QUERINI, Elisabetta
QUERINI, Elisabetta. – Nacque a Venezia il 12 novembre del 1628, dal patrizio e procuratore di S. Marco Polo Querini del prestigioso ramo degli Stampalia di S. Maria Formosa.
Il padre, nato il 24 dicembre 1602, si era sposato nel 1626 con Bianca Ruzzini di Domenico. Elisabetta fu la primogenita della coppia, seguita da Gianfrancesco, venuto alla luce il 9 settembre 1630. Fu registrata come Isabetta e come secondo nome le venne assegnato Paolina, anche se familiarmente fu chiamata Betta. Avevano voluto conferirle quel nome per ricordare la bella e colta antenata, amica di Pietro Bembo, di Tiziano, di Giovanni Della Casa, sposa di Lorenzo Massolo.
Dopo l’educazione in monastero, fu destinata al matrimonio con un patrizio che consentisse di ampliare le relazioni dei Querini. La scelta non dovette essere facile, come traspare dall’età di Elisabetta: al momento delle nozze avvenute l’8 luglio 1649 aveva già superato i vent’anni mentre lo sposo era più giovane di due. Silvestro Valier era nato, infatti, il 28 marzo 1630, discendente dall’antica famiglia patrizia del ramo con palazzo in Cannaregio prima di proprietà della famiglia Gonella, ubicato sulla riva opposta a S. Giobbe, di fronte al ponte dei Tre archi. Elisabetta era conosciuta per la sua virtù e «il vivacissimo suo spirito» (Rovere, 1704, p. 95) che compensavano un’avvenenza forse modesta. Portò in dote la considerevole cifra di 45.000 ducati. Il matrimonio venne celebrato nel palazzo dei Querini a S. Maria Formosa.
Silvestro, figlio di Bertucci e di Benedetta Pisani, mentre la nonna paterna era Bianca Priuli discendente dei dogi Lorenzo e Girolamo, dopo la morte in giovane età del fratello Massimo, rimase l’unico figlio maschio, mentre la sorella Chiara sposò Alvise I Mocenigo. Il padre di Silvestro, colto, letterato, molto ricco e munifico, rivestì cariche importanti, tuttavia non venne mai eletto procuratore di S. Marco, così che diede la possibilità al figlio, l’anno stesso del matrimonio con Elisabetta, di accedere alla carica di procuratore di S. Marco de supra, dietro l’esborso di 25.000 ducati, offerti per le spese della guerra di Candia.
Alla coppia nacque subito un figlio, battezzato a nome Bertucci, che tuttavia morì a soli quattro mesi d’età. Pochi anni dopo, il 15 giugno del 1656, Bertucci padre saliva al soglio ducale e sotto il suo dogato la Repubblica conseguiva un’importante vittoria contro i turchi. Di salute cagionevole, morì due anni dopo, il 29 marzo 1658. Silvestro proseguì il suo cursus honorum, divenendo deputato al magistrato contro la Bestemmia e soprattutto sopraprovveditore all’Arsenale e alle Artiglierie, cariche importanti in tempo di guerra; venne nominato ambasciatore sia straordinario sia ordinario, ottenendo per i suoi meriti il cavalierato, poi fu riformatore dello Studio di Padova e bibliotecario della Libreria Marciana e mecenate e protettore delle accademie padovane Delia e dei Ricovrati.
Nel frattempo i coniugi si facevano conoscere per la loro prodigalità verso i poveri, gli ospedali e i luoghi pii ed Elisabetta iniziava a presiedere ospizi e altri istituti d’assistenza, consolidando la fama di dama virtuosa e caritatevole.
Il 25 febbraio 1694 il marito veniva eletto doge e per Elisabetta, nonostante il divieto in vigore dal 10 gennaio 1645 che proibiva l’incoronazione delle dogaresse, a seguito dei tributi sfarzosi realizzati il 4 maggio 1597 a Morosina Morosini, moglie del doge Marino Grimani, venne ripristinato l’antico cerimoniale previsto per le ‘ducisse’: il 4 marzo fu prelevata dal Bucintoro in cui salì abbigliata con una veste d’oro ornata di zibellini, il velo bianco, il corno ingioiellato e sul petto sfoggiava una collana con una croce di diamanti, così come fu poi ritratta da Niccolò Cassana. Giunta in palazzo ducale, circondata da numerose gentildonne, ricevette sul trono le autorità pubbliche. In suo onore venne coniata un’osella che la raffigurava, incisa da Johann Franz Neidinger.
Fu l’ultima dogaressa a essere incoronata: nel 1700 fu ribadito il divieto di incoronazione specificando inoltre la proibizione al ricevimento di visite ufficiali di ambasciatori, principi stranieri e magistrati veneziani e negando l’uso del cornetto dogale. Gli accademici Ricovrati di Padova pubblicarono per la doppia incoronazione di doge e dogaressa due volumi di rime e prose, il primo rivolto a Elisabetta, con composizioni in onore del marito, mentre il secondo indirizzato a Silvestro Valier conteneva dei panegirici delle qualità femminili, dei quesiti sui ruoli più pertinenti al genio muliebre e delle rime sull’amore coniugale. Ben tre interventi erano scritti da Michele Viero, Lodovico Camposanpiero e Alvise Mussato sul tema della sterilità in lode della dogaressa: stupefacente tributo a una donna e a una coppia priva di discendenza. Il biografo di Valier annotava che dopo aver perso «la speranza di avere ancora prole» il doge «adottò come propri figli gli sudditi» (Rovere, 1704, p. 44).
La fama e l’autorevolezza conquistate da Elisabetta fecero sì che ebbe omaggi piuttosto inconsueti al tempo: ricevette dopo l’incoronazione il nunzio apostolico Giuseppe Archinto, l’ambasciatore di Francia, il patriarca di Venezia Giovanni Alberto Badoer, il vescovo di Padova Gregorio Barbarigo e il patriarca di Aquileia Giovanni Dolfin. Nel maggio del 1696 fu la volta del nuovo ambasciatore di Spagna, il duca di Parete Francesco Moles, che rivide l’anno successivo in occasione della partecipazione alla morte della regina madre Marianna d’Austria. Anche il legato straordinario di Polonia, l’abate Giovanni Bokum, si recò in visita formale.
Era già patrona di varie istituzioni pie così che appena eletta le fu offerto da parte dell’ospedale degli Incurabili un oratorio; nel 1696 il somasco Francesco Caro le indirizzava come governatrice dell’ospedaletto dei Derelitti l’opuscolo Il fuoco dell’ospitaletto, che ricordava l’incendio che nel 1686 aveva danneggiato l’istituto e tutta la zona vicino a Ss. Giovanni e Paolo. L’anno seguente il veronese Marco Antonio Rimena le destinava un racconto sacro ricordando «la vostra magnanima e religiosa munificenza […] i luoghi pii restaurati, i santuarii costrutti, i chiostri beneficati, le vergini protette, gl’altari arrichiti, gl’hospitali ampliati» (La madre addolorata, 1697, pp. 7 s.). Dovette dar prova di un carattere deciso tale da varcare i limiti in cui era circoscritto il ruolo della dogaressa e da suscitare voci sulla sua influenza sul marito in merito all’attribuzione di alcune cariche dello Stato (Da Mosto, 1977, pp. 444 s.).
Silvestro Valier, di malferma salute, morì il 7 luglio 1700 e, oltre a lasciare ingenti somme di denaro per istituti pii, poveri, chiese, monasteri, parenti e amici, per la Biblioteca e la stessa Repubblica, destinò 50.000 ducati per l’erezione del monumento sepolcrale che avrebbe dovuto accogliere anche le spoglie della moglie, nonché del padre Bertucci, all’interno della chiesa di Giovanni e Paolo affidandole l’esecuzione. Elisabetta ne incaricò l’architetto Andrea Tirali che realizzò un fastoso mausoleo, non del tutto completato alla sua morte, corredato da statue. Quella raffigurante la dogaressa fu opera di Giovanni Bonazza.
Elisabetta morì il 19 gennaio 1709; il testamento olografo redatto l’11 aprile dell’anno precedente, con un codicillo aggiunto il seguente 1° gennaio, attesta sia la ricchezza dei suoi beni (che comprendevano dieci case, terre a livello, notevoli gioielli), sia un’oculata amministrazione. Con ferma e regolare scrittura enunciò le sue volontà, lasciando erede residuario il cugino «amorevolissimo e stimatissimo» Giovanni Antonio Ruzzini, a cui destinava anche il manto, la sottana, la dogalina e il corno ducale. Alle Zitelle, di cui era governatrice, lasciò la rilevante somma di 10.000 ducati oltre alle sue case di S. Maria Nuova con l’obbligo di disporre del suo funerale, di ricordarla ogni anno nel giorno della sua morte e di collocare il suo ritratto nella sala di riunione della congregazione. Istituì due mansionarie perpetue di 2000 ducati l’una a favore della chiesa dei carmelitani scalzi e di quella di S. Maria Formosa, elargì denari a molti monasteri anche fuori Venezia e a singole monache, beneficiò servitori e damigelle. Distribuì goielli e arredi preziosi alle parenti, mentre procurò di far ritornare in casa Querini alcuni beni e terre che facevano parte della sua dote.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Notarile, b. 346, n. 33 testamento di E. Q.; Venezia, Archivio storico del Patriarcato, Parrocchia di S. Maria Formosa, Registri di battesimo, n.1; Biblioteca nazionale Marciana, G.A. Cappellari Vivaro, Campidoglio Veneto, Cod. It. VII, 17 (=8306), c. 266r., 18 (= 8307), c. 148r; Avogaria di Comun, Matrimoni con notizia di figli. Indice de la penitenza. Oratorio in onore di Santa Maria Maddalena, dedicato alla serenissima dogaressa E. Q. Valier, Venezia 1694; Alla serenissima E. Q. Valiera per l’esaltazione del serenissimo suo consorte gli Accademici Ricovrati, Bologna 1695; F. Caro, Il fuoco dell’hospitaletto dedicato alla serenissima E. Q. Valier dogaressa e governatrice del Pio Conservatorio, Venezia 1696; M.A. Rimena, La madre addolorata; racconto sacro. Dedicato all’eccelsa, ed esemplare pietà della serenissima E. Q. Valier gloriosissima dogaressa di Venetia, Verona 1697; F. Caro, Funera serenissimi principis Syluestri Valerij ducis Venetiarum, serenissimae ducissae uxori Elisabethae Quirinae Valeriae, Venezia 1700; S. Rovere, Vita del serenissimo prencipe Silvestro Valiero doge di Venetia, Venezia 1704; P. Molmenti, La dogaressa di Venezia, Torino 1884, pp. 318-328; A. Da Mosto, I dogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Firenze 1977, pp. 440-451, 587; G. Scarabello, Le dogaresse, in I dogi, a cura di G. Benzoni, Milano 1982, p. 163; G. Werdnig, Le Oselle: monete - medaglie della Repubblica di Venezia, Trieste 1983, p. 166; O. Premoli Taiti, La dogaressa, in Il serenissimo doge, a cura di U. Franzoi, Treviso 1988, pp. 282 s.; S. Lunardon, Le Zitelle alla Giudecca: una storia lunga quattrocento anni, in Le Zitelle: architettura, arte e storia di un’istituzione veneziana, a cura di L. Puppi, Venezia 1992, pp. 34 s.; M. Casini, Cerimoniali, in Storia di Venezia, VII, La Venezia barocca, Roma 1997, p. 121; L’accademia in biblioteca: scienze lettere arti dai Ricovrati alla Galileiana, a cura di P. Maggiolo - L. Viganò, Padova 2004, pp. 106 s., 184 s., 248; Museo Querini Stampalia Venezia, a cura di B. Trevisan, Venezia 2010, p. 89; F. Molin, L’immagine della Dogaressa di Venezia tra arte e storia, in Ateneo Veneto, CC (2013), 12, 1, pp. 315 s.