ELISABETTA Farnese, regina di Spagna
Nacque a Parma il 25 ott. 1692 da Odoardo Farnese, primogenito del duca Ranuccio II, e da Dorotea Sofia di Neuburg, a sua volta figlia dell'elettore palatino Filippo Guglielmo e sorella della vedova di Carlo II di Spagna.
Poco si sa di preciso sui suoi primi anni: nel 1693 le morì, ancor piccolo, l'unico fratello e nel giro di pochissimo, anche il padre, "oppresso… e dall'esorbitante pinguedine suffocato", come recitano le cronache (cfr. G. Poggioli, Mem. stor. di Piacenza, t. XII, Piacenza 1766, p. 160), patologia ereditaria emergente negli epigoni, soprattutto maschili, della casata. Si ritenne opportuno che le influenti relazioni e la consistente dote di Dorotea Sofia non andassero disperse: nel giro di pochissimo tempo essa convolò a seconde nozze con il cognato Francesco, più giovane di lei di diciott'anni ed erede della successione al Ducato dopo la morte del padre Ranuccio. Nonostante i trent'anni di convivenza e le zelanti cure eseguite allo scopo il matrimonio resterà sterile: tuttavia proseguirà sereno e - per gli standards principeschi - bene assortito. Di fatto, però, l'assenza di discendenza maschile renderà E. unica erede del casato consolidando sempre più i legami, anche affettivi, con lo zio e patrigno: l'ininterrotto epistolario intercorso tra i due sarà contrappunto costante anche degli anni in cui la giovane principessa parmigiana sarà divenuta protagonista di primo piano in ben più ampi scenari. Il legame sicuramente sottendeva più che un affettuoso rispetto formale da parte di lei e, da parte di lui, più che un interesse dai risvolti utilitaristici verso l'unica componente dei Farnese su cui si concentrassero le residue ambizioni della casata. Non per nulla il cardinale Giulio Alberoni, durante gli anni in cui E. sedeva già sul trono di Spagna, avrà a dire più volte che il duca Francesco era l'unica persona vivente verso la quale la regina provasse un reale interesse d'affetto.
E. trascorse l'infanzia e la prima giovinezza tra Parma e Piacenza: una vita tranquilla che l'abilità politica dei duchi e la speciale protezione dei pontefici romani contribuirono a conservare in anni gia difficili per la penisola italiana. Quanto all'educazione impartita alla giovane Farnese non sappiamo nulla di certo: nelle più tarde lettere del patrigno al cardinale Alberoni se ne descrivono le grandi doti intellettuali: venne educata a leggere e scrivere latino, francese, tedesco, a dedicare molte ore di studio ai libri di religione e di storia. Ma si ha la sensazione che il ritratto sia tracciato sovratono e che l'immagine spietata - anche se di parte -che emerge di lei dalle pagine del Saint-Simon sia alquanto più veritiera: mediocre intelligenza non scevra da una notevole furbizia, mancanza di reali gusti intellettuali, assenza di capacità di acquisirne a petto di un temperamento tanto volitivo quanto bene celato. Le sue letture resteranno limitate ai libri religiosi anche nel prosieguo della sua esistenza: la totale ignoranza dei meccanismi politici costituirà indubbiamente un grosso impedimento ad afferrare i dettagli di una reale azione di governo. Le sue vere passioni sembrano essere state la danza e il ricamo. Tutto ciò era, d'altronde, naturale per una fanciulla che tutto sembrava destinare ad un matrimonio nell'ambito della nobiltà di provincia o, al più, di una corte europea di secondo piano.
L'esistenza tranquilla dei Farnese - divisa tra la Pilotta di Parma e la residenza di Piacenza - dovette subire per tutti un brusco ridimensionamento con lo scoppio della guerra di successione spagnola (1701): meno spettacoli teatrali di musici e buffoni - grande passione della famiglia -, entrate ducali spese in buona parte per finanziare ambascerie e visite di cerimonia a principi e generali di passaggio in Italia, nel tentativo di mantenere i buoni rapporti indispensabili per la sopravvivenza dei Ducati. Ma proprio in questi anni la difficile neutralità del Farnese dovette soccombere alla fine davanti alla pressione delle armate straniere che dell'Italia padana facevano teatro dei loro scontri. Nonostante i diffusi sentimenti antiaustriaci della corte, fu giocoforza orientarsi per gli Imperiali, già preannuncio di quel generale assetto che nel trattato di Utrecht (1713) troverà ufficializzazione definitiva.
In questa fase solo l'abilità diplomatica di Giulio Alberoni, già ben introdotto presso Filippo V grazie alla solida amicizia con Louis Joseph de Vendôme, duca di Penthièvre, fece sì che i legami tra corte farnese e Spagna non si interrompessero del tutto: a Parma rimase un incaricato d'affari spagnolo che in veste ufficiosa continuò a tenere le fila di un rapporto difficile in attesa che le reali simpatie del duca e dell'Alberoni stesso assumessero contorni più scoperti e portata più consistente.
Quanto a E., ancora lontana dagli intrighi della politica, fu tuttavia toccata personalmente dalla guerra o, meglio, da ciò che spesso la guerra dell'epoca portava con sé: il contagio scoppiato nell'Italia padana al seguito degli eserciti tedeschi. Nel 1710 contrasse il vaiolo in forma acuta al punto da fare temere per la sua vita. Di costituzione robusta, lo superò ma rimase segnata dalle "vaiole … principalmente sopra del volto et braccia e in quantità non mediocre …" (Casa e corte farnesiana, b. 41, fasc. 1, c.4). La cosa dovette preoccupare non poco sia lei sia lo zio e tutore per gli inevitabili riflessi negativi sulle sue aspirazioni matrimoniali. Ad E., comunque, non dovettero mancare gli estimatori: il principe di Piemonte e il cugino, il duca di Modena, ad esempio, intavolarono trattative per ottenere la sua mano. Ma, nel 1714, la sua vita doveva subire una svolta imprevedibile.
Il 14 gennaio moriva, appena ventiseienne, Maria Luigia di Savoia, moglie di Filippo V re di Spagna, a sua volta nipote di Luigi XIV di Francia. Lasciava un popolo che le era affezionato, un marito cui aveva dato due eredi maschi, cui una presenza femminile al fianco era indispensabile e che la prematura perdita lasciava addolorato anche se "un peu à la royale" (Saint-Simon, X, p. 178). Era scontato, comunque, che il re ben presto si sarebbe scelto una nuova moglie: da un lato, indole sensuale unita ad una coscienza eccezionalmente scrupolosa, facile preda di depressioni se lasciato a sé stesso, dall'altro ancora giovane ma troppo moralista per legarsi ad un'amante ufficiale. Insomma, la diplomazia europea era subito stata attentissima alle mosse di questo sovrano, che l'ambasciatore veneziano N. Erizzo (III) avrebbe più tardi lapidariamente definito "amantissimo delle mogli".
Pare che già durante le esequie di Maria Luigia di Savoia corressero i primi discorsi relativi alla futura regina di Spagna. Ovviamente non mancavano le candidate: due principesse Savoia - Maria Vittoria e Isabella Luigia -, una principessa portoghese e la figlia dell'elettore di Baviera, scelta quest'ultima caldeggiata dalla regina madre. A tutti era chiaro, comunque, che qualsiasi candidata avrebbe dovuto superare il passaggio obbligato dell'approvazione preventiva di Maria Anna de la Trémouille principessa Orsini, a suo tempo designata dal re di Francia come "camarera major"della prima moglie di Filippo V, ben presto divenuta arbitra e padrona delle volontà reali e, per loro tramite, vera eminenza grigia di tutta la Spagna. Sarà tutto merito dell'Alberoni l'avere mondanamente corteggiato e a poco a poco insinuato con abilità presso la potente favorita che la giovane principessa Farnese presentava le garanzie migliori: italiana, in omaggio alla memoria della defunta, buona compagna ma aliena dalla politica, poco intelligente, non istruita, non bella perché segnata dal vaiolo, allevata alla buona in una corte di provincia e - vantaggio non ultimo - erede del ducato e dei diritti alla successione di Toscana come discendente di Margherita de' Medici moglie di Odoardo. Erano tutte ottime credenziali agli occhi dell'Orsini che poteva sperare, così, di conservare il proprio potere alla corte spagnola. Tra l'anziana dama e l'Alberoni i contatti si fecero via via più stringenti, finché nel giugno 1714 l'abate poteva comunicare in gran riservatezza a Parma il confortante messaggio: "… fatta matura riflessione sopra quanto le avevo detto della signora Principessa di Parma, trovava [l'Orsini] che avevo ragione di dire che fra quante si presentassero questa era quella che più conveniva al Re di Spagna." (Carteggio farnesiano estero, b. 132, fasc. 10, lettera 11 giugno 1714).
Si vollero bruciare le tappe dell'operazione per evitare reazioni e ripensamenti: Luigi XIV, informato da un dispaccio dell'Orsini, diede il suo assenso anche se sorpreso dalla decisione improvvisa. Soprattutto ne fu visibilmente soddisfatto il pontefice che da tempo considerava le vicende farnesiane riflesso delle proprie possibilità politiche. Il card. F. Acquaviva d'Aragona, inviato da Filippo V, arrivò così il 30 luglio di quell'anno a Parma confortato dalla sicura approvazione di Clemente XI. Il 25 agosto fu firmato il contratto nuziale.
La dote di E. ammontava a 100.000 doppie, computando in esse anche il valore dei gioielli. Inoltre, "a tant'onore di degnanza un tanto Genero, pensò il Farnese corrispondervi alla men con promesse, unendo alla dote la sostituzion, l'eredità eventuale di questi stati per sopradote" (Informationshistoriques…, c. 622). Probabilmente l'ultima fase delle trattative dovette essere più convulsa del previsto, causa un ripensamento dell'Orsini che forse cominciava a subodorare una collusione tra il partito italiano, l'Alberoni e questa giovane Farnese che, se non altro forte della sua giovinezza, poteva rappresentare un serio pericolo per il suo potere. E. dovette essere assai abile nel recitare la parte suggeritale: soprattutto con il conte F.Z.F. Albergotti, inviato speciale del re Sole per ossequiare la promessa sposa e studiarne il carattere, seppe tenere fede alla sua fama di "buona lombarda impastata di butirro e di cacio" (Drei, I Farnese … p. 258, riferendo una missiva dell'Alberoni), grata per l'onore concessole e propensa a lasciarsi guidare dall'Orsini che Luigi XIV considerava una sorta di suo agente personale alla corte spagnola e garante rispetto al debole e troppo umorale Filippo.
Sia come sia, il 16 settembre, al culmine degli sfarzosi festeggiamenti indetti per l'occasione, il cardinale U.G. Gozzadini, espressamente inviato dal papa, impartiva la solenne benedizione nuziale, rappresentando lo sposo il duca di Parma. Il 22 dello stesso mese il corteo reale partì alla volta di Sestri Levante, dove era stato deciso che E. si sarebbe imbarcata alla volta di Barcellona. A Borgotaro si accomiatò dai duchi e dal numeroso seguito proseguendo il viaggio con un numero ristrettissimo di dignitari: Ippolita Ludovisi Boncompagni principessa di Piombino, il principe di Palestrina, la contessa Bianca della Somaglia, il conte Annibale Scotti. Così aveva imposto l'Orsini che, fin dall'inizio, voleva che la regina fosse isolata dai suoi e sotto il proprio controllo.
Una improvvisa tempesta occorsa alle galee fece cambiare radicalmente i progetti: E. sbarcò a Genova decisa a proseguire il tragitto via terra attraverso la Francia. Il viaggio nuziale alla volta della Spagna costituisce - nei suoi vari passaggi - l'episodio più citato in tutte le cronache e biografie successive della Farnese. Giustamente è visto di solito come un momento determinante sia perché mutò oggettivamente le premesse in base alle quali la principessa italiana era divenuta regina di Spagna lasciando prevedere comportamenti successivi sul piano politico, sia perché i suoi primi gesti fecero intendere chiaramente a tutta la diplomazia europea "… qu'elle aimera voler de ses ailes" (A. Baudrillard, Philippe V et la Cour de France, Paris 1890, I, p. 60).
Innanzi tutto il tempo impiegato per raggiungere il marito fu - non si sa se ad arte - singolarmente lungo. Data a questo periodo, nel corso del tragitto in terra francese, l'incontro con il principe di Monaco, Antonio Grimaldi, il quale, facendone puntuale resoconto a Versailles, tracciava un ritratto fisico-psicologico della giovane sovrana che, nel suo genere, è un piccolo gioiello di circonlocuzioni giustamente rimasto celebre soprattutto nella chiusa: "… cuore di lombarda, animo di fiorentina, sa volere fortemente" (De Courcy, p. 91).
I tre mesi che impiegò E. a raggiungere la Spagna contribuirono senz'altro a innervosire la principessa Orsini inducendola ai primi passi falsi: critiche aperte alla persona della sovrana, al suo comportamento, pesanti insinuazioni su quello del suo seguito. Gli indubbi errori tattici della pure esperta cortigiana francese sono rivelatori di un suo stato di insicurezza vieppiù crescente nei confronti di una situazione che intuiva di non controllare più del tutto, ma da soli non giustificherebbero il precipitare degli eventi. Gli elementi determinanti furono costituiti sia dall'ostilità da cui la dama, anziana e intrigante, era circondata a corte, sia dall'abilità dell'Alberoni, deciso a divenire il consigliere e confidente della giovane sovrana e, per suo tramite, il plenipotenziario della politica spagnola.
Le ultime fasi del viaggio di E. segnarono un vero capolavoro di tattica e tempismo dell'abate piacentino.
E. era arrivata l'11 dicembre a Pamplona dopo aver trascorso alcuni giorni a Pau con la zia materna Maria Anna di Neuburg, vedova del defunto re di Spagna Carlo II, dall'Orsini allontanata da Madrid. Già qui la giovane deve avere ricevuto le prime messe in guardia sulle reali intenzioni della cortigiana. A Pamplona fu raggiunta dall'Alberoni che l'avrebbe dovuta accompagnare nell'ultimo tratto del viaggio: unico italiano, unico amico fidato dei Farnese proprio quando E. era stata costretta a licenziare il suo già esiguo seguito italiano, "non senza grande rammarico" sentendosi "circondata da tante spie" quanti erano "i servitori e serve" mandati a rimpiazzarlo (Bertoli, 1954, p. 102). Che cosa si dissero i due nelle ripetute conversazioni da solo a sola non è dato sapere: certo l'isolamento in cui si trovava dovette avvicinare maggiormente la giovane sovrana all'abate. Il quale, dal canto suo, faceva assegnamento sicuro sul carattere altero, già più volte umiliato, di E. e sull'indole impulsiva dell'Orsini, esasperata dalla snervante attesa e desiderosa di dare dimostrazione del suo reale potere. L'epilogo di questa contrapposizione giocata fin'allora a distanza si ebbe il 22 dicembre a Jadraque dove la "camarera major" si era recata ad incontrare da sola la regina, anticipando volutamente Filippo, che attendeva a Guadalajara. Incontro senza testimoni diretti, pare breve, finito bruscamente con l'ordine - impartito autorevolmente da E. - di arrestare la favorita e di accompagnarla senza seguito ai confini del Regno.
Parecchie e dissimili tra loro le versioni dell'episodio: ce ne hanno dato testimonianza il duca di Sant-Simon, p. H. Beauvilliers duca di Saint-Aignan, ambasciatore francese a Madrid, in una lettera al ministro J. B. Colbert marchese di Torcy, l'Alberoni nelle sue missive a Francesco Farnese, il marchese F. M. Grimaldi, ambasciatore genovese a Madrid, scrivendo al Senato della Repubblica. Il primo, feroce detrattore di E., non ne dà una versione benevola attribuendo la violenta scenata a un pretesto della sovrana. Tra il Saint-Aignan e l'Alberoni la versione non differisce granché se non per una qual laconica faziosità maggiore nell'italiano. Più imparzialmente il Grimaldi riferì: "… non ben si sa quanto passasse tra loro … (cfr. Bertoli, 1954, p. 107).
Sia come sia il colpo di scena di Jadraque fu la prima manifestazione pubblica della ferrea volontà della Farnese. Al re, informato dell'evento e certo sconcertato dalla sua brutalità, non rimase che confermare il provvedimento per non dispiacere alla giovane moglie, mentre all'Orsini non valse neppure la protezione di Luigi XIV, a cui fece ricorso, ma che era ben lontano dal volersi inimicare per lei la nuova regina. La quale, dopo il gesto clamoroso, si mosse con sorprendente abilità: smentendo la sua abituale lentezza raggiunse a tappe forzate l'ansioso marito riuscendo, come era prevedibile, a bloccarne i ripensamenti. Il 24 dicembre avvenne l'incontro e gli sponsali furono immediatamente celebrati dal patriarca delle Indie. L'esito immediato fu la conferma dell'esilio per l'Orsini e l'inizio, quindi, di un nuovo periodo politico per la Spagna cui - almeno inizialmente - il binomio Farnese-Alberoni darà un'impronta decisiva.
Giovane, ambiziosa, dotata di grande passione per il potere, E. diverrà ben presto il primo ministro di Filippo V, la cui indole abulica e incerta si adatterà di buon grado a questa situazione. Certo alle sue spalle si intravvede la continua azione sotterranea di Giulio Alberoni a evitare ingenuità e sbandamenti: da un lato sarà lui a riallacciare rapporti più stretti con la Francia, certo compromessi dopo la vicenda Orsini; sarà sempre lui a suggerire di troncare il chiacchierato rapporto della regina con il cappellano Maggiali. Dall'altro, sarà grazie all'appoggio di E. che l'abate intraprenderà tutta una serie di riforme interne, alla Casa reale e al governo della Spagna, forte del drappello di uomini che ben presto vennero insediati ai posti chiave in sostituzione dei precendenti, legati al partito francese: il principe Pio, il principe di Cellamare, il duca di Popoli, il duca di Giovinazzo. Erano congedati l'Orry, già ministro delle Finanze, Melchiorre Macanaz, procuratore fiscale, il confessore Robinet, in luogo del quale fu chiamato padre G. Daubenton.Nel 1716 l'Alberoni venne nominato primo ministro ufficializzando la posizione che di fatto occupava già presso la corte spagnola. Nello stesso anno nacque l'erede maschio della famiglia reale, Carlo. Era stato preceduto, l'anno prima, da Maria Anna Vittoria, primogenita dei sette figli di E., essendo costei ben conscia che dovere di una regina e prima obbedienza alla Chiesa era "… fare un figlio in capo a nove mesi…" (Casa e corte Farnesiane, b. 41, fasc. 4, lettera datata 3 febbr. 1715).
Fin da piccolissimi saranno oggetto delle precoci ansie dinastiche della madre e, nel contempo, costituiranno la giustificazione ultima di tante scelte politiche e diplomatiche cui E. spingerà la Spagna, essendo scontato che la successione al trono sarebbe spettata di diritto ai figli di primo letto. Come sbocco di queste ambizioni era naturale che si pensasse alla penisola italiana: vi si poteva contare sulla simpatia di Clemente XI per il docile Filippo in funzione antimperiale e sui Farnese di cui, dopo tutto, la regina di Spagna era la naturale erede e che avevano acquistato maggiore autorità grazie alla loro parentela con la corte iberica. Anche in quest'ottica si comprendono le direttive dell'Alberoni, chiaramente volte ad annullare col tempo le conseguenze del trattato di Utrecht e a fare della Spagna l'elemento catalizzatore di un'alleanza di principi italiani per reinserire i Borboni nei loro antichi possessi.
Il papa, dal canto suo, avrebbe visto volentieri i cattolici Stuard sul trono d'Inghilterra e Filippo V su quello di Francia, dove già si prevedeva l'apertura di un contenzioso alla morte di Luigi XIV. Ma, soprattutto, al pontefice premeva la crociata contro i Turchi di cui si era fatto promotore insieme con Venezia. In tali circostanze, la promessa della partecipazione di una flotta spagnola, le pressioni congiunte dei Farnese da Parma e di E. da Madrid valsero all'Alberoni la concessione del cappello cardinalizio, il 12 luglio 1717. La notizia arrivò il 25 dello stesso mese; lo stesso giorno la flotta spagnola, in gran segreto, levava le ancore da Barcellona, il 22 agosto era davanti a Cagliari e, in poco tempo, conquistava tutta l'isola.
La spedizione era stata progettata da tempo: la prima idea risaliva al duca di Parma, ben presto condivisa dai reali di Spagna che - pensando ai figli di E. - l'avrebbero volentieri indirizzata contro Napoli o la Toscana in funzione antiaustriaca. L'Alberoni aveva trattenuto fino al possibile la spedizione sconsigliandola a tutti i livelli; ma si era arreso davanti alla volontà irremovibile dei suoi padroni e l'aveva solo potuta deviare contro la più facile e meno implicante Sardegna. Le reazioni internazionali, tuttavia, furono durissime: le corti europee gridarono al tradimento e rimproverarono alla Spagna di avere, oltre tutto, disperso preziose energie impedendo di trarre profitto dalla grande vittoria di Belgrado ottenuta sui Turchi da Eugenio di Savoia. Il papa, dal canto suo, si sentì ingannato dall'Alberoni - di cui, peraltro, aveva sempre diffidato - non sospettando minimamente che il mandante ultimo dell'impresa potesse essere il duca Francesco. Il ministro spagnolo accettò coscientemente di addossarsi ogni colpa e continuò ad agire assecondando e coprendo i suoi referenti di Parma e Madrid: il carteggio pubblicato dal Bourgeois è chiarissimo al riguardo.
Resta il fatto che, a quel punto, si era innescato un pericoloso meccanismo in parte incontrollabile: nel 1718 una quadruplice alleanza aveva unito tra loro Inghilterra, Francia, Austria e Olanda, decise ad opporsi alle avventurose mosse spagnole. Il Farnese di Parma ed E. volevano la guerra ad ogni costo; d'altra parte anche l'Alberoni ammetteva che era giocoforza, a quel punto, almeno difendere l'onore del re Filippo. Si giunse così alla seconda spedizione italiana (giugno 1718), diretta, anziché contro Napoli, come si sarebbe voluto, contro la Sicilia, conquista ritenuta più agevole da conservare. L'occupazione di Palermo provocò l'immediata reazione inglese: la flotta dell'ammiraglio A. Castañeta fu sorpresa presso Capo Passero dall'ammiraglio George Byng e pressoché annientata. Nel contempo i Francesi invadevano la Spagna, giustificando l'azione come diretta contro il ministro più che contro la politica del re. La situazione, divenuta pesantissima, richiedeva un rapido componimento e il sacrificio della testa del cardinale - richiesta a gran voce da tutte le potenze - era divenuto inevitabile. Il 12 dic. 1719 l'Alberoni lasciò la Spagna, bruscamente licenziato, tradito dal proprio duca per il quale poco prima si era esposto e dal voltafaccia della regina di cui era stato mentore e strumento al tempo stesso.
La sovrana, da quel momento in poi arbitra sempre più assoluta della volontà del marito, abbandonata alla sua concezione della politica come puro intrigo e vedendo più che mai in gioco l'avvenire dei figli, si lanciò in una frenetica politica matrimoniale.
La prima mossa l'aveva compiuta nel 1722: l'infanta Maria Anna Vittoria, che non aveva ancora compiuto i cinque anni, venne inviata a Parigi, promessa sposa di Luigi XV allora tredicenne. Ma nel 1725 le speranze di E. furono bruscamente infrante: il duca di Borbone, nuovo reggente di Francia, annunciò il rinvio della giovane principessa. Infatti, alla conservazione del proprio potere e ad impedire l'ascesa del pretendente Orléans era indispensabile la nascita in breve tempo di un delfino. Maria Anna Vittoria aveva otto anni e chiaramente era inadatta allo scopo: le venne così preferita la ventenne figlia dello spodestato re di Polonia, Maria Leszczyfiska.
Sia come regina sia come madre lo scacco fu vissuto traumaticamente da Elisabetta. I commentatori concordano nel ritenere che per qualche tempo la pace stessa d'Europa fu in pericolo. L'anno prima aveva tentato un ravvicinamento con l'imperatore proponendo gli infanti Carlo e Filippo come mariti per due arciduchesse, ma Carlo VI aveva accolto tiepidamente la proposta: il trattato di Vienna (1725) conteneva solo vaghe promesse circa il progetto e riconosceva Parma e Toscana feudi imperiali. Nel '27 E., delusa, ricercava un nuovo contatto con la Francia, sollecitata e persuasa in questo dallo zio e patrigno che a lungo aveva lavorato in tal senso e che, proprio quell'anno, non ancora cinquantenne, moriva.
Dopo l'allontanamento dell'Alberoni, la perdita del duca di Parma Francesco fu quella che priverà E. del consigliere più ascoltato e soprattutto del garante e custode in Italia dell'eredità farnesiana per i suoi figli. Per non creare ulteriori intralci a questo progetto si era a lungo ostacolato o, per lo meno, non si era sollecitato il matrimonio del fratello minore del duca, Antonio. È ben vero che costui non aveva mostrato particolari propensioni o impazienze in tal senso e che solo la morte prematura del fratello e le nuove responsablità lo convinsero ineluttabilmente a un tal passo. Le nozze con Enrichetta Maria d'Este, celebrate nel febbraio 1728, fecero ventilare la probabilità - seppur da tutti considerata remota - della nascita di un erede.
Il disperato tentativo di prevenire esiti a lei infausti spinse E. a stipulare un trattato direttamente con la odiata Inghilterra (Siviglia, 9 nov. 1729), costringendo la Francia ad entrarvi come garante: al figlio Carlo era finalmente assicurata la successione di Toscana e Parma. Clemente XII, cui non dispiaceva il progetto di una forza contraltare dell'imperatore, si astenne però da un'investitura ufficiale per evitare una immediata reazione dell'Austria. Da questa situazione di impasse si uscì grazie all'evolversi stesso degli avvenimenti e in forza della precaria salute del duca Antonio: già affetto da obesità ereditaria e da una pericolosa passione per la chimica e per i preparativi a base di erbe medicinali, morì il 20 genn. 1731, nominando suo erede universale "il ventre pregnante" della duchessa Enrichetta Maria.
L'imprevisto testamento lasciò in perplessa aspettativa le cancellerie europee, ma non impedì ad E. di gridare all'impostura e all'Austria di occupare i Ducati, ufficialmente in nome dell'infante. Quando la gravidanza tanto attesa e temuta si rivelò un bluff - come molti ritenevano sin dall'inizio - le ambizioni decise della regina di Spagna non ebbero più freno e non trovarono ostacolo neppure nella persona dell'imperatore. Del resto a Carlo VI interessava soprattutto il riconoscimento della sua prammatica sanzione e, in cambio, egli accettava il 22 luglio 1731 le disposizioni del trattato di Siviglia per Parma e Toscana consentendo anche l'introduzione di seimila uomini delle truppe spagnole nelle fortezze dei due paesi. L'infante, il 24 giugno 1732, aveva ricevuto l'omaggio sovrano del Senato fiorentino e, sollecitato dalla madre, era passato a prendere possesso di Parma (12 ottobre) e di Piacenza (22 dello stesso mese).
Dopo anni di attesa e di vani quanto laboriosi progetti E. conseguiva i primi veri risultati politici, raccogliendo i frutti di un impegno durato tre lustri: compiva quarant'anni, aveva buona salute e una grande vitalità mentre al re, sempre più soggetto a crisi depressive e assente dalla realtà, non erano estranei progetti di abdicazione, regolarmente controllati dalla moglie.
C'era stata, in tal direzione, un preciso antecedente: nel 1724 Filippo avreva messo in atto - con un dispositivo legale lungamente studiato - il suo progetto di ritiro dalla scena politica attiva, modellando il suo caso sull'esempio del grande Carlo V. L'ambasciatore veneziano N. Erizzo (III) nella sua relazione al Senato attribuì il gesto al "suo genio malinconico" che lo induceva a isolarsi sempre di più nella residenza di Sant'Ildelfonso, a 14 leghe da Madrid, creata tenendo presente il modello di Versailles e in cui aveva profuso "somme immense". In effetti, per un breve arco di tempo, aveva ceduto al primogenito Luigi, allora diciassettenne, la corona di Spagna. La morte prematura dell'erede, "appena compiti sei mesi del suo regno, sorpreso dal vaiulo e da febbre maligna… non lasciando figli di Luisa Elisabetta d'Orléans sua moglie", ripropose il problema. Il meccanismo legale predisposto allo scopo non fu attivato e Filippo, del resto appena quarantenne, riprese il suo ruolo naturale, sicuramente sollecitato anche dalla moglie. Essa, dal canto suo, non aveva smesso di organizzare progetti politici per i propri figli e di tentare di allacciare relazioni internazionali grazie ai legami dinastici.
Il 1729 era stato l'anno del doppio matrimonio portoghese: il figliastro di E., Ferdinando, aveva sposato la principessa Barbara e la sua primogenita Maria Anna Vittoria si era unita a Giuseppe del Portogallo. È certo, però, che le ansie materne di E. si concentravano sui due maschi: Carlo e Filippo. Una volta che al primo fu riconosciuta la successione dei Ducati in Italia, fu il secondo a essere oggetto delle maggiori preoccupazioni. L'occasione per agire si verificò presto.
Nel 1733 la situazione europea era di nuovo alle soglie di un profondo rivolgimento: non appena la crisi polacca ruppe la fragile tregua apparve chiaro ad E. che tra le maglie di una fase politica in rapida evoluzione ci sarebbe potuto essere spazio per i suoi disegni. I quali si erano fatti via via più ambiziosi: pensava ad uno dei suoi figli per il vacante trono di Polonia, alle Due Sicilie per l'allora dodicenne Filippo e per don Luigi - di soli sei anni - guardava ai Paesi Bassi.
Nell'autunno 1733, mentre era impegnata in trattative con la Francia, alleata del re di Sardegna, per opporsi ai progetti imperiali decise di rompere gli indugi e di agire per conto proprio: il 20 di ottobre diede il via ad un corpo di spedizione diretto in Italia a raggiungere il Charmy e il Montemar, che avevano l'incarico delle cose militari per conto di don Carlo, nel frattempo dichiarato fuor di tutela. Il novembre di quell'anno segna la ratifica della nuova alleanza con la Francia sottoscritta all'Escuriale, ma i dissensi sorti tra gli alleati sulla destinazione di Mantova fecero precipitare la situazione. E. capovolse l'ordine di operazione e comandò al Montemar di muovere alla conquista delle Due Sicilie. Don Carlo, obbedendo alla madre, partì da Parma nel febbraio 1734.
Fu allora che, prevedendo l'invasione dei Ducati da parte degli Austriaci, egli ordinò la smobilitazione degli arredi più preziosi del patrimonio Farnese, inizio di quell'operazione che la regina E. completò in maniera sistematica all'indomani della firma dei preliminari della pace di Vienna (1735), che assegnava i Ducati agli Austriaci. I beni mobili dei palazzi di Parma, Piacenza, Colorno, Sala, insieme agli archivi e alla biblioteca - considerati tutti proprietà della famiglia anziché patrimonio statale - passarono a Napoli. Data a quel primo spostamento l'inizio della progressiva dispersione che sempre di più caratterizzerà il possesso del patrimonio, soprattutto cartaceo, di casa Farnese.
Una volta sottoscritta nella sua versione definitiva, la pace di Vienna (1738) aveva definitivamente riconosciuto l'assegnazione del Regno meridionale al primogenito di Elisabetta. Egli aveva assunto il titolo di Carlo III e s'era impegnato a non unire su di sé le due corone nella sua eventuale successione a Madrid. Oltre che in prima persona anche attraverso il figlio la regina di Spagna - pur tanto pia e devota - sostenne una dura lotta giurisdizionalistica con la S. Sede. Per l'infante don Luigi, di appena otto anni, aveva chiesto e, sia pure a fatica, ottenuto il cappello cardinalizio (1735). Infine, come scoppiò la guerra di successione austriaca, ne approfittò per tentare di conquistare un trono in Italia anche a Filippo, il figlio cui probabilmente era più legata.
Nel 1739 essa era riuscita a dargli in moglie la primogenita del re di Francia, Luisa Elisabetta, a ulteriore garanzia di benevola protezione da parte di Luigi XV: aveva solo richiesto, ricordando lo smacco bruciante di tanti anni prima, che il contratto nuziale fosse stipulato quando entrambi i giovani avessero raggiunto un'età realmente matrimoniabile. A cementare ulteriormente i legami franco-spagnoli ci sarà più tardi negli anni anche il matrimonio dell'infanta Maria Teresa con il delfino (1745), unione su cui E. contava molto in funzione di sostegno dei suoi progetti politici in Italia.
Qui, nel 1741, il ventunenne Filippo fu messo a capo di un'armata borbonica contro gli Austro-Sardi alleati, ma solo nel 1748 si vide finalmente assegnato il Ducato della famiglia materna (pace di Aquisgrana). Di questi anni, trascorsi lontano dalla moglie, che lo raggiungerà a conquista ottenuta, e dalla madre, che del suo affetto era gelosissima e che non lo rivedrà più, resta un ricco epistolario, in parte pubblicato dallo Zanon. Dal '45 in poi le lettere si succedono al ritmo di due al giorno a firma di E. e Filippo. Cariche di emotività e ricche di notazioni di intima familiarità costituiscono un documento interessante, nella sua immediatezza, sia della vita personale che politica di questa coppia ormai avviata a un precoce tramonto.
Nel 1745 L. G. de Vauréal, vescovo di Rennes, il mondanissimo e galante nuovo ambasciatore francese a Madrid, tracciava un ritratto dei due sovrani certo di parte ma acuto. Ne emerge un Filippo V privo di ogni volontà che non fosse quella della moglie, pesante e ottuso, sensuale e devoto, sempre innamorato di E. anche se infastidito dalla presenza dei suoi cortigiani, dedito a lunghi studi di mappe militari, a simulazioni di battaglie, a immaginarie marce. Al suo fianco c'era sempre la regina che non capiva nulla di diplomazia e guerra, ma che diceva sempre una parola definitiva su di esse, i cui figli - secondo una voce comune - erano l'unico oggetto della sua ambizione. Al ministro R. L. Voyer marchese d'Argenson in data 20 ag. 1745 il Vauréal scriveva: "Ho potuto osservare la regina in ogni situazione, nei momenti di aspettativa, di speranza, di paura ma non l'ho mai vista preoccupata del proprio futuro"; e terminava: "ho forti dubbi sul fatto che essa possieda da qualche parte una scorta di denaro liquido di centomila corone". Sempre del nobile francese è un breve ritratto, spietato nella sua lapidarietà, in cui ritroviamo certi tratti già segnalati dall'Alberoni tanti anni prima quando, osservando l'allora giovane regina, ne descriveva i comportamenti allo zio e patrigno di lei. "Ma che gran numero di difetti riuniti in una sola persona: priva di intelligenza, priva di giudizio, è un insieme di vanità senza dignità, di avarizia senza economia, di stravaganza senza liberalità, di falsità senza finezza, mente senza discrezione, è violenta senz'essere coraggiosa, debole senz'essere di buona indole, paurosa in modo ottuso, l'unico talento che possiede è quello dell'imitazione, e senza grazia" (Armstrong, pp. 373 ss.).
In questo scorcio di regno E. fu circondata da un gruppo ristretto di cortigiani collaboratori: lo Scotti era quello presente da più antica data, il duca di Atri, gran maestro e favorito della regina, alla morte sostituito dal conte de Montijo, persona onesta il cui unico difetto probabilmente era quello di essere spagnolo e, per questo, in qualche modo prevenuto nei confronti della Francia verso la quale gli osservatori politici più acuti guardavano pensando a un ruolo europeo dei Borboni di Spagna. In effetti la situazione economica della nazione era sempre più pesante, il bilancio gravato dalle guerre estere, dalle dispendiose campagne italiane e dalle spese per i matrimoni prestigiosi: tra il 1738 e il '39 si era dovuto persino ricorrere alla sospensione dei pagamenti dei salari e pensioni e ad un drastico ridimensionamento del numero dei soldati. Il ministro delle Finanze, Huraldi, si era spinto sino a criticare le eccessive spese della mensa reale. Il suggerimento unanime quanto inascoltato dei ministri era quello di distogliere la Spagna dalla penisola italiana e di orientarla sempre più a proficue alleanze europee: il più deciso e cosciente nel perseguire questa tendenza fu il marchese d'Argenson, dal 1744 ministro degli Esteri, certo una delle personalità di governo più notevoli di questo torno di anni. Inutilmente: il coinvolgimento italiano era ormai irrefrenabile e, anzi, proprio allora le sorti del conflitto mostravano la necessità di una sforzo decisivo.
Questa era la situazione quando la notte del 9 luglio 1746 mise fine al regno di E.: Filippo, colpito da apoplessia, morì in poche ore. Qualche giorno dopo arrivò la notizia della morte dell'infanta moglie del delfino, Maria Teresa, reduce da un parto fatale. Così, nel giro di una settimana "Elisabetta perse il governo della Spagna e la speranza di futura influenza sulla Francia" (Armstrong, p. 387).
Ferdinando VI, salito al trono con la moglie Barbara di Braganza, sebbene formalmente corretto, tuttavia dava segni di insofferenza nei confronti della regina vedova. Una volta sottoscritto il trattato di Aquisgrana che, insieme con la pace, assicurava l'esistenza di una seconda corte borbonica in Italia - quella dei ducati estensi assegnati a Filippo - E. fu messa in condizione di ritirarsi da Madrid (luglio 1747). Scelse la solitudine di Sant'Ildefonso, il castello tanto amato dal marito che vi aveva voluto essere sepolto.
Vi rimase otto anni di seguito, ma tutt'altro che in disparte: i rapporti epistolari e le visite di politici e di viaggiatori la tennero ancora informata e partecipe della situazione internazionale. Del resto doveva ancora provvedere all'ultimo maschio, quel don Luigi che era stato un cardinale bambino ma che, crescendo, sembrava sempre più attratto dal secolo piuttosto che dalla croce. Non pareva possedere né la passione per la vita militare del padre né l'ambizione della madre: sportivo, si dilettava di costruzioni meccaniche, prediligeva rapporti affettivi con i ceti inferiori. E. aveva progettato per lui un matrimonio con la principessa del Brasile e un regno in Toscana, ma altre, inaspettate incombenze dovevano ben presto assorbirla.
Nel 1759 morì prematuramente Ferdinando VI, che qualche tempo prima era rimasto vedovo: un'esplicita disposizione testamentaria nominava E. reggente. Dall'agosto all'ottobre di quell'anno essa era di nuovo a Madrid a guidare la fase di transizione fino all'arrivo da Napoli del figlio don Carlo, cui sarebbe spettata la successione. Il ménage comune non sarebbe durato a lungo come tutta la corte aveva previsto. La nuora Amalia di Sassonia le dimostrava ogni rispetto formale, ma era a sua volta un carattere poco affidabile e risentito; del resto a E. neppure l'età aveva insegnato maggiore autocontrollo. Alla fine gli attriti, divenuti pressoché quotidiani, le fecero ritenere più opportuno un nuovo, definitivo ritiro a Sant'Ildefonso. Mantenendo sino alla fine il suo gusto dell'intrigo e la sua mordente vivacità di spirito, vi morì, ormai quasi cieca, il 20 luglio 1766.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Parma, Casa e corte farnesiana, s. II, bb. 40, 41; Ibid., Carteggio farnesiano estero, b. 132; Parma, Biblioteca Palatina, Mss. parmensi, 4673: Informations historiques et critiques sur les prétentions de l'Espagne aux duchés de Parme et de Plaisance …; Mss. parmensi, 1118 3: p. Adeodato Turchi da Parma, Orazione funebre in lode di S.M. E.F. regina vedova delle Spagne recitata il 22 dicembre 1766 in occasione dei solenni funerali celebrati nella chiesa dei cappuccini in Parma (anche edito in Parma, Carmignani, 1767, e Amoretti, 1796); Ibid., Ragguaglio delle nozze delle Maestà di Filippo Quinto e di E. F. nata principessa di Parma, re cattolico delle Spagne solennemente celebrate in Parma l'anno 1714 ed ivi benedette dall'em. signor card. di S. Chiesa Ulisse Giuseppe Gozzadini legato a latere del sommo pontefice Clemente Undecimo, Parma 1717, pp. 11 s. (attribuito al Maggiali); L. de Saint- Simon, Mémoires, Paris 1978, X, pp. 198, 344; XI, pp. 65-74; XVI, p. 256; Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di L. Firpo, X, Torino 1979, pp. 729-748, 799-821; C. Dalbono, E. F., Napoli 1889; M.R.R. De Courcy, Les débuts d'une nouvelle reine, in La Révue des révues, II (1891), pp. 90 ss.; E. Armstrong, E. F., the termagant of Spain, London 1892; S. Lottici-G. Sitti-E. Alinovi, Bibliografia generale per la storia parmense, Parma 1904, pp. 65 ss.; S. Lottici Maglione, Il viaggio nuziale di E. F. regina di Spagna, Carpi 1908; E. Bourgeois, La diplomatie secrète au XVIIIe siècle, II, Le secret des Farnèse, Paris 1909, pp. 137-195; G. A. Zanon, Le lettere intime epolitiche di E. F. e Filippo V al figlio don Filippo, Parma 1910; G. Melli, Dopo il "rinvio dell'Infanta", una lettera inedita di E. F., in Aurea Parma, II (1913), 2, pp. 46-52; C. Pariset, Iconografia di E. F., ibid., XII (1928), 4, pp. 147-153; G. di Soragna, E. F. regina di Spagna, ibid., XIV (1930), 6, pp. 211-217; F. Borri, I quadri di Ilario Spolverini per le nozze di E. F., in Parma, I (1933), 6, pp. 265-268; A. Lamberti, La seconda moglie di Filippo V, Milano 1939; G. Drei, L'Alberoni e le nozze di E. F., in Aurea Parma, XXXV (1951), 1, pp. 7-12; M. E. Bertoli, Il viaggio nuziale di E. F. da Sestri Levante a Marsiglia, in Rivista Ingauna e Intimelia, n. s., VIII (1953), 1-2, pp. 17-23; Id., E. F. e la principessa Orsini, in Arch. stor. per le provv. parmensi, s. 4, VI (1954), pp. 95 -112; G. Drei, IFarnese. Grandezza e decadenza di una dinastia ital., Roma 1954; U. A. Pini, La relazione dei delegati borgotaresi per il giuramento di fedeltà a E. F. (1745), in Aurea Parma, XXXX (1956), 2, pp. 129-132; F. Venturi, Settecento riformatore, I, Torino 1969, pp. 6, 18; 11, ibid. 1976, pp. 215-221; Felice da Mareto, Bibliografia generale delle antiche famiglie parmensi, II, Parma 1974, pp. 407 s.; F. Diaz, Dal movimento dei lumi al movimento dei popoli, Bologna 1986, pp. 30 s., 339.