cui si realizza l'induzione embrionale, cioè quel processo per il quale alcune cellule embrionali vengono "indotte" da altre a formare una struttura che non avrebbero formato da sole. Sono stati impiegati in questo studio una grande varietà di tessuti embrionali. Tra i sistemi più interessanti, quello che riproduce la formazione della cartilagine in seguito a stimolo induttivo in vitro. In tale processo si sono infatti riconosciuti tutti e sei gli enzimi la cui azione, in sequenza ordinata, è necessaria alla formazione della cartilagine (J. W. Lash, 1961; H.H. Holtzer, 1968; L. Roden, 1970). J. W. Lash ha recentemente (1973) dimostrato l'effetto stimolante di alcuni proteoglicani, sostanze secrete dalla notocorda, nella produzione di cartilagine da parte dei somiti. Similmente M. R. Bernfield (1972) ha suggerito l'importanza dei proteoglicani come sostanze induttrici nella formazione dell'epitelio delle ghiandole salivari. Qualunque sia l'eventuale sostanza induttrice non pare che essa possa agire per diffusione dall'induttore all'indotto, ma pare che sia necessario un contatto tra le cellule indotte e le cellule o comunque i materiali inducenti. Infatti L. Saxen e J. Wartiowaara (1974) hanno dimostrato che l'induzione della formazione dei tubuli renali nell'embrione di topo può avvenire sperimentalmente attraverso filtri, ma a condizione che questi abbiano pori non più piccoli di 0,2 micron, attraverso i quali si è dimostrato che migrano prolungamenti citoplasmatici delle cellule induttrici e indotte. A simili conclusioni portano gli studi sulla sintesi di collagene da parte dell'epitelio di cornea di embrione di pollo (E. D. Hay, 1975).
Progressi si sono compiuti in questi ultimi anni riguardo alla coltivazione di embrioni di mammifero in vitro. Si può coltivare l'embrione di topo fino allo stadio di blastocisti (R. L. Brinster, 1963,1965; D. Whittingham e J. D. Biggers, 1967). Hsu e collaboratori (1974) sono riusciti perfino a ottenere lo stadio di formazione dei somiti usando un substrato di collagene. Un mezzo per coltivare gli ovociti umani prelevati dall'ovaio in modo che siano fecondabili è stato descritto da Edwards nel 1969.
Gli studi di e. hanno contribuito allo sviluppo di svariati altri campi, tra cui quello dell'immunologia. Si è infatti trovato che i linfociti si dividono in due popolazioni, una, cosiddetta T, ha bisogno d'interagire con i linfociti dell'altro tipo per differenziarsi e acquisire la capacità di fornire l'"immunità cellulare"; l'altra, cosiddetta B, non ha bisogno di questa interazione per acquisire la capacità di produrre anticorpi (D. D. McGregor, 1966; J. F. Miller e D. Osbon, 1967; I. M. Roitt, 1969; M. C. Raff, 1973). Malgrado estesi studi però non è stato ancora possibile stabilire con certezza se tutti i linfociti ereditino la capacità di formare qualunque tipo di anticorpo (teoria germinale) o se ciascun linfocita acquisti per cambiamento del suo DNA durante il differenziamento la capacità di produrre un determinato tipo di anticorpi (teoria somatica).
Bibl.: Current topics in developmental biology, a cura di A. A. Moscona e A. Monroy, voll. 1-9, New York-Londra 1966-75; M. Hamburger, Theories of differentiation, New York 1971; D. D. Brown e altri, Molecular biology of amphibian development, ivi 1972; G. Giudice, Developmental biology of the sea urchin embryo, New York-Londra 1973; J. B. Gurdon, The control of gene expression in animal development, Cambridge (Mass.) 1974; The cell surface in development, a cura di A. A. Moscona, New York-Londra 1974; Cell patterning, in Ciba Foundation Symposium 29 (new series), North Holland 1975.