ELLENISMO
Significato e storia del termine. - Con questo nome coniato da J. G. Droysen (v.) si suole designare quel periodo della storia della nazione e della civiltà greca che va dalla morte di Alessandro il Grande (323 a. C.) alla battaglia di Azio (31 a. C.). È ormai provato che quel termine deriva da falsa interpretazione di un passo degli Atti degli Apostoli (VI, 1) nel quale, trattandosi della comunità cristiana, si distinguono in essa gli Ellenisti (‛Ελληυισται) dagli Ebrei. Il Droysen, come molti innanzi a lui, credeva che gli Ellenisti fossero chiamati così per il greco impregnato di ebraismi che parlavano, dunque in contrapposto ai Greci puri: mentre il contesto mostra che gli Ellenisti sono chiamati così solo perché parlano greco, in contrapposto con gli Ebrei, che si servono di una lingua semitica (aramaico). Pure quel termine, anche conosciuto l'errore, è rimasto in uso e prevale ormai anche in paesi latini sull'altro di alessandrinismo (o periodo alessandrino), che ha lo svantaggio di presupporre per la cultura egizia di questo tempo un primato che essa non ebbe almeno in modo assoluto, e che le è attribuito in specie perché, grazie alla maggiore abbondanza delle fonti, essa è meglio ricostruibile. E il termine "ellenismo", se si faccia astrazione dalla sua origine contingente, se si spogli di una certa vernice puristica che gli è rimasta, è in sé tutt'altro che infelice: qui la storia del popolo greco diviene gradatamente la storia di tutti coloro che parlavano e pensavano in greco, qualunque fosse la loro origine, di qualunque popolo essi si ritenessero figli.
Limiti temporali e spaziali dell'ellenismo. Sua importanza per la storia della civiltà. - Sui limiti dell'ellenismo, benché si sia negli ultimi decennî parecchio disputato, non pare possa cader dubbio. Da Azio in poi la capitale del mondo civile è Roma e soltanto Roma; Alessandria, che, finché furono potenti Cleopatra e Antonio, poté sperare di conquistare questa dignità, è d'ora in poi, sia pure la seconda città dell'Impero, ma nulla più che un capoluogo di provincia, di quella provincia che grazie alla sua ricchezza rende possibile all'Impero vita prospera e fornisce agl'imperatori la potenza, ma pur sempre provincia. E il greco non è più d'allora in poi l'unica lingua di cultura del Mediterraneo e del mondo civile: questo da Augusto in poi è bilingue (astrazion fatta, s'intende, dai vecchi idiomi locali sopravvissuti). Si aggiunga che proprio sotto Augusto sia nella letteratura, sia nelle arti figurate prende il sopravvento un gusto che respinge tutta l'evoluzione degli ultimi secoli e si volge con piena consapevolezza al periodo attico. E ce n'è quanto basta per far vedere che chi estende maggiormente verso il basso il dominio dell'ellenismo, comprendendovi tratti maggiori o minori dell'era imperiale, confonde in uno due movimenti di direzione opposta. Il che non significa che anche dopo Augusto non seguiti e non divenga anzi più intenso nel mondo occidentale quell'assorbimento di elementi orientali ch'era stato reso possibile e agevolato solo dall'ellenismo.
Il fondatore stesso della storia ellenistica, il Droysen, ha dubitato se comprendere la storia d'Alessandro nell'ellenismo: dapprima egli ne fece un'opera a parte (Amburgo 1833); quarant'anni più tardi (Gotha 1877) l'accolse nella storia dell'ellenismo quale primo volume. E tuttavia l'esitazione non pare a noi legittima: ancora durante la spedizione di Alessandro non si può parlare di una cultura greca in Egitto, Asia Minore, Tracia: ma proprio questo, del dominio di una cultura greca su territorî non greci, è una delle caratteristiche più appariscenti dell'ellenismo, in contrapposto ai periodi precedenti, che conoscevano solo comunità greche sparse in territorî non greci e che non greci rimanevano. Tutt'altra questione è se l'ellenismo derivi dalla spedizione di Alessandro: come si vedrà subito, le sue origini sono anche più antiche, o, per parlar più precisamente, l'evoluzione di cui sono frutto certe caratteristiche più importanti e più evidenti dell'ellenismo esisteva già un pezzo innanzi, ancor prima che Alessandro ascendesse al trono, già durante il regno di Filippo.
Più vaghi sono invece i termini spaziali. È naturale che sia così: la storia greca anteriore all'ellenismo s'identifica con la storia delle comunità greche della madrepatria e del territorio coloniale. Ma l'ellenismo comprende un'infinità di paesi misti, di paesi nei quali lo spirito greco possiede e informa propriamente solo le classi superiori, cioè minoranze, ma opera anche su maggioranze appartenenti ad altre civiltà inferiori e anche, si direbbe, prive di civiltà. Non è dubbio che appartengano all'ellenismo paesi quali l'Egitto e la Siria, nei quali i Greci erano pochissimi di fronte alla strabocchevole quantità di sudditi camiti o rispettivamente semiti, ma nei quali tuttavia questi pochi Greci avevano da principio, e mantennero per secoli, il governo, nei quali letteratura ed arti figurate erano greche. Ma vi fu un momento sotto il re di Siria Antioco Epifane (175-164; v.) nel quale persino Gerusalemme, la città sacra del popolo per ragioni religiose più riluttante non solo a mescolanze ma anche a influenze straniere, corse rischio di divenire una città ellenistica. E greco, cioè dominato da dinasti greci, fu per breve tempo il Panjab, per un periodo molto più lungo la Battriana (v.), se pure più tardi questi dinasti erano indianizzati sino al punto di farsi protettori del buddismo.
E, per ragioni di economia di lavoro, conviene che lo storico dell'ellenismo dia a questo termine l'accezione spazialmente più larga che è possibile. L'elemento greco è per lo più proprio quello che ha dato la spinta allo svolgimento seguente della civiltà in tutti i paesi di cultura mista, ancorché esso fosse quantitativamente scarso, e non abbia potuto mantenersi puro e operare direttamente se non per un periodo relativamente breve. Hanno composto in greco le loro opere i due maggiori scrittori ebraici conservati, Filone e Giuseppe Flavio; in greco sono stati composti alcuni dei libri più recenti del Vecchio Testamento (v. bibbia) e tutto il Nuovo, se pure in alcuni tratti dei Vangeli si creda di veder trasparire qua e là un modello aramaico. E, se non è certo che il dramma indiano derivi dal greco, come si riteneva qualche anno fa, è sicuro che l'arte greca ha irradiato dalla Battriana non solo in India (tant'è vero che le più antiche immagini del Buddha si rivelano sempre più chiaramente derivate da un tipo apollineo), ma sino in Cina. Ed è persin dubbio se ci siano stati grandi imperi in India e persino in Cina prima della spedizione di Alessandro, se l'imitazione di formazioni statali ellenistiche non sia stato il lievito della storia politica dell'Asia maggiore. Solo considerato così largamente, l'ellenismo acquista importanza per la storia europea e universale.
Questo non significa che l'influsso greco in Oriente durante il periodo ellenistico sia stato così profondo e così durevole come la romanizzazione dell'Occidente sotto l'Impero. In Occidente la latinità ha conquistato così completamente sia la Spagna sia la Gallia che in ambedue questi paesi sono morti, tranne poche tracce, gli idiomi nazionali, e si parlano invece lingue che continuano il latino, sia pure un latino che mostra di essere passato attraverso bocche iberiche e specie celtiche. In Oriente le antiche lingue rimasero in uso sino a tardi persino nell'Asia Minore, pur così vicina alla Grecia, pur esposta da tanti secoli a influssi culturali greci. E ora, certo in gran parte in virtù dell'islamizzazione, sia la Siria sia l'Egitto parlano idiomi semitici. In Italia e in genere in Occidente l'onda della romanità ha sommerso, si può dire, ogni influsso greco ed ellenistico: le poche comunità greche della Calabria e della Puglia è molto dubbio se continuino l'antica colonizzazione o non piuttosto l'emigrazione bizantina. Sull'Occidente l'ellenismo non agisce ormai più se non attraverso Roma.
Periodi dell'ellenismo. - L'ellenismo, così inteso, comprende tre secoli. Sarebbe desiderabile che in questo tratto così lungo si potessero distinguere periodi minori ben caratterizzati. L'anno di Sellasia (222) si presta assai bene a servire di limite: la Macedonia, restaurata per l'ultima volta quale grande potenza e di nuovo a capo di un'alleanza che comprende la parte maggiore della Grecia, si allea ben presto con Annibale contro Roma, la quale già da qualche tempo (228) ha posto piede nelle città greche della costa orientale dell'Adriatico: di qui in poi i regni ellenistici sono impegnati nella lotta contro il nemico occidentale, che ben presto li sopraffarà. E questa divisione, che parte da criterî puramente politici, non sconviene neppure alla storia della cultura, se quel primo secolo dell'ellenismo è anche quel medesimo che solo ha prodotto opere di valore universale, e se l'ascesa al trono di Tolomeo Filopatore, che segna la fine della grande letteratura alessandrina, è posteriore di pochi mesi alla battaglia. Ma da Sellasia ad Azio una linea discriminante sicura non pare ancora trovata.
Men che mai consigliabile sarebbe cercarla nell'oscillare dei confini orientali dell'ellenismo. Qui la maggiore estensione è raggiunta subito da Alessandro: già Seleuco aveva dovuto rinunziare alle satrapie indiane. Se la Battriana, staccatasi sotto il terzo re, rimane per lungo tempo un regno ellenico, non greco ma nazionale è lo stato dei Parti che si forma in quegli stessi anni (248). La Cappadocia sul Ponto si afferma quale stato indipendente già contro Lisimaco. In complesso si può dire che il confine territoriale del regno dei Seleucidi, cioè dell'ellenismo, non faccia dalla morte di Alessandro in poi che retrocedere. Inoltre, verso il 275, nel bel mezzo della Frigia e in Tracia si stanziano popolazioni celtiche; l'Italia meridionale è divenuta romana; gran parte della Sicilia è caduta in mano dei Cartaginesi, semiti, e dei Mamertini, oschi. Eppure tutto ciò è perfettamente compatibile con un rafforzarsi degl'influssi culturali anche in tempi più recenti: proprio uno dei regni orientali rimasti sempre indipendenti, la Bitinia, si va in quei secoli progressivamente ellenizzando. E l'arte greco-buddistica di Gandhāra (v. india) comincia non nel sec. III ma nel II. Tutt'al più si può dire che nei secoli posteriori dell'ellenismo in alcuni paesi, p. es. nell'Egitto, l'influsso delle classi inferiori meno ellenizzate sulle superiori diviene progressivamente maggiore e che queste ultime si vanno man mano anch'esse orientalizzando.
Se si vuole a ogni costo stabilire un terzo periodo, converrà farlo cominciare dalle devastazioni di Silla in Grecia (88 a. C.). Di qui in poi questo paese perde per secoli ogni importanza e ogni produttività intellettuale e Roma già si appresta a divenire il maggior centro della vita culturale. Anche più significativo è che l'ultimo tentativo di strappare a Roma il dominio del Mediterraneo orientale, è rintuzzato da un sovrano ellenistico, di origine iranica ma profondamente grecizzato, Mitridate.
Di qui in poi, rimandando per la storia politica, linguistica e letteraria ad altri articoli, non trattiamo ex professo se non della cultura ellenistica.
Caratteri fondamentali dell'ellenismo: unità del mondo ellenistico. - L'ellenismo è fin dal suo principio segnato da un rovesciamento del rapporto tra polis e stato territoriale. Nel periodo attico erano rimasti monarchici e territoriali solo alcuni stati del nord, la Macedonia e in certo senso l'Epiro, paesi scarsi d'importanza nel complesso della vita spirituale ellenica. Nel periodo ellenistico gli stati territoriali, la Macedonia, il regno seleucidico, l'Egitto sovrastano alla Grecia continentale, divisa ancora tra le poleis, non soltanto per potenza ma, almeno il secondo e il terzo, anche per intensità di movimento economico e spirituale. Le poleis non muoiono, ma, per quanto riluttino contro il loro destino, sono gradatamente sempre più eliminate dalla grande politica, ridotte a municipî protetti dai grandi stati e fra essi contesi. Anche l'importanza che Atene conserva ancora nel sec. III quale "capitale morale" va poi rapidamente declinando: da Silla in poi essa è città di provincia, se pure rimane ancora la sede dei filosofi, l'università centrale del mondo ellenistico (Roma compresa). Eccezione fa soltanto Rodi, insieme grande porto di scambî e centro di alta cultura retto da un'oligarchia di mercanti (la costituzione è apparentemente democratica, ma solo poche famiglie contano davvero). E in certi momenti l'isola, estesa più della città greca normale, tanto che molta gente di campagna non avrà potuto prendere parte al governo, possiede anche territorî sulla costa asiatica, sicché anche questa eccezione è apparente. La vita nuova pulsa più vigorosa in Alessandria e in Antiochia, da un certo punto in poi fors' anche in Pergamo, che in Atene o in qualsiasi altra città della Grecia continentale. E la decadenza non è soltanto spirituale: spostandosi il grande commercio, la Grecia continentale va, durante il sec. III, divenendo di nuovo un paese di poveri; da un certo punto in poi scema anche la popolazione. Le devastazioni di L. Mummio prima (146), di Cornelio Silla poi (88) non fanno che dare il suggello definitivo a una trasformazione che già tutt'e due le volte era un bel pezzo innanzi.
Questo spostamento della vita politica, economica e spirituale della Grecia continentale e insulare verso città e territorî retti diversamente e diversamente popolati agevola il diffondersi di un tipo nuovo dell'uomo greco, ch'era già sorto nel sec. IV ma che fino all'ellenismo rimane eccezionale. Nell'Atene del sec. V la politica riempie la vita di qualunque cittadino non sia costretto dalla sua povertà a passare tutto il giorno coltivando con le proprie mani il campicello o nell'esercizio di un'arte meccanica o di un commercio minimo, di rivendugliolo sul mercato. Ma di cittadini in grado di dedicare tutta o gran parte della giornata agli affari pubblici ce ne dovevano essere percentualmente molti più che oggi: i bisogni, come mostra p. es. in alcune orazioni Lisia e nelle parti introduttive di certi dialoghi e qua e là nelle lettere Platone, erano modestissimi; fortune e tenore di vita relativamente livellati; saziarsi due volte al giorno sembrava già un lusso singolare, proprio della vita dissoluta di un paese coloniale, quale la Sicilia. Ancora non soltanto la socratica ma persino la speculazione politica di Platone presuppongono che la maggior parte dei cittadini possa e voglia occuparsi della vita pubblica. D'altra parte gli affari dello stato, sinché politica comunale e grande politica s'identificavano, erano accessibili, nonostante le critiche di un Socrate e di un Platone, anche a menti non tecnicamente addestrate: gl'interessi pubblici e privati, anche gl'interessi di classe, nella misura in cui di classe si può già parlare, erano per lo più chiari a prima giunta. Il dominio assoluto della politica nella vita d'ogni giorno presuppone e insieme condiziona un'intimità reciproca dei cittadini quale noi non ci possiamo più immaginare, quale non ebbe forse la pari neppure la città medievale, pure per molti rispetti simile. La Socratica presuppone che il cittadino passi il tempo conversando e discutendo in piazza, nei ginnasî, per le strade; che ciascuno possa rivolgere la parola a ciascun altro: le differenze di classe e di tenore di vita erano piccole.
Ma questo stesso predominio della politica fa sì che almeno quasi per tutto il sec. V manchi ogni possibilità di specializzazione, di formazione di una cultura tecnica: Eschilo e Sofocle sono stati non poeti di professione, ma cittadini, soldati, magistrati forniti di capacità poetiche elevate e raffinate dall'esercizio dello scriver tragedie. È interessante che quelle che più propriamente si potrebbero chiamare professioni specifiche, sono esercitate da stranieri. Lasciamo pure andare il commercio e l'industria, dai quali certo nessun cittadino ateniese che avesse i necessarî capitali in schiavi e danari riluttava, pure esercitandoli in modo che non gli portassero via tutto il tempo della vita (molti viaggiavano in gioventù qualche anno per commercio, ma, ritornati in patria, si davano, appena potevano, a praticare l'usura marittima, che assorbe molto meno); ma almeno il compito più tecnico, quello del banchiere e del cambiavalute, era in mano di liberti e di meteci. Ed è caratteristico che ancora nel sec. V chi fa professione di sapienza, il sofista, non esercita nella propria città, ma gira tutta la Grecia; del pari il medico e l'artista (scultore, ecc.), che non sono tuttavia distinti chiaramente dall'artigiano. Ancora nel sec. V lo specializzarsi, il tecnicizzarsi o non sono possibili in patria o fanno colà discendere nella stima pubblica. Il tecnico vive evidentemente meglio là dove non è legato dalla politica o dalle consuetudini tradizionali della vita quotidiana (che sono insomma tutt'uno), e per viver meglio supera anche quella ripugnanza per la vita all'estero, che nel sec. V è ancora regola e che è giustificata da quell'inferiorità e incertezza dei diritti riconosciuti allo straniero che non fu superata se non appunto nell'ellenismo. Conviene anche dire che a farsi un'istruzione speciale mancava ai più la spinta, finché la cultura era singolarmente limitata, finché la scuola, oltre che addestrare a leggere, scrivere, far di conto e insegnare rudimenti di metrica e musica, si proponeva solo d'imprimere nella memoria certi tratti della poesia nazionale classica che esisteva sino allora, cioè dell'epopea e dell'elegia, e qualche lirica morale (o conviviale) e patriottica.
Queste condizioni mutano lentamente già nel sec. IV. Già nel sec. IV in Atene, una cerchia di spiriti eletti formula ed elabora l'ideale dell'educazione per mezzo della scienza, della cultura teoretica pura, incondizionata, della παιδεία, che sola conferisce dignità di Elleni (v.) e uomini, e questo ideale si diffonde a poco a poco. Di qui in poi la distinzione tra ricchi e poveri, o meglio tra gente che può accudire allo stato e gente che consuma la vita nel lavoro manuale è sostituita dalla distinzione tra colti (πεπαιδευμένοι) e incolti (ἀπαίδευτοι, ora anche βάναυσοι, una parola che prima aveva avuto tutt'altro significato). Di qui in poi, chi può fa studiare i proprî figli; e l'intelligenza si stacca come classe a sé dal resto del popolo. L'ideale della cultura è panellenico: le distinzioni fra città e città, tutelate sinora con certa gelosia, perdono a poco a poco di valore di fronte alla comunanza d'interessi che lega i colti di ogni parte dell'Ellade. La scuola del cittadino ateniese Platone è formata in buona parte di stranieri: lasciar la patria per darsi alle scienze non è più rara eccezione e non suscita più diffidenze, come al tempo dei sofisti. E poco importa se gli scienziati, i filosofi, per legittimare sé stessi dinnanzi al pubblico, debbono rassegnarsi a impartire anche lezioni di retorica, cioè di una tecnica del persuadere, del farsi valere di fronte ai tribunali e nelle assemblee popolari, come vi si è rassegnato il meteco Aristotele in concorrenza con l'ateniese Isocrate. Questo stesso diffondersi della retorica significa d'altro canto un tecnicizzarsi dell'attività politica: il cittadino addestrato retoricamente è, di fronte all'antico politico, in certo modo un tecnico, se pure di una tecnica esterna che giova a lui molto più che alla città.
E quest'ideale, che è, in atto, panellenico, è in potenza anche generalmente umano: chi riconosce che non è Elleno se non chi ha cultura ellenica, cioè, poiché altra non ve n'è, cultura, ammette che il giorno che un barbaro si sarà impadronito della cultura egli sarà pari all'Elleno, sarà anzi Elleno. Il confine tra Greci e barbari cade, virtualmente, già nel sec. IV, prima ancora della spedizione di Alessandro.
Ma lo spostarsi del centro politico e culturale dalle poleis della Grecia continentale verso i regni delle coste orientali e meridionali del Mediterraneo, il preponderare dello stato territoriale e amministrativo accelera e allarga quest'evoluzione. I grandi stati territoriali non si possono amministrare al lume di semplice buon senso come le antiche città. Sia la massa dei Greci comuni sia anche la grande maggioranza dei "colti" sono in Egitto e nel regno seleucidico esclusi dal governo: per la prima volta si forma in Alessandria una classe di dotti, letterati e scienziati, che non sono altro che dotti e sono dallo stato stipendiati o sussidiati, perché possano consacrarsi tutti al lavoro scientifico. Contemporaneamente si forma ancora un'altra classe della quale mancava parimenti ogni traccia nella Grecia preellenistica: gl'impiegati di amministrazione. Lo stato monarchico e territoriale non è necessariamente uno stato amministrativo finché è di piccola estensione. È probabile che Filippo di Macedonia non si sia servito di tecnici, se non, e in numero ristretto, per la sua cancelleria. Ma già l'impero di Alessandro, e poi i regni dei Diadochi e degli Epigoni si trovarono di fronte a problemi molto più complicati: popolazione immensa, di razza, costumi, lingue varie; nonché la fusione, l'equiparazione giuridica degli altri popoli ai Greci e ai Macedoni evidentemente impossibile (se pure Alessandro alla fusione un momento pensò); spese di governo molto maggiori che non ne avesse incontrate sinora qualsiasi stato greco. Gli stati ellenistici dovettero necessariamente divenire burocratici, come burocratici erano stati i loro predecessori, i grandi imperi orientali. Già Alessandro accetta istituzioni persiane; in più larga misura seguono questo esempio i monarchi Seleucidi; i Tolomei volgono a proprio favore la complessa organizzazione finanziaria dell'antico Egitto, col suo raffinato sistema di imposte e di monopolî. Il διοικητής, ministro delle finanze, è forse, dopo il re, il più alto magistrato dell'Egitto tolemaico. Influssi reciproci dei varî stati ellenistici non saranno mancati, quantunque le fonti ci permettano di rado di determinarli. Invece i numerosissimi papiri e gli ostraka ci consentono di scrivere la storia interna dell'amministrazione egizia, dai primi Tolomei sino a tutto il periodo romano, con la stessa abbondanza di particolari e la stessa sicurezza con la quale ricostruiamo, di su documenti d'archivio, la storia amministrativa dello stato di Luigi XIV o di quello di Federico II di Prussia.
Fino al tempo ellenistico il cittadino optimo iure non poteva pensare se non ad assumere nell'amministrazione funzioni onorarie quale magistrato, funzioni quindi limitate a periodi determinati assai brevi. Nell'Egitto tolemaico e certo anche sotto i Seleucidi i migliori tra i Macedoni o tra i Greci possono aspirare a divenire impiegati di amministrazione. Di qui il principato augusteo deriva la sua carriera procuratoria.
Il periodo ellenistico è dunque contrassegnato rispetto al preeedente da un formarsi di classi sempre più distinte e da un maggiore sviluppo di quelle attività che si potrebbero dir tecniche. Che nelle nuove grandi città andasse perduta quell'intimità tra gli abitanti che era caratteristica dell'antica polis greca e che del resto era spesso fonte, com'è naturale quando si vive troppo l'uno sull'altro, di rivalità senza fine e di rancori atroci, era inevitabile. I Greci che si ritrovavano p. es. ad Alessandria provenivano da ogni parte del mondo ellenico e non avevano la tradizione della convivenza; inoltre, essi erano minoranza sparsa e come sperduta tra un'immensa maggioranza di Egizî, di Giudei, d'immigrati dalle parti non ancora ellenizzate dell'Asia Minore, tutta gente che il Greco doveva considerare culturalmente inferiore, com'era senza dubbio alcuno inferiore giuridicamente. Quindi è naturale che in Alessandria, come ormai par sicuro, mancassero anche quelle istituzioni comunali autarchiche che rendono agli occhi degli antichi Greci vera polis un conglomerato di fabbricati. Quanto al regno seleucidico, grande sarà stato il contrasto tra le vecchie fondazioni greche della costa, che anche sotto il protettorato regio mantennero le antiche istituzioni e le antiche forme di vita (quasi esclusivamente intorno a queste città siamo informati dalla tradizione, qui non papirologica ma epigrafica, e quindi meno abbondante e molto più uniforme), e le grandi metropoli, principale Antiochia.
E subito la letteratura mostra le conseguenze di questa mancanza d'intimità, di unità nella popolazione. I tempi nei quali la poesia non solo di un Solone ma anche di un Eschilo si rivolgeva a tutto il popolo sono ormai passati. Per intendere e sentire la poesia ellenistica già del sec. III, diciamo pure di Callimaco e Apollonio, è necessario essere persone colte. È già caratteristico che languisca e presto si estingua, o meni vita soltanto artificiale, il teatro tragico e comico: la poesia nuova, anche quando affetta forme dialogiche, mimetiche, come spesso in Teocrito, sempre in Eroda, è destinata alla lettura. E i carmi di questi poeti e di Callimaco esigono, a essere gustati, lettura lenta e riposata e lettori che conoscano e abbiano presente alla mente i loro classici, che padroneggino storia, geografia, erudizione di ogni genere, che siano pronti a cogliere e identificare punte molteplici e allusioni per lo più discrete, talvolta misteriose, che si compiacciano ogniqualvolta un'imitazione riveli al loro spirito sempre teso come il poeta dotto legge e intende un passo oscuro del suo Omero. Le molteplici polemiche personali, talvolta mezzo celate, mostrano che i poeti formano classe chiusa e che sanno di poter esigere interesse per le loro vicende e le loro beghe: tutte caratteristiche impossibili ancora per tutto il periodo attico, durante il quale l'artista scompare totalmente dietro all'opera d'arte, durante il quale non esiste una vita letteraria scissa dalla vita nazionale e comunale.
Ma se la letteratura si rivolge solo a una classe, non per questo si può dire che il pubblico si sia ristretto: cadono ormai anche per tale rispetto i confini epicorî. Diciamo questo con riguardo non tanto alla poesia che in Grecia da Omero in poi ha sempre fatto uso di una lingua convenzionale, artificiale, indipendente per lo più dalla patria del poeta, determinata soltanto dalla patria del genere letterario: nell'era ellenistica questo carattere convenzionale non fa altro che accentuarsi, specie per virtù delle glosse (γλῶσσαι) o parole rare che i poeti dotti raccolgono da ogni angolo della letteïatura precedente e introducono nei loro carmi con studiata naturalezza. Anche il dorico dei carmi più propriamente pastorali del siracusano Teocrito è tutt'altro che il siracusano comune di quel tempo, ma rappresenta una mescolanza sfumata diversamente in ogni poesia e in ogni tratto di poesia, una mescolanza altrettanto artificiosa quanto l'ionico omerico dei suoi epillî. Ma la prosa si serve ora, senza più alcuna distinzione (eccezioni come il dorico del matematico Archimede saranno un capriccio e nulla più, e significano a ogni modo assai poco), di un dialetto unico, la coinè (κοινή), che è, quanto a forme grammaticali e sintattiche, una continuazione dell'attico, ma che nel lessico ha accettato molti vocaboli del dialetto ionico, che aveva prima servito alla scienza, che prima era stato il veicolo di una più alta cultura. L'unificazione, dunque, nella letteratura è perfetta; e la letteratura, se limita il suo pubblico nel senso della profondità, lo accresce in larghezza. Eschilo si rivolge in primo luogo agli Ateniesi, Polibio a tutti i Greci colti. Anzi non soltanto ai Greci colti, ma agli uomini di ogni razza che siano in grado d'intendere il greco. Polibio è stato subito letto dai suoi amici e ammiratori romani, ma è certo che i Giudei ellenistici, così numerosi in Egitto e privilegiati colà dalla legge, hanno letto letteratura greca quanto i Greci di razza; è probabile che anche uomini di altre stirpi, in quanto forza d'ingegno e cultura li mettevano in grado di entrare nella classe superiore, di parificarsi ai Greci, si saranno nutriti di letteratura greca.
Ma la coinè non è né unicamente né principalmente un idioma letterario: essa era il linguaggio della vita, come mostrano le epigrafi delle varie città, che per lo più, anche se aspirano a conservare l'idioma epicorio, non vi riescono, ma ci presentano una ritraduzione in dialetto della coinè. Convien dire che anche qui l'unificazione era cominciata nell'Attica del sec. IV, che già i più recenti degli oratori ci mostrano un attico coinizzato arricchito di elementi lessicali del dialetto ionico e ripulito di quelle poche peculiarità morfologiche attiche che dovevano sonare singolari a chi era cresciuto in altri ambienti linguistici. Gli scambî commerciali dall'un canto, l'innalzarsi della cultura dall'altro contribuiscono qui all'unificazione, alla coinizzazione, che è del resto processo comune in tutte le grandi capitali, come mostra anche da noi l'esempio dell'evoluzione del romanesco dal '70 in poi. Ma l'adunarsi di gente di ogni razza greca nella nuova metropoli accelerò anche in questo campo l'evoluzione: emigrati da diverse parti di un territorio linguistico, vivendo tra stranieri, smussano naturalmente i loro dialetti nelle relazioni reciproche.
Questa coinè ha ben presto conquistato anche popoli non greci: scrittori di ogni origine si provano in questa lingua, ogniqualvolta aspirano a essere intesi da un pubblico internazionale. Qui basti accennare agli Annali dei Romani Fabio Pittore (ancora III secolo) e Cincio Alimento. Altrettanto antica è la letteratura giudaica in lingua greca, se lo storico Demetrio (v.), come pare, ha scritto ancora sotto Tolomeo Filopatore, cioè innanzi al 205. Più importa che, probabilmente già sotto il Filadelfo, si dovette tradurre in greco la Bibbia, a uso degli Ebrei d'Egitto. Essi erano tanto completamente ellenizzati quanto a lingua da non intendere più il loro idioma nazionale. E non è provato né probabile che di tutti gli apocrifi del Vecchio Testamento, di cui ci resta solo un testo greco, esistesse un originale ebraico (v. bibbia): greco è, si è detto, anche l'originale dei Vangeli! Passi greci nelle lettere più intime e meno sorvegliate di Cicerone mostrano che il Romano fine di quel tempo soleva ancora conversare e scherzare in coinè, così come nel XVIII tutte le persone colte in Europa si servivano del francese come di una seconda lingua più elegante. Ma anche popoli che forse appunto per la loro bassezza o almeno diversità culturale hanno resistito vittoriosamente all'ellenizzazione hanno dato contributi alla letteratura in coinè già nella prima metà del sec. III. Un sacerdote babilonese, Beroso, scrive sulle antichità del suo paese in greco già sotto Antioco I (281-260), un sacerdote egizio, Manetone, espone ai conquistatori greci la propria civiltà nazionale ancora sotto il Filadelfo.
Se all'unificazione culturale e linguistica del mondo ellenistico abbia tenuto dietro di pari passo l'unificazione giuridica, è difficile dire per scarsità di fonti, né è probabile. Il diffondersi sempre maggiore di una istituzione, che anch'essa ha radice in periodi più antichi, mostra che, se la posizione di straniero aveva inconvenienti, s'era escogitato il modo di superarli anche in quelle città della Grecia propria che più parevano restie a innovazioni. Già gli antichi stati greci hanno concesso in casi eccezionali a stranieri la cittadinanza, cioè l'equiparazione giuridica ai cittadini; questi conferimenti divengono casi di ogni giorno nelle città libere durante il periodo ellenistico. Sui gruppi nazionali (politeumata, παλιτεδματα) in Alessandria siamo ancora informati male; ma è evidente che i Greci che concorrevano là da ogni parte non vi si dovevano sentire oppressi; né del resto esisteva colà un elemento antico, privilegiato, che li potesse umiliare od opprimere. La distinzione da altre popolazioni è agevolata da un'istituzione esclusivamente ellenica, il ginnasio: le altre popolazioni del Mediterraneo non fanno vera ginnastica. Ma a ogni Greco del periodo ellenistico ogni città greca, ogni stato retto da Greci è patria non meno che la propria città. Certe istituzioni, la delega p. es. dell'amministrazione della giustizia in città libere a giudici di altre città (un qualcosa di analogo, dunque, alla podesteria medievale) fanno pensare quasi a una preferenza concessa a quelli stessi stranieri che cent'anni prima erano teoricamente privi di diritti ed erano di fatto tenuti lontani dal governo: la città libera ha imparato, probabilmente raffrontando sé stessa con lo stato territoriale, a conoscere i proprî difetti, i risentimenti personali e la parzialità anche dei magistrati a favore degli amici e contro i nemici, e vi rimedia come può; ma anche questo è un indizio sicuro di quell'unità che è il maggior contrassegno dell'ellenismo e che contrasta così chiaramente col particolarismo della polis.
Carattere scientifico e realistico dell'intelligenza ellenistica. - Lo spirito greco, non più assorbito dalla politica; si consacra in questo periodo all'indagine scientifica. È ora fondata, e raggiunge subito altissime vette, la scienza della letteratura, la filologia (v. filologia; edizione: Edizione critica; enodoto; aristofane di bisanzio; aristarco). Eratostene elabora per primo in modo veramente scientifico cronologia e geografia. Ma sono in fiore anche le scienze più propriamente naturali: se le opere di zoologia e di botanica di quest'età non ci sono conservate nella forma originale, tranne quella sulle piante di Teofrasto, il quale sta a cavaliere tra il periodo precedente e l'ellenismo, noi le ricostruiamo dai manuali dell'età imperiale, p. es. dalla Storia Naturale di Plinio, ai quali essi hanno servito di fonte. La medicina, grazie a scoperte anatomiche (come quella dei nervi nel significato moderno della parola), trascende il livello di una assennata e geniale empiria, quale era già stato raggiunto dagl'Ippocratei; ancorché l'attività dei due medici maggiori, Erasistrato ed Erofilo, non ci sia nota se non da fonti indirette. La farmacologia fa suo pro' (come aveva già fatto la botanica con Teofrasto) del nuovo mondo vegetale schiuso alla conoscenza dei Greci dalla spedizione di Alessandro: molti "semplici" nuovi dovettero comparire sui mercati ellenistici, da quando i rapporti con l'Oriente divennero più facili e più intensi. Che tutta questa letteratura naturalistica ci sia conservata solo in rifacimenti e compilazioni più tarde, testimonia, chi ben guardi, solo del suo successo: quelle scoperte divennero presto nozioni di dominio pubblico, furono ritenute indispensabili alla cultura, e passarono quindi, sia pure semplificate e annacquate, nei manuali. E infatti nella forma originale ci sono rimaste alcune opere di quelle due scienze che per loro natura meno si prestano alla volgarizzazione: la matematica, gli scritti dei matematici, Euclide, Archimede, Apollonio di Perge, e, in qualche parte, degli astronomi Aristarco di Samo e Ipparco. Anche una disciplina puramente tecnica, la meccanica, comincia in questo periodo a essere trattata da uomini che sono più che artigiani, certo anche invogliati dai premî proposti agl'inventori di ordigni guerreschi dai sovrani ellenistici.
La scienza ellenistica ha per suggello la specializzazione. A quella separazione di classi di cui abbiamo trattato nel paragrafo precedente era parallela anche una divisione del lavoro. Il filosofo Platone tratta anche di matematica e di fisica, Aristotele è stato maestro, oltre che di filosofia e retorica, di scienze naturali e anche biologiche; ma Teofrasto è forse l'ultimo filosofo che tratta ex professo scientificamente di una disciplina speciale, la botanica: le pubblicazioni specie biografiche dei peripatetici posteriori hanno valore piuttosto letterario che scientifico e lasciano molto a desiderare specie quanto al metodo d'indagine. Dei grandi scienziati ellenistici nessuno è filosofo (neppure, ed è singolare, i matematici), e molti sono specialisti: la cultura ellenistica continua per questo riguardo la scienza ionica e non la filosofia attica. Sede di queste scienze speciali sono le città nuove, Alessandria, Antiochia, Pergamo. Atene, come è ancora il principale o almeno il più nobile dei comuni liberi, come secondo ogni probabilità conserva ancora il tipo dell'uomo greco preellenistico, così è il domicilio della filosofia. Ma i nuovi sistemi che sorgono nell'età ellenistica, la Stoa e l'epicureismo, mostrano che lo slancio metafisico di cui avevano dato prova Accademia e Peripato è ormai spezzato. L'epicureismo nega ogni metafisica; la Stoa sostituisce alla metafisica e alla gnoseologia idealistica una metafisica e una gnoseologia materialistica. Perfino i successori di Platone, l'Accademia di Carneade, sostituiscono alla teoria delle idee uno scetticismo probabilistico.
Dei nuovi sistemi filosofici la Stoa aveva per sé l'avvenire, perché meglio corrispondeva alle tendenze del mondo ellenistico: essa era cosmopolita, era realistica, e voleva essere, oltre che filosofia, religione. Ora l'uomo ellenistico è, sì, in complesso privo di spirito metafisico, ma è polarizzato verso il di là e in genere verso il mistero in misura ben maggiore del Greco classico: esso sente il bisogno di una religione e, si direbbe, di una religione positiva: il che vedremo subito. Né sarà caso che il fondatore di quel sistema, che è l'espressione più adeguata dello spirito ellenistico, Zenone, fosse un semita o mezzo semita, di Cipro, che suo conterraneo fosse uno degli stoici più influenti della prima generazione, Perseo, che anche il riformatore Crisippo venisse dall'Oriente e da un paese non mai profondamente ellenizzato, la Cilicia. Ma una religione è in certo senso anche l'epicureismo, così puramente greco: può chiamarsi altrimenti che devozione, religione, il rapporto che lega gli scolari al redentore Epicuro?
Quanto al realismo, esso si palesa potente, esclusivo nella letteratura e nelle arti popolari. La tragedia, in questo tempo, è già morta, nonostante i tentativi di galvanizzarla; la commedia è divenuta, di fantastica, borghese. La letteratura ellenistica, poiché è figlia di uno spirito alieno dall'astrazione, anzi dalla generalizzazione, non disegna più tipi, ma caratteri individuali. Fa eccezione, al principio di questo periodo, la commedia nuova, non ancora, nonostante il mutamento, del tutto libera dalla vecchia tradizione attica, ma non il cultore più geniale di essa, Menandro: questi, almeno all'apice della sua arte, sa anche disegnare caratteri individuali, così negli Epitrepontes. E questa stessa facoltà di caratterizzare individui è ciò che ci attrae di più nelle poesie mimiche di Teocrito e nei mimiambi di Eroda. Non a caso al principio di questa età sta Teofrasto con i Caratteri che aspirano sì a costruire tipi, ma riboccano di particolari che non possono derivare se non da virtuosa osservazione di singoli individui. Quest'età (già Menandro) sa concepire ogni uomo "come una personalità unica dal cui ethos scaturiscono quasi per necessità interna forme di vita, modi d'espressioni, tutta la maniera di darsi e di rappresentarsi" (Wendland). S'intende bene quindi come questa sia l'età la quale, se non ha creato la biografia, le ha dato tuttavia il massimo sviluppo.
Anche l'arte figurata, se non si può facilmente ridurre a una formula unica, se in servizio dei re ricerca spesso effetti maestosi o affronta problemi giganteschi, come permette la ricchezza accresciuta e concentrata e come conviene alla pompa orientale delle corti, mira tuttavia ancor più spesso, con buon successo, a caratterizzare l'individuale. Essa è grande nel rendere razze esotiche, p. es. i Celti invasori dell'Asia come nel donario di Attalo (v.), o negri, come in operette alessandrine. Motto inespresso di questa "estetica" o meglio di questo gusto è che non vi è nulla, per minuto o per brutto che sia, che non meriti di essere rappresentato: chi non vede l'analogia con lo spirito scientifico che cerca di spiegare il minimo fenomeno, la minima particolarità della natura? Questo stesso realismo "scientifico", che in Eroda non rifugge dal presentare donne che si fanno confidenze intorno a pratiche oscene, non ha scrupolo di rappresentare nelle arti figurate vecchie ubriache e nani deformi: per intendere la grandezza del mutamento basta che noi chiediamo a noi stessi se sarebbero concepibili simili soggetti nel periodo classico. Ed essi sono resi con quanto meno stilizzazione è possibile, il più possibile, a dir così, fotograficamente, illusionisticamente. Dalla stessa radice proviene la predilezione per scene di genere e per nature morte.
Sentimentalità erotica e sentimento della natura. - La letteratura e l'arte sono in questo periodo, in complesso, psicologistiche. Che l'interesse si volga allo studio delle anime singole, dimostra che queste erano spesso complesse e contraddittorie, che l'equilibrio psichico era spesso rotto. E l'età ellenistica è infatti sentimentale. L'amore prende nell'arte e probabilmente nella vita un posto che assolutamente non gli competeva nell'età attica: non sarà caso che proprio in quest'età la passione di una donna, trattata con virtuosità psicologistica, irrompa, contro una vecchia tradizione che aveva avuto sino allora validità di legge (v. epopea greca), anche nell'epos maggiore, con la Medea di Apollonio Rodio. L'amore era stato nell'età attica ancora qualcosa di molto poco complicato: esso aveva per oggetto meretrici straniere, quando il giovane non preferiva di soddisfare le sue voglie con schiave. I matrimonî erano certo quasi sempre combinati, com'era inevitabile finché la donna viveva piuttosto segregata, se pure non in assoluta clausura. Poteva avvenire che l'uomo ammogliato si tenesse, oltre la moglie, una concubina: le gelosie che queste relazioni talvolta suscitavano non dovevano essere molto diverse da quelle che, come si narra, sorgono negli harem in paesi musulmani, benché la concubina non vivesse mai nella stessa casa della moglie. Che la coscienza di Eschilo (v.) consideri adulterio anche il legame dell'uomo ammogliato con altre donne, è singolare eccezione: Menandro, dove negli Epitrepontes si pone il problema della parità di diritti tra l'uomo e la donna, precorre età molto posteriori, e quel problema non è per lungo tempo più ripreso. E in complesso si può ben dire che l'amore per la donna (con esclusione dunque di quello pederastico, che è fondamento dell'amor platonico) non è in periodo attico ancora un problema, ch'esso non investe l'anima.
Nel periodo ellenistico la pederastia è scomparsa almeno in Attica dalla società borghese, come mostra, in contrapposto ad Aristofane, la commedia nuova. In Alessandria gli amori maschili, come ci appaiono in tralice in epigrammi specie di Callimaco, caratterizzano una cerchia di bohémiens. Ma meglio che Callimaco, Teocrito mostra che l'amore è divenuto sentimentale. Poco importa (o significa solo una maggiore raffinatezza e complicatezza che del resto non sorprende) che Teocrito paia nel Ciclope mettere egli stesso in burletta questa sentimentalità. Altrettanto sentimentali sono altri suoi eroi dei quali egli certo non pensa di prendersi giuoco. L'Eschine dell'idillio XIV (L'amore di Cinisca) rinunzia alla patria e alla posizione borghese e si fa soldato per colpa di un amore sfortunato. Uomini e donne, che per amore infelice si trascurano, passano notti insonni, dimagrano, s'incontrano nella raccolta dei Bucolici a ogni piè sospinto. Il carme di un poeta volgare, L'amatore ( [Teocrito] 23), ha per soggetto un suicidio per amore. È questa stessa amorosa sentimentalità si rispecchia nelle arti figurate, mme mostrano sia opere originali, sia quelle pitture pompeiane che sono sì molto posteriori, ma, com'è pur sempre sicuro per la maggior parte di esse, rappresentano riduzioni o raffazzonamenti di esemplari ellenistici. Anche il mondo tradizionale del mito prende in quest'età un colore sentimentale, che originariamente gli era estraneo. A questa trasformazione dell'amore avrà contribuito l'innalzamento della posizione sociale della donna, l'accrescimento della sua libertà. Ma anche qui, come nella lingua, l'ellenismo sarà l'erede piuttosto di una tradizione ionica che di una attica: in Attica un libro di poesie per una donna non sarebbe pensabile; sulle coste ioniche Mimnermo aveva scritto una Nanno, Antimaco di Colofone una Lide. Quelli non saranno stati amori sentimentali, ma erano amori per donna, eppure erano ritenuti degni del canto.
Bucolico, cioè sentimentale, è in quest'età anche il sentimento della natura. Anche questa volta si può dimostrare che il gusto ellenistico ha precedenti nel sec. IV. Già agli uomini di quell'età non piacciono più senza distinzione messi e vigneti, prati e oliveti; a essi sorride già solo certo genere di campagna, appunto bucolica. In principio del Fedro, Socrate (p. 230 bc) ascolta la lettura del discorso di Lisia intorno all'amore; sdraiato tra l'erba alta e odorosa al rezzo di un platano presso una fonte chiara e fresca: tutt'intorno stridono le cicale. Il luogo, come mostrano rozzi simulacri, è sacro alle Ninfe e all'Acheloo. Ora il gruppo di amici che meriggia, discorrendo e cantando, disteso tra l'erba all'ombra degli alberi presso una sorgente, ricorre in Teocrito a ogni piè sospinto: il primo idillio comincia descrivendo lo stormire del pino presso la fonte. E anche le pitture pompeiane, specie del secondo stile, hanno molto spesso nel centro un modesto sacello rustico consistente talvolta soltanto in una colonna con sopra la statua o l'erma del dio. Questo centro sacrale del paesaggio non manca mai, si può dire, né nella raccolta dei Bucolici né negli epigrammi dell'Antologia Palatina che descrivono un paesaggio. Fedro (p. 227 segg.) va a passeggio fuori porta specialmente per riposarsi dallo studio che durava da molte ore ininterrotto tra i quattro muri di una stanza, anche, per vero, per riandare in pace le cose studiate. Queste confessioni sono caratteristiche per il nuovo sentimento della natura greca: qui e nella descrizione della gola di Tempe, che in Eliano deriva da Teopompo, l'uomo stanco dell'eccesso di lavoro cerca nella campagna quiete e ristoro; il cittadino stanco di cultura cerca nella natura quel che è primitivo, quel che è più lontano dalla civiltà e dal lavoro il quale con la civiltà si accoppia necessariamente, quel che meno gli ricorda questa civiltà: la pastorizia, non l'agricoltura. Callimaco contrappone nella Ecale la sveglia mattutina degli uccelli all'alba laboriosa e affannosa di una grande città, Alessandria.
Par dunque sicuro, nonostante i dinieghi di un grande storico, che questo sentimento bucolico della natura si colleghi con la vita sempre più rumorosa e complicata delle città grandi, ch'esso sia frutto dell'urbanesimo. L'urbanesimo agisce anche altrimenti sulla vita sociale.
Struttura sociale e urbanesimo. - Della società ellenistica sappiamo assai meno di quel che si attenderebbe a prima giunta, perché neppure dalle migliaia di papiri ritrovati nell'Egitto ellenistico possiamo indurre gran che su tale problema. Che l'intimità della cittadinanza, quale era caratteristica della polis ellenica, doveva andar perduta negl'immensi conglomerati ellenistici per il numero degli abitanti e per la varietà della loro origine, dei loro usi, della loro cultura, si è detto di sopra: Alessandria doveva aver già raggiunto verso la fine del sec. III quel certo numero di 300.000 ab. liberi (forse 400.000 compresi gli schiavi) ch'è attestato per il 60 a. C. E per quanto appaia chiaro che l'idea che una certa scienza classicistica s'era formata della popolazione ateniese del periodo classico come di una cittadinanza che vivesse in nobile ozio, facendosi mantenere dagli schiavi, appaia oggi completamente errata, è certo che la proporzione della popolazione proletaria era nell'Alessandria del sec. IIl molto maggiore che nell'Atene del sec. V o del IV. Atene conosce, si può dire, solo l'industria casalinga, la piccola manifattura, l'ergasterion (ἐργαστήριον), nel quale la forza di lavoro è costituita essenzialmente da schiavi. Alessandria è sede di una grande industria (carta, aromi, unguenti, vetro, tessili); ma qui gli schiavi sono sostituiti per la parte maggiore da lavoranti liberi, certo i più non Elleni, ma indigeni. Alla differenza di nazionalità corrispondeva una differenza di ricchezza. Ma anche tra l'alto funzionario di corte, il dotto o il grande industriale dall'una parte e dall'altra il soldato mercenario o il colono pur greco, doveva ormai essersi stabilita una differenza così profonda come ora tra il signore e il popolano.
Anche nelle città libere, almeno dal sec. II in poi, vi è ormai una classe ristretta di grandi ricchi, spesso, nelle piccole, un solo grande ricco, che benefica lo stato, e contemporaneamente gli presta a condizioni gravose. Anche il raffinamento della cultura materiale doveva rendere molto maggiori le differenze nel tenor di vita. Ma la cultura accomuna e divide sempre molto più che la ricchezza e il lusso: Atene costituisce in certo senso ancora nel sec. IV una cerchia unica; nell'Alessandria del III non si sa immaginare di quali argomenti potessero intrattenersi insieme Callimaco e un piccolo bottegaio o un mercenario greco. Ogni corte è, più o meno, esclusiva. Proprio a quest'età risale probabilmente la distinzione tra persone di "società" e popolo. E la società non si sarà più svolta all'aperto: già il carattere scientifico e tecnico della vita ellenistica esige che si lavori e si studî in ambienti chiusi. E di qui in poi comincia l'abitudine (e divenne presto esigenza, obbligo sociale) che i ricchi invitino a banchetti di gran lusso, diano feste. Il simposio attico era stato per lo più un convito senza pretese, di gente desiderosa di divertirsi. Le feste più pompose sono ora naturalmente quelle della corte.
La donna era stata sempre in Macedonia molto più libera che in Attica, e nella nuova società prevale per questo rispetto l'influsso macedone. Le classi alte sono, come l'esperienza di ogni giorno insegna, molto meno serve di piccoli riguardi e di gelosie che la borghesia e il popolo; e le principesse ellenistiche si sono mosse con altrettanta libertà che le feminae magnates nel Medioevo. L'ellenismo è un'età in cui la grande politica è fatta per buona parte da donne (v. p. es. arsinoe; berenice). I poeti cortigiani ellenistici, Callimaco e Teocrito, ritengono doveroso rivolgere versi rispettosi sì, ma insieme non privi di certa confidenza, a regine e principesse della dinastia dei Tolomei. Ma anche donne che non sono nate sui gradini del trono partecipano ora molto più attivamente alla vita del marito e degli amici del marito: Teocrito accompagna con un carme, il 28, il dono di una conocchia alla moglie del medico Nicia. Un simile dono e un simile canto sarebbero stati impossibili nell'età precedente. E donne, e non soltanto donne del demi-monde, sono membri dei cenacoli dei filosofi (esempî insigni offre la comunità epicurea) e compongono e pubblicano poesie: anche questo sarebbe stato inconcepibile un secolo prima nel mondo ionico-attico, per vero non in quello eolico-dorico, dove la donna aveva sempre conservato una posizione più alta e non era mai stata tenuta in clausura. Che queste donne potessero e volessero essere amate diversamente che nel periodo attico, nel quale la femmina, anche per la deficienza di cultura e di esperienza, non poteva normalmente essere che strumento del piacere o della riproduzione, si intende facilmente. Con questo non si nega che anche per questo rispetto l'evoluzione cominci già nel sec. IV: la raccolta degli oratori ci dà qualche esempio di madri coraggiose che, rimaste vedove, sanno difendere il patrimonio contro le insidie dei parenti, e Senofonte mostra nell'Economico di avere del matrimonio tutt'altro concetto che i suoi conterranei attici; ma sono ancora eccezioni. Anche la scomparsa della pederastia, diciamo così, ufficiale e consacrata si potrebbe considerare connessa con questo innalzamento della donna.
Il trovarsi insieme di persone di sesso differente avrà giovato, come sempre giova, a raffinare il tono della conversazione. La letteratura ellenistica tratta con predilezione di soggetti scabrosi, ma non vi si trovano più gli scherzi osceni del genere di molti di Aristofane: i poeti non potevano più far conto sulla risata ingenua insieme e grossolana. L'ellenismo è anche l'età delle grandes maîtresses. L'età attica non conosce nelle etère altro che carne: Aspasia (v.) è solo apparentemente un'eccezione, perché, straniera, non poté essere se non concubina di Pericle; ma non fu mai meretrice. Le donne dell'ellenismo, che furono amanti di re e li dominarono, ebbero anche spirito, ebbero anche cultura.
Svolgimento greco e influssi orientali: il sincretismo religioso. - I più antichi indagatori, primo fra tutti il Droysen, avevano esagerato, considerando l'ellenismo sin dal suo inizio quale un processo di orientalizzazione del mondo greco. Certo non è così: almeno per i primi secoli lo spirito greco dà all'Oriente molto più che non ne riceva. E abbiamo già veduto quanta parte delle caratteristiche dell'ellenismo continui una linea di evoluzione che si era già disegnata nel sec. IV nella Grecia propria, specie in Attica. Già il sec. IV bandisce l'ideale della cultura, se pure lo attua solo in minima parte, ed esso già propende a identificare grecità con cultura greca, tende cioè a una forma chiara di cosmopolitismo. Già nel sec. IV, appunto per conseguenza della divisione tra colti e incolti, tendono a formarsi almeno due classi sociali, sia pur sempre nell'ambito della polis. Anche se lasciamo da parte la speculazione platonica, già Senofonte riconosce alla donna, alla moglie e alla madre, una dignità di posizione che precorre l'età nuova. L'attico già nel sec. IV tende a fondersi con lo ionico in una lingua comune, se pure la coinè ellenistica va ben oltre nell'accettazione di materiale lessicale ionico. Anche quello stesso genere di sentimento della natura, che appare caratteristico dell'ellenismo, dell'urbanesimo ellenistico, è documentato già in uno dei dialoghi più tardi di Platone. Persino il psicologismo ellenistico trova già un predecessore in Euripide, ch'è in certo senso proprio una personalità ellenistica anticipata. Le dinastie sono macedoni: macedone, non certo orientale, è la tradizione della donna regale che, se lo ritiene necessario, afferra con mano forte il timone dello stato.
Certo sin dal principio non mancano gl'influssi orientali: per cominciare da ciò che più importa, la forma amministrativa dello stato territoriale è sintesi nuova di elementi ereditati da stati orientali: lo stato macedonico non aveva mai avuto tanta popolazione né popolazione così mista. Orientale, particolarmente egizio, faraonico, è il sistema delle imposte e dei monopolî che consente allo stato ellenistico di affrontare compiti ai quali la polis era impari, che gli dà forza e sicurezza sia pure a prezzo dell'infelicità dei sudditi, almeno dei sudditi indigeni delle infime classi, ai quali si succhia il sangue. Orientale, specialmente iranica, è l'istituzione della nobiltà di corte, distinta in gradi; generalmente orientale la pompa della corte, se pur greca è la semplicità del tono nel quale ancora in questa età il suddito greco si rivolge al suo sovrano.
E tutto questo sarebbe già molto. Ma v'è un campo nel quale sin da principio i Greci ricevono più che non diano, nel quale essi si mostrano subito pronti a orientalizzarsi: la religione.
L'uomo ellenistico è, lo abbiamo detto, religioso altrettanto quant'è poco metafisico, esso è spesso molto più polarizzato verso il di là che l'uomo del periodo attico, nel quale la credenza mistica in un oltretomba, non umbratile come l'omerico, ma intenso di vita quanto la vita di qua, e compenso o punizione per questa, è di pochi, nonostante gli orfici, i pitagorici e simili sette e nonostante i miti platonici.
Certo, almeno in principio dell'età ellenistica, almeno nella capitale dei regni nuovi, le classi colte sono razionaliste; Ecateo di Abdera ed Evemero dovevano per le loro opere nelle quali riducevano gli dei egizî e greci a uomini del passato, divinizzati dall'umanità beneficata, potere far conto su un pubblico non facile a scandalizzarsi. E Callimaco e Teocrito, come non erano filosofi, così, nonostante gl'inni del primo (anche l'inno ad Apollo e quello a Demetra, che mostrano com'egli sapesse rivivere i sentimenti di una moltitudine che attende un'epifania divina), non si direbbero in complesso devoti. Per altri, specie nella vecchia Grecia dove la religione popolare era già nel sec. IV superata dagli spiriti più alti, la filosofia avrà tenuto il posto della religione. Ma è caratteristico che il sistema che durante l'ellenismo prese a poco a poco il predominio, che divenne nel mondo romano filosofia, anzi religione ufficiale, che ha forse influito più di ogni altro sul cristianesimo, la Stoa, dovette, nonostante i suoi fondamenti materialistici, promettere quale premio ai migliori, se non l'immortalità, la sopravvivenza al corpo, una sopravvivenza che durerà finché questo mondo non sarà consumato dal fuoco.
Lo spirito ellenistico ha sete di religione. E almeno le classi inferiori dei Greci, che sono socialmente e culturalmente meno lontane dai sudditi non greci, ricercano nei culti orientali soddisfacimento al bisogno religioso che l'adorazione dei loro dei non bastava più ad appagare. Culti privati di divinità straniere anche non greche erano stati sempre tollerati, ogniqualvolta non fossero contra bonos mores, dalla religione della polis: il politeismo non nega le divinità degli altri; tutt'al più confida nell'affetto peculiare e nella maggiore potenza degli dei della propria città, e questi, finché la polis è la forma della vita politica, rimangono per lo meno il nucleo fondamentale del pantheon. Ma nelle capitali nuove le generazioni staccate dalla madrepatria prediligono spesso gli dei che trovano nel paese, per quanto non siano gli dei della propria stirpe: gli dei indigeni hanno agli occhi di un popolo sradicato l'attrattiva del nuovo. Coltivati con speciale zelo sono culti orgiastici, perché appagano meglio sfrenandole, certe sensualità religiose: l'ellenismo è, quanto sentimentale, altrettanto sensuale.
È possibile che i Tolomei abbiano incoraggiato tale sincretismo per cementare in qualche modo le popolazioni varie del proprio impero: certo, il culto, da essi incoraggiato e praticato con devozione anche dai Greci, di Serapide (Σάραπις) pare ormai di origine puramente egiziana. Associazioni religiose venerano Iside nelle isole dell'Egeo, soggette al protettorato dei Tolomei, nella Grecia continentale, dove essi in certi periodi hanno avuto influsso predominante, ma anche sulle coste dell'Asia seleucidica Iside assorbe a poco a poco attributi di tutti gli altri dei, diviene divinità universale, monoteistica. Ma altrettanto successo hanno i misteri delle divinità frigie, con le loro orgie notturne, con le rappresentazioni drammatiche dei casi degli dei, con l'alternarsi rapido di lutto e di gioia: persino l'autocastrazione del sacerdote, pur così ripugnante al sentimento greco, ha forse piuttosto giovato che nociuto alla diffusione di tale religione. Il culto affine della dea sira e di Adonide è già stato cantato da poeti ellenistici (quest'ultimo era del resto penetrato in Grecia nel secolo V). Importanza anche maggiore per la storia della cultura ha avuto la diffusione di culti e concezioni religiose iraniche. La religione di Mitra, ambasciatore del supremo dio della luce e condottiero nella lotta contro le tenebre, originariamente iranica, per quanto segnata delle impronte della teologia astrale di origine caldaica attraverso la quale era passata, deve, prima di giungere a Roma al tempo di Pompeo, avere già conquistato plebi ellenistiche, perché ellenistico è il tipo della rappresentazione figurata in essa più frequente, il dio che uccide il toro. E par sicuro che alle popolazioni greche dell'ellenismo fosse già giunto il mito iranico dell'anima, bandita in terra per una colpa misteriosa, ma che anela e può riuscire a ricongiungersi con il dio celeste.
Convien tuttavia dire che anche la diffusione di dottrine orientali comincia in Grecia nel sec. IV. Uno scolaro asiatico di Platone, l'astronomo Eudosso, ha portato ad Atene notizie della scienza e della religione dei Persiani; l'Epinomide, che è di Filippo d'Opunte, attinge ai Caldei la conoscenza dei sette pianeti e dei tempi delle loro rivoluzioni. L'"anima cattiva" delle Leggi platoniche (X, 896 e) non può essere attinta che da Zoroastro, e significa un capitolare del maggiore pensatore greco ottimista dinnanzi all'Oriente dualistico. Non a caso tra i membri ordinarî dell'accademia di Platone è ricordato un Caldeo. Ma anche quest'evoluzione non giunge al vertice che in periodo ellenistico. L'astrologia, ignota al più antico mondo greco, è nominata quale babilonese, non senza meraviglia, dal medesimo Eudosso e da Teofrasto. Ma la credenza che la sorte degli uomini dipenda dalla costellazione che dominava al momento della loro nascita è, da un certo punto in poi, generale nell'ellenismo, e ha contribuito fortemente alla decadenza dello spirito occidentale: fatalismo e determinismo mortificano la volontà uccidendo il senso della libertà del volere umano. E insieme con l'astrologia penetra dalla Persia nel mondo ellenistico la magia, che nel suo stesso nome conserva la tradizione della propria origine.
Non tutto quello che a prima giunta fa l'effetto di essere orientale è tale veramente. Orientale si considera dai più il culto del sovrano vivente quale dio "presente" o "evidente" (ἐπιϕανής), quale dio "salvatore" o "redentore" (σωτήρ, la parola che nel cristianesimo designa Gesù). E certo l'Egitto venerava il Faraone ancora in vita quale dio. Ma le forme del culto tributato ai Tolomei dai sudditi greci e macedoni sono diverse da quelle del culto egizio. E, quel che più importa, anche lasciando da parte le molteplici eroicizzazioni dell'antica Grecia (v. eroe), anche lasciando da parte la labilità del limite tra dio ed eroe (Eracle è "eroe dio", ἥρως ϑεός), una notizia autorevolissima testimonia che già il vincitore di Atene, Lisandro (v.), ricevette vivo onori divini: e questo alla fine del sec. VI Forse il culto ellenistico del sovrano è veramente sincretistico nel senso più proprio della parola, risulta veramente da una sintesi di elementi greci e di elementi orientali. Al contrario, l'adorazione del "Caso", della Τύχη (noi traduciamo con "Fortuna"), della forza che a suo capriccio distrugge imperi e ne crea di nuovi, se può parere speculazione originale dello spirito ellenistico, turbato e scosso dal subito formarsi e dal subito sciogliersi dei grandi stati nell'età dei Diadochi, ha forse un elemento orientale e iranico. Almeno la Τύχη del re, invocata durante l'ellenismo in giuramenti solenni, è l'equivalente della Karenō (neopers. Khuzzah), "gloria", iranica, della divinità che impersona la maestà del re.
Le fonti sono in questo campo così scarse che siamo spesso ridotti a induzioni dalle condizioni dell'età seguente, imperiale. Ma, nonostante molteplici dubbî su singoli punti, non è dubbio che l'orientalizzazione, che veramente caratterizza gli ultimi tempi della civiltà ellenistica, è cominciata dalla religione. È notevole che uno dei sovrani greci della Battriana, Menandro, abbia avuto il nome di Milinde nella storia del buddismo; che il re Aśoka si vanti di avere mandato missionarî in Siria, Egitto, Macedonia, Epiro, Cirene, quantunque la tradizione occidentale non ci riferisca nulla dei successi di questa missione buddistica.
Bibl.: Sebbene la storia dell'ellenismo abbia cominciato a essere indagata sistematicamente solo un secolo fa, la bibliografia è infinita: qui solo alcuni degli scritti principalissimi. Il termine è inventato dal Droysen, Geschichte des Hellenismus, Amburgo 1836-43 (2ª ed. rifatta, Gotha 1877); sulla storia di esso R. Laqueur, Hellenismus, Giessen 1925. La migliore storia politica, ottima per la parte economica e fondamentale anche per la storia della civiltà e della società è J. Beloch, Griechische Geschichte, 2ª ed., IV, i e IV, ii (Berlino 1925-27): purtroppo termine ultimo è Sellasia. B. Niese, Geschichte der griechischen und makedonischen Staaten seit der Schlacht bei Chaeroneia, Gotha 1893-1903, è utile per la storia politica. J. Kaerst, Geschichte des Hellenismus (I, 3ª ed., Lipsia 1927 e II, 2ª ed., Lipsia 1926), benché consideri la storia della cultura, non è molto utile, perché troppo astratto: felice la caratterizzazione dell'ellenismo, quale civiltà tecnica.
Il primo tentativo di scrivere una storia della civiltà ellenistica è il libro, per certi rispetti ancora fondamentale, di W. Helbig, Untersuchungen über die campanische Wandmalerei, Lipsia 1873, che parte dalla ricostruzione dei modelli ellenistici delle pitture pompeiane. Di grande valore: U. Wilamowitz, Staat und Gesellschaft der Griechen, Berlino 1923, 142 e segg.; id., Hellenistische Dichtung in der Zeit des Kallimachos, Berlino 1924, I (limitato al sec. III).
Fondamentale P. Wendland, Die hellenist.-röm. Kultur in ihrem Beziehungen zu Judentum u. Christentum (2ª ed., Tubinga 1912), che studia in primo luogo gl'influssi dell'ellenismo sul giudaismo e sul cristianesimo, ma con grandissima larghezza di spirito. G. Pasquali, Orazio lirico, Firenze 1920, tratta invece dell'ellenismo con speciale riguardo alle relazioni con l'età augustea: sul sentimento della natura p. 532 segg.
U. Wilcken e L. Mitteis, Grundzüge und Chrestomathie der Papyruskunde (Lipsia 1912), è la miglior sintesi intorno all'Egitto ellenistico sul fondamento della conoscenza completa del materiale papirologico immenso già allora pubblicato; più recente W. Schubart, Einführung in die Papyruskunde (Berlino 1918). U. Wilcken aveva precedentemente nella raccolta dei Griechische Ostraka Ägyptens und Nubiens (Lipsia 1899) studiato esemplarmente l'organizzazione finanziaria di quel paese (gli ostraka sono cocci sui quali si scrivevano le ricevute delle tasse). Sulla lingua e la letteratura, v. grecia: Lingua; Letteratura; sulla sopravvivenza dei linguaggi indigeni nell'Asia minore, K. Holl, Hermes, XLIII (1908) 240.
Per il sentimento della natura quale si rispecchia nel paesaggio, M. Rostowzew, Hellenistisch-römische Architectur-Landschaft, in Römische Mitteilungen, 1911.
Per le relazioni con l'Oriente W. Weber, Der Siegeszug des Hellenismus in Orient, in Antike, I (1925) p. 101 segg. v. inoltre battriana; india.
Su precedenti psicologistici dell'ellenismo nella letteratura del sec. IV, A. Rostagni, Poeti alessandrini, Torino 1915, p. 1 segg.
Sulla religione, oltre al Wendland, Fr. Cumont, Le religioni orientali nel paganesimo romano (trad. L. Salvatorelli, Bari 1913: 4ª ed. dell'originale francese, Parigi 1929), che partendo dal periodo romano si rifà a rappresentare gl'inizî della penetrazione orientale nel tempo ellenistico. Per le concezioni iraniche, specie per il mito iranico delle anime, R. Reitzenstein, in una serie di volumi; più riassuntivo di ogni altro, Die hellenistischen Mysterienreligionen, 3ª ed., Lipsia 1927; inoltre R. Reitzenstein e H. H. Schaeder, Studien zum antiken Synkretismus aus Iran und Griechenland, Lipsia 1926, molto audace, sull'astrologia ellenistica, Boll-Bezold, Sternglaube und Sterndeutung, 4ª ed., Lipsia 1931. Sul culto del sovrano, oltre allo scritto fondamentale di P. Wendland, in Zeitschrift für neutestament. Wissenschaft, V, 335 segg., v. da ultimo (la produzione è su tale questione abbondante), O. Immisch, Zum antiken Herrscherkult (Das Erbe der Alten, II, 20), Lipsia 1921. Per l'Accademia e Zoroastro, W. Jaeger, Aristoteles, Berlino 1923, p. 133 segg. Sulla Tyche-Karenō, W. Jaeger, in Hermes, XLVIII (1913), 443.