MASINI, Eliseo
– Nacque a Bologna nella seconda metà del XVI secolo.
Entrato nell’Ordine dei frati predicatori il 3 ag. 1584, il M. fu dichiarato studente formale l’11 marzo 1589 e lettore approvato il 10 marzo 1590. Iniziò allora la sua carriera di teologo nell’Ordine e, secondo Fantuzzi, insegnò nei conventi di Venezia, Faenza e Bologna, cui D’Amato aggiunge anche la sede di Modena. In ogni caso, il M. risulta nel convento di S. Andrea di Faenza dal 1596, come vicario dell’inquisitore Alberto di Lugo e come lettore di teologia. A Faenza, dove si era scatenata in passato una dura repressione antiereticale, il M. rimase almeno fino all’agosto 1598. In quel triennio (o forse già prima, a Bologna) conobbe padre Agostino Galamini, maestro in molti conventi e inquisitore a Brescia nel 1592, a Genova dal 1597 al 1600. Nominato commissario del S. Uffizio nel 1604, Galamini scelse come proprio socio il M., che giurò il 13 apr. 1605. In quella veste girò per molti conventi domenicani dell’Italia centrale. Quando Galamini fu promosso maestro del Sacro Palazzo, il S. Uffizio (in cui sedeva il cardinale Pompeo Arrigoni, al quale il M. era legato da vincoli di clientela) scelse il M. per la carica di giudice della fede del distretto di Ancona (29 ag. 1607), dove successe al confratello Giovanni Paolo Nazari.
Il M. tardò a trasferirsi nella Marca, tanto che Nazari restò a guidare il tribunale anconetano fino all’8 febbr. 1608. Già nei primi giorni del suo incarico, il M. dimostrò energia: chiese e ottenne dal governatore il trasferimento alla corte inquisitoriale di una causa di bigamia e si prodigò nel controllo dei marinai inglesi presenti nel porto, accusati di mangiare carne nei giorni proibiti insieme con un gruppo di cattolici. A Macerata mise sotto inchiesta per sortilegio alcuni frati francescani e processò tal Girolamo Buratti, reo di possedere carte diaboliche. Non inferiore fu l’impegno per il controllo della locale comunità ebraica e della stampa. Il M. infatti bloccò la circolazione di un ritratto di Fulgenzio Manfredi, edito a Venezia e distribuito dal libraio Francesco Manolesso, e il 16 ottobre suggerì di non pubblicare le disposizioni in materia di stampa emanate dalla Congregazione: si otteneva di più, scrisse, con la vigilanza continua dei librai e della dogana e «con gli ordini già dati da me privatamente a detti officiali et rinfrescati con la continua diligenza […] che si usa» (Città del Vaticano, Arch. della Congregazione per la Dottrina della Fede, Stanza storica, DD 2-b: Lettere degli inquisitori di Ancona, 1608, cc. n.n.). In giugno fece pubblicare l’editto, ma la sua solerzia giudiziaria urtò presto contro i poteri diocesani locali. In aprile il vescovo di Recanati e Loreto lamentò che una donna fosse stata inquisita in Ancona pur essendo sottoposta alla giurisdizione dell’ordinario. A Loreto, fece sapere il M., vi era una consulta di dottori che svolgeva funzioni inquisitoriali, ma il vescovo pretendeva di presiederla. «Ciò richiede – puntualizzò – per legge ordinaria, il che pare non convenga assolutamente a questa Inquisitione» (ibid.). I cardinali del S. Uffizio suggerirono moderazione e rispetto delle prerogative vescovili; e tuttavia il M. continuò ad agire con molta libertà. In giugno comunicò a Roma che Bartolomea d’Alessandro, una ex meretrice, era stata condannata alla penitenza «di stare avanti la porta della chiesa», un castigo duro ed esemplare. La commutazione della pena era giunta solo quando la donna, convinta dall’inquisitore, aveva accettato di prendere marito: conversione che era stata di «buon essempio di tutta la città di Recanati» (ibid.). In breve tempo il M. riuscì anche a stabilire personali vincoli di clientela, e così in aprile chiese per il notaio del S. Uffizio, il maceratese Massimo Canti, un posto di canonico nel duomo della città. Operò anche a Osimo e a Roccacontrada, e in novembre mise sotto inchiesta un terziario cappuccino di Ascoli, reo di avere detto che «li turchi, gli hebrei e tutti gli altri infedeli si salvano senza il battesimo» (ibid.). Il soggiorno del M. in Ancona, tuttavia, non fu facilitato dai rapporti con i domenicani della città, tanto che il 5 ottobre egli lamentò con Roma che il priore avesse chiesto all’ufficio inquisitoriale la restituzione di una stanza del convento già adibita a carcere. Nessuno dei frati del luogo, inoltre, aveva accettato di fare da vicario. «Questa Inquisitione – precisò – non è di sì pochi negotij» e sarebbe stata utile «un poco di libertà di potersi pigliare di fuori via un vicario» (ibid.).
Intanto, in estate, il M. aveva chiesto e ottenuto il trasferimento di ufficio. In un primo tempo Arrigoni era riuscito a offrirgli la sede di Como; tuttavia il 3 luglio il M. aveva rifiutato con garbo l’incarico, mostrando di preferire il posto vacante a Mantova. I desideri del frate furono esauditi, forse grazie all’appoggio di Arrigoni e Galamini (eletto nel 1608 priore generale dei domenicani e nel 1611 promosso cardinale), e il 4 ottobre Roma gli comunicò la nomina a inquisitore di Mantova. Arcangelo Calbetti da Recanati giunse ad Ancona il 29 nov. 1608 per sostituirlo e il M. partì.
A Mantova la carriera del M. rischiò di essere compromessa da un grave abuso compiuto dal vicario da lui scelto (forse una violazione del segreto del tribunale). È noto che il frate, di nome Bartolomeo, fu condannato a dieci anni di galera, e che il M. stesso il 28 apr. 1610 fu convocato a Roma per ricevere un’ammonizione dai cardinali del S. Uffizio (20 maggio), che approfittarono del caso mantovano per ammonire tutti i giudici della fede «ut deputent sibi vicarios idoneos et fideles, et illis […] deferantur iuramentum fidelitatis et silentij servandi in causis Sancti Officij» (Ibid., Decreta, 21 genn. 1610). La faccenda tuttavia si chiuse a quel punto, e il M., ottenuta in quell’occasione la conferma del trasferimento alla più prestigiosa sede di Genova (dove l’anno prima era succeduto a Battista Penna da Finario), ebbe da allora in avanti maggiore cautela nella scelta dei collaboratori. A Genova non solo deputò come vicario Arcangelo da Rivalta, priore non in S. Domenico, sede del tribunale, ma nel secondo convento cittadino dei padri predicatori, quello di S. Maria di Castello, ma fece anche pubblicare una Breve informatione del modo di trattare le cause del Santo Officio per i reverendi vicarij della Santa Inquisizione, instituiti nel serenissimo & catolico dominio della Repubblica di Genova & ne’ luoghi dell’una & dell’altra Riviera (Genova 1612).
Il testo uscì a nome del M., ma si trattava di una delle tante ristampe di una pratica in volgare per i vicari del S. Uffizio le cui prime versioni apparvero a nome dell’inquisitore di Bologna Pietro M. Festa (1604), di Milano Innocenzo Granello (1608) e di Modena Michelangelo Lerri (1608). Sempre in quegli anni fu distribuita a livello locale un’analoga istruzione per i vicari con diverso titolo, opera di Arcangelo Calbetti (1604). Dopo il 1612 la Breve informatione conobbe altre edizioni per mano dell’inquisitore di Parma Benedetto da Bistagno (1628), di quello di Torino Girolamo Rebiolo (1629) e di quello di Pavia Giovanni D. Boero (fine del XVII secolo). E un testo per i novelli vicari sarebbe apparso a Roma ancora nel 1752, per le cure di Pierantonio Gherardi. Nove anni dopo l’edizione genovese, il M. fece rifluire gran parte della Breve informatione nei capitoli I, II e V della prima edizione del suo Sacro arsenale.
Negli anni in cui fu giudice della fede a Genova, il M. seppe agire con fermezza ma senza suscitare significativi conflitti con il governo della Repubblica, che poté godere, come Venezia, del privilegio di avere propri rappresentanti laici per assistere alle sedute del tribunale e si mostrò sempre geloso custode della giurisdizione civile. Nel 1618 una breve schermaglia accompagnò l’apertura di una causa per «stregarie» avviata dal vicario di Taggia, che si era visto rifiutare il braccio secolare dal podestà del luogo. Il M. implorò aiuto a nome del suo sottoposto «per poter convenevolmente procedere contro alcune reputate streghe, massime in Triora» (dove nel Cinquecento erano avvenuti episodi analoghi), e la Repubblica a quel punto richiamò all’ordine il suo podestà (Arch. di Stato di Genova, Arch. segreto, b. 1095, n. 25). In cambio della continua collaborazione, il M. destinò i condannati al servizio nelle galere con una certa frequenza.
Fu il caso di un terziario francescano che spacciava doti di esorcista e operava «col fare anco spogliare nude le donne e toccar loro nel letto tutte le parti […] vergognose» (ibid., b. 1096, n. 191, 29 genn. 1624); l’uomo fu condannato a dieci anni di remi, ma continuò a curare persino a bordo delle navi.
Il M. si dedicò anche alla riconciliazione di molti rinnegati e di alcuni soldati eretici delle guarnigioni di stanza a Savona e si prodigò per rafforzare l’azione del tribunale in Corsica, destinandovi come vicario un frate, Vincenzo da Sestri Levante, maestro di teologia e suddito della Repubblica (1620), poi sostituito da Benedetto Giustiniani. Fu proprio in quegli anni, e grazie all’appoggio dell’ufficio inquisitoriale del M. e del vescovo di Ajaccio, Fabiano Giustiniani, fratello del vicario del S. Uffizio Benedetto, che i domenicani rafforzarono la loro presenza nell’isola.
Dall’attività di giudice, il M. trasse ispirazione per compilare quello che restò per molto tempo il solo manuale in volgare destinato ai giudici del S. Uffizio romano: il Sacro arsenale overo Prattica dell’officio della Santa Inquisitione (Genova 1621).
Il successo fu quasi immediato, anche perché il testo si presentava come un vademecum d’ufficio privo del consueto e sovrabbondante commento alle fonti bibliche, giuridiche e teologiche che, ancora nella prima metà del Seicento, appesantiva le pratiche e i testi di diritto inquisitoriale. Inoltre il S. Uffizio romano non poteva vantare né le istruzioni in volgare che la Suprema spagnola fece distribuire sin dalla nascita ai giudici di distretto, né le guide o i compendi che autori come Diego de Simancas o Pablo García avevano compilato negli anni Sessanta del XVI secolo. Il Sacro arsenale colmava dunque un vuoto editoriale grazie a un sapiente collage compilato a partire dalla Breve informatione per i vicari e dalle lettere circolari che la congregazione, dagli anni Ottanta del Cinquecento, aveva inviato ai giudici locali per mettere a conoscenza i singoli uffici del tribunale delle proprie prescrizioni amministrative o giudiziarie.
Due anni dopo il M. chiuse un processo per stregoneria che lasciò insoddisfatta la congregazione del S. Uffizio: mancavano le prove del maleficio, era stata accettata senza alcun riscontro la chiamata di correo degli imputati ed erano stati inviati a Roma dei sommari della causa quasi inservibili. Secondo Romeo, si può ipotizzare che quell’incidente (non il primo nella carriera del M.) lo abbia spinto a compilare una seconda e definitiva versione dell’Arsenale (Genova 1625). Infatti, pur senza citare la fonte, nella parte VII del testo ampliato il M. inserì la traduzione compendiata di un documento inquisitoriale che circolava manoscritto già da alcuni anni: l’Instructio pro formandis processibus in causis strigum, sortilegiorum et maleficiorum, breve pratica di grande moderazione e sapienza giudiziaria assemblata anni prima da un ignoto e autorevole membro del S. Uffizio romano (forse Desiderio Scaglia, forse Giulio Monterenzi) per contrastare la credulità nel sabba e nei malefici e per frenare gli abusi dei giudici e degli esorcisti impegnati nella caccia alle streghe. L’Instructio, che fino a quel momento era circolata manoscritta, avrebbe conosciuto altre impressioni, non prive di varianti; ma fu il M. il primo a diffonderne il testo in volgare, forse senza il consenso della congregazione. La versione ampliata del Sacro arsenale – dedicata ad Alessandro Sauli, consultore secolare dell’ufficio di Genova – ebbe molte ristampe (Roma 1639, Genova e Perugia 1653, Bologna 1665 [ed. da cui è tratta: E. Masini, Il manuale degli inquisitori, ovvero Pratica dell’Officio della Santa Inquisizione, a cura di A. Agnoletto, Milano 1990] e 1679). Nel 1693 Tommaso Menghini, uno dei successori del M. come inquisitore di Ancona, inserì nel testo le proprie Regole del tribunale del Santo Officio (già apparse nel 1683) e alcune annotazioni del giurista Giovanni Pasqualone. Tale versione – che metteva insieme i manuali in volgare del M. e di Menghini (che non partiva dalla procedura ma da una casistica ed era destinato ai vicari) – conobbe ristampe nel 1705, nel 1716, nel 1730 e nel 1872.
Nella versione del 1625, il Sacro arsenale è diviso in dieci parti, precedute da due dediche (a Pietro da Verona, il santo martire dell’Inquisizione, e agli altri giudici della fede) e da una breve prefazione. Le prime otto parti affrontano la natura e gli scopi del S. Uffizio e le diverse fasi del processo (nella settima si parla di streghe e di poligami). La nona aggiunge ai precedenti prontuari per la registrazione degli atti le formule per le patenti dei familiari e quelle per il giuramento dei funzionari. La decima è composta di trecento avvertimenti per i giudici che toccano questioni procedurali come la definizione e i gradi dell’eresia, i delitti di competenza del tribunale, i rapporti con i confessori, i vescovi e i magistrati secolari, la scomunica, la comparizione, la detenzione, la tortura, l’abiura, la sentenza e le pene.
Tra gli ultimi atti significativi del M., vi fu la condanna alla pubblica abiura di un relapso e di un gruppo di carcerati nel febbraio 1627. Il 13 ag. 1627 il cardinale segretario del S. Uffizio, Giovanni Garzia Millini, comunicò al doge di essere a conoscenza del cattivo stato di salute del M., al quale, entro l’11 settembre, successe nella carica di inquisitore Vincenzo Maculano da Firenzuola.
Il M. morì a Genova tra la fine di agosto e i primi di settembre del 1627.
Al M., Fantuzzi attribuisce anche le Orationes variae e La Salve Regina isposta (entrambe Genova 1624). Il fatto che l’autore compaia nel frontespizio con il nome di Cesare, e non con quello di Eliseo, viene spiegato presumendo che si tratti del suo vero nome di battesimo modificato dopo l’ordinazione. Nulla avvalora una simile congettura e un breve appunto datato 28 febbr. 1620 (Arch. di Stato di Genova, Arch. segreto, b. 1094, n. 81) attesta che il M. aveva un fratello, anch’egli domenicano, proposto in quell’anno alla carica di priore di un convento dei padri predicatori di Genova (S. Domenico oppure S. Maria di Castello), cui spetta la paternità delle due operette di devozione.
Fonti e Bibl.: Bologna, Arch. di S. Domenico, Serie III, 72000: Receptiones ad habitum in conventu Bononiensi ab anno 1543 ad annum 1695, c. 3v; Città del Vaticano, Arch. della Congregazione per la Dottrina della Fede, Stanza Storica, DD 2-b: Lettere degli inquisitori di Ancona, 1608; Decreta, 1604-1605, 1607, 1610; Arch. di Stato di Ravenna - Sez. di Faenza, Congregazioni religiose, Domenicani di S. Andrea, X, 2: Liber consiliorum 1459-1657, cc. 73v, 74r, 76v, 77v, 78v, 84r; X, 84: Inquisizione di Faenza, c. 7r; Arch. di Stato di Genova, Mss., 178: Pandetta sopra pratiche giurisdizionali per S. Ufficio, p. 1; Arch. segreto, bb. 1093, n. 35; 1094, nn. 72-73, 75, 81, 95, 109, 119, 124, 135, 138, 140; 1095, nn. 3-4, 11, 15-16, 19, 25, 35, 39, 49, 53, 58, 65 bis, 67-68, 75-78, 80-81, 83, 85-88, 99, 109; 1096, nn. 158-160, 172, 175, 187-188, 190-191, 198, 200-201, 206, 213, 215; 1097, nn. 17, 25, 34, 54, 64, 73, 87, 98, 111, 113; 1098, nn. 196, 200, 206, 250, 253, 264, 267-268, 277-278, 282; Alessandria, Biblioteca civica, Mss., 67: D.F. Muzio, Tabula chronologica inquisitorum Italiae, cc. 45r, 123r; 127v; Genova, Biblioteca universitaria, Mss., B.VIII.4: T. De Agostini, Elenchica Synopsis idest Strictum ac verum compendium fundationis, incrementi, obligationis et redditus celeberrimi conventus Divi Dominici Ianuae, p. 219; Misc. Lig., D-41-16 (editto del M., 3 genn. 1623); V.M. Fontana, Sacrum theatrum Dominicanum, Romae 1666, p. 589; J. Quétif - J. échard, Scriptores Ordinis praedicatorum recensiti notisque historicis et criticis illustrati, II, 2, Lutetiae Parisiorum 1721, c. 448r; G. Fantuzzi, Notizie degli scrittori bolognesi, Bologna 1786, V, pp. 358 s.; Materials toward a history of witchcraft, a cura di H.Ch. Lea, Philadephia 1939, II, pp. 950 s.; R. Creytens, Il registro dei maestri degli studenti dello Studio domenicano di Bologna (1576-1604), in Archivum fratrum praedicatorum, XLVI (1976), p. 56; E. Van der Vekene, Bibliotheca bibliographica historiae Sanctae Inquisitionis, I, Vaduz 1982, pp. 45 s.; G. Ruffini, Sotto il segno del Pavone. Annali di Giuseppe Pavoni e dei suoi eredi, 1598-1642, Milano 1994, ad ind.; T. Heydenreich, «Quelli che offendono le persone del Santo Offitio…». Il Sacro arsenale di E. M. e le basi giuridiche per la condanna di Diego La Matina, in Il «tenace concetto». Leonardo Sciascia, Diego La Matina e l’Inquisizione in Sicilia. Atti del Convegno di studi, Racalmuto… 1994, a cura di V. Sciuti Russi, Caltanissetta 1996, pp. 155-164; A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino 1996, ad ind.; A. D’Amato, I domenicani a Faenza, Ozzano Emilia 1997, p. 96; J. Tedeschi, Il giudice e l’eretico. Studi sull’Inquisizione romana, Milano 1997, ad ind.; A. Zencovich, Sacro arsenale: il manuale di padre E. M. e la secolarizzazione dell’attività del S. Ufficio nel corso del Seicento in Italia, in Quaderni dell’Aprosiana, n.s., VI (1998), pp. 59-78; A. Errera, Processus in causa fidei. L’evoluzione dei manuali inquisitoriali nei secoli XVI-XVIII e il manuale inedito di un inquisitore perugino, Bologna 2000, ad ind.; G. Fragnito, The central and peripheral organization of censorship, in Church censorship and culture in early modern Italy, a cura di G. Fragnito, Cambridge-New York 2001, p. 35; Id., Proibito capire. La Chiesa e il volgare nella prima Età moderna, Bologna 2005, ad ind.; A. Del Col, L’Inquisizione in Italia dal XII al XXI secolo, Milano 2006, ad ind.; P. Fontana, M., E., in Diz. stor. dell’Inquisizione, a cura di A. Prosperi, II (in corso di stampa); G. Romeo, Inquisitori domenicani e streghe tra la metà del Cinquecento e i primi decenni del Seicento, in I Domenicani e l’Inquisizione romana (in corso di stampa).