Elezione imperiale
Ai sovrani svevi non era stata tramandata dai loro predecessori una forma di elezione definita, e neppure gli Svevi la lasceranno, a loro volta, in eredità ai loro successori. La cerchia di coloro che dovevano eleggere il re non era designata, non si era costituito un luogo deputato che legittimasse l'elezione e le sue forme procedurali non erano regolate. Inoltre, fra il 1125, quando fu eletto Lotario III, e la doppia elezione del 1198 si delinearono profondi cambiamenti strutturali nell'ambito dell'alta nobiltà alla quale soprattutto spettava tale incombenza. Nel 1125, a causa dei molti convenuti nella città elettorale di Magonza, fu necessario ricorrere a una procedura singolare: dieci rappresentanti, naturalmente i più illustri, di ciascuna delle quattro stirpi dovettero prendere insieme la decisione su chi sarebbe stato il nuovo monarca. In questa circostanza appare evidente che l'innalzamento al trono era legato, come già in passato, alla volontà delle stirpi. Ma al tempo stesso fu anche l'ultima volta che questo principio trovò applicazione; infatti nel quadro dei nuovi orientamenti genealogici e territoriali dell'alta nobiltà ‒ era finita l'epoca degli Udoni ed era cominciata quella dei loro discendenti, i conti di Stade ‒ nel tardo XII sec. emerse il rango di principe dell'Impero. I principes dell'età salica erano i capi di un'associazione familiare sovraregionale di consanguinei, mentre i principes che erano stati responsabili della doppia elezione nel 1198 detenevano nella loro regione un predominio sovrano stabilito in senso agnatizio dal diritto feudale (non erano ancora domini terrae).
Era sempre inoppugnabile che un re fosse eletto all'interno del territorio tedesco, ma non così l'imperatore (tra l'elezione reale di Arnolfo di Carinzia nell'887 e l'ultima elezione del 1792 solo una volta, nel 983, con Ottone III un re fu eletto a Verona al di fuori del territorio imperiale in senso stretto). Era indiscusso nell'Impero che questo re dovesse essere il futuro imperatore, in quanto era prestabilito sia sulla base della tradizione che su quella della teoria volgarizzata in epoca sveva della Translatio imperii. Quando nel 1508 Massimiliano assunse il titolo di Electus Romanorum Imperator, si richiamò fra l'altro ‒ in modo pertinente ‒ al fatto che in Italia il re dei Romani aveva sempre l'appellativo di 'Cesare'. Di conseguenza l'elezione del suo successore nel 1519 è stata definita correntemente dai contemporanei 'elezione imperiale', una frattura evidente rispetto alla tradizione medievale (gli studiosi non hanno dedicato un'attenzione approfondita alle teorie di Hermann Bloch, secondo cui le elezioni reali in epoca sveva sarebbero già state elezioni imperiali).
La definizione migliore e più semplice di ciò che era un'elezione reale è di Niccolò Cusano: è la dichiarazione, da parte dei grandi, di voler obbedire a un unico signore, "velle regibus oboedire". Prendendo le mosse da questa definizione si può interpretare anche la prima elezione reale sveva del 1127, quando contro il dominio del sassone Lotario III, già in carica e altrimenti incontestato, fu eletto Corrado, fratello di Federico duca di Svevia, che era stato ignorato nell'elezione del 1125. Questo tentativo di usurpazione della dignità regia naufragò immediatamente, tuttavia fu motivato dal fatto che i sostenitori degli Svevi avevano deciso di obbedire soltanto a questo sovrano, il futuro re Corrado III.
La definizione formulata da Niccolò Cusano aiuta anche a capire l'elezione di Corrado III nel 1138. Sul piano politico si trattava di non accrescere la pienezza di poteri del genero di Lotario III, Enrico il Superbo, elevandolo alla dignità regia. Lo svevo Corrado III osò farsi proclamare re contro un duca potentissimo, che esercitava il suo dominio "da un mare all'altro", dal Mare del Nord fino ad Adria. Nondimeno l'elezione di Coblenza del 1138 non dev'essere intesa come un 'colpo di stato'. Quest'espressione disconosce il fatto che ancora non esistevano modalità di elezione vincolanti. Esistevano invece forme di allargamento successivo della promessa di obbedienza con le quali Enrico III, fra il 1050 e il 1056, cercò di assicurare a suo figlio la successione del dominio. L'elezione del 1138 fu senz'altro un'elezione minoritaria sostenuta dall'autorità del cardinal legato papale, tuttavia seguì il principio della dichiarazione di obbedienza quando, nella successiva dieta di Bamberga, fu riconosciuta in tutto l'Impero. Quindi l'atto dell'elezione a Coblenza e la dieta di Bamberga, sono diventati, per questo motivo, costitutivi per la monarchia di Corrado III. Il collegamento fra elezione e dieta doveva rivelarsi ricco di conseguenze per il futuro, perché entrò nella memoria dinastica della stirpe dei sovrani svevi.
Nel 1138 ha inizio la serie delle elezioni dei re della casa sveva che si concluse nel 1237. Tuttavia, come ha dimostrato Ulrich Schmidt, non se ne deve dedurre un diritto di successione al trono. Di fatto nel 1152, nel 1169 e infine nel 1197 si palesa quale ossequio dovettero tributare gli Svevi al principio dell'elezione. Sembra in contraddizione con quest'attitudine che a partire da Federico I si cominciasse a costruire il mito dell'unica stirpe regnante sveva che sarebbe stata la detentrice dell'Impero fino alla fine dei giorni. Ma nella loro politica gli Svevi non agirono affatto dando di sé una rappresentazione mitica. Già Federico I aveva riconosciuto che l'elezione era parte del diritto dei principi a esprimere il loro consenso e si era sempre richiamato coerentemente a questo consenso.
In conformità alla prassi salica Corrado III aveva fatto eleggere re suo figlio Federico nel 1147. Quest'atto era vincolato al tempo stesso al passato e al futuro: si trattava di un'elezione alla vigilia di una crociata che il re aveva caldeggiato. Anche questo entrerà a far parte della memoria dinastica degli Svevi e nel 1196 l'inscindibilità della crociata, dell'elezione reale e delle pretese di dominio dinastico acquisterà attualità sul piano politico.
Dopo la morte di Corrado III i grandi, a differenza di quanto accadrà nel 1198, non furono sfiorati dall'idea di considerare irrilevante la promessa di obbedienza espressa con l'elezione del 1147. Anche se il nipote del defunto re, Federico I, eletto all'unanimità nel 1152, con un corteo reale dimostrativo diretto alla festa dell'incoronazione ad Aquisgrana creò un legame, legittimante per il futuro, tra il luogo dell'elezione a Francoforte e il luogo dell'incoronazione ad Aquisgrana, non si può ignorare che nella sua prassi di potere egli riprese uno schema che si era delineato nel 1138. La circostanza che Enrico IV nel 1169 sia stato eletto in una dieta a Bamberga dev'essere interpretata alla luce del ricordo della dieta del 1138, e nel collegamento fra dieta ed elezione si manifesta al tempo stesso un programma politico. Chi, nelle diete, riusciva a rendere i singoli principi partecipi di una responsabilità definita dal sovrano, poteva evitare che negli stessi principi la coscienza del loro valore si traducesse in decisioni elettorali dissenzienti. Così nel 1169 Federico I fu in condizione di far eleggere re il suo secondogenito Enrico VI, che allora aveva appena quattro anni, e di farlo incoronare ad Aquisgrana, senza ritenere che fosse necessario informarne il pontefice.
L'elezione reale del 1169 appare al pensiero moderno in contrasto con il verdetto dei principi alla dieta di Würzburg del 1165, nella quale si era stabilito che unicamente colui che fosse stato eletto dalla totalità dei principi ("quem principes universi eligerint") poteva essere il successore dell'imperatore. Il termine "eligere", in quanto promessa di obbedienza, era largamente suscettibile di interpretazioni nelle sue forme esteriori. L'imperatore sfruttò questa circostanza per condurre trattative singole e poi mettere in risalto a scopo dimostrativo la promessa di obbedienza ottenuta successivamente. L'incoronazione di Enrico VI ad Aquisgrana convalidò il significato della messa in scena del corteo reale paterno del 1152: era un programma politico in base al quale il re si collocava nella tradizione di Carlomagno; per il futuro prescrisse come primo elemento formale dell'elezione reale, ancora indefinita, il luogo dell'incoronazione.
Sotto Federico I la dieta doveva diventare il palcoscenico su cui poteva essere inscenato il consenso dei principi, e fu allestita in modo così rappresentativo che a questo scopo fu introdotta una nuova denominazione: "curia celebrata". Qui i principi apparivano come i consiglieri legittimi del sovrano e come giudici del tribunale di corte. La storia delle diete rispecchierà lo splendore ma anche le crisi delle elezioni reali sveve. La più celebre "curia" dell'epoca, la festa di corte a Magonza del 1184, fu insolita nel suo dispiego di sfarzo, ma non nell'idea di collegare il consenso dei principi al piacere della festa al fine di regolare la successione imperiale. Il fulcro politico di questa dieta consisteva nel cingere la spada, nella proclamazione della maggiore età di Enrico VI ‒ e di suo fratello ‒ e quindi nella conferma dell'elezione reale del 1169.
Nel 1186 Enrico VI, in occasione delle nozze con Costanza d'Altavilla, fu elevato sul piano cerimoniale al rango di sovrano con uguali diritti mediante l'incoronazione solenne a Milano, circostanza che fu interpretata da una fonte inglese come un innalzamento a 'Cesare'. La successione sovrana di Enrico VI nel 1190 era indiscussa. È difficile stabilire quanto abbia agito in profondità l'anno seguente una congiura contro lo stesso Enrico, che la liquidò, secondo il giudizio di un testimone coevo, "con sorprendente rapidità" (Die Chronik Ottos von St. Blusien und die Marbacher Annalen, a cura di F.-J. Schmale, Darmstadt 1998, p. 186). È certo soltanto che questa congiura era diretta contro Enrico come persona, non contro la modalità del suo innalzamento alla dignità reale.
Come suo padre anche Enrico VI tentò di imporre l'elezione di suo figlio, il futuro Federico II. Già nel 1195 i principi avevano promesso senza eccessivo entusiasmo l'elezione del figlio dell'imperatore, ma subito dopo si erano sottratti alla promessa di obbedienza; infatti, nel frattempo, il cosiddetto progetto di monarchia ereditaria dell'imperatore svevo aveva provocato forti malumori.
Questo progetto, concepito nel 1196, prevedeva in sostanza un patto fra principi e imperatore, in base al quale i principes come contropartita per la libera ereditarietà dei loro feudi imperiali dovevano promettere all'imperatore l'ereditarietà della monarchia. Il diritto feudale, che in caso di estinzione della linea di discendenza maschile prevedeva il ritorno dei feudi imperiali alla monarchia, cessava quindi di essere in vigore insieme al diritto dei principi sull'elezione reale. Se un simile patto fosse stato concluso, avrebbe dato origine alla prima lex fundamentalis, al primo atto costituzionale scritto del Medioevo europeo. Ma Enrico VI era ben lungi da queste concezioni. Il cosiddetto progetto di monarchia ereditaria è spiegabile solo in rapporto al periodo in cui si delineò, alla vigilia della crociata che era stata progettata. Di fronte ai pericoli che minacciavano tutti i partecipanti in una spedizione di questo genere, il contenuto del patto rivestiva grande interesse per entrambe le parti. Non solo l'imperatore doveva preoccuparsi della sua successione, ma anche i principi che aderivano alla spedizione. Due dei grandi più insigni, il langravio Ermanno di Turingia e il duca Enrico di Brabante, che aveva già caldeggiato la crociata, non avevano figli. I loro domini rischiavano di ritornare all'Impero nel caso di un destino avverso in guerra. L'imperatore aveva elaborato la sua proposta soprattutto per promuovere l'impresa crociata: come Corrado III nel 1147, facendo eleggere suo figlio aveva dinanzi agli occhi i pericoli di una crociata che poteva minacciare la dinastia e l'Impero di una sorte analoga a quella subita da Federico I. Ma quando Enrico VI vide che aveva ottenuto l'effetto contrario alla promozione della crociata ‒ un caso interessante del 'conseguimento di consenso', che nascondeva le reali resistenze dietro un'approvazione troppo debole ‒ rinunciò al suo progetto e ottenne di conseguenza l'elezione di suo figlio. Secondo Ottone di S. Biagio, Enrico VI poté addirittura designare il figlio come suo successore. Un'elezione formale, che ebbe luogo nel 1197 sebbene il futuro Federico II non fosse neppure battezzato, appare solo come un atto giuridico che adombrava la volontà imperiale.
Il progetto di monarchia ereditaria non solo avrebbe modificato il rapporto fra imperatore e principi, ma anche quello dell'imperatore con il papa. Nel 1196 le resistenze di Celestino III non parvero eccessivamente forti, ma non si poteva ignorare che il concetto di elezione, già ai tempi di Federico I, era stato un argomento decisivo contro l'interpretazione papale della dottrina delle due spade (v. Luminaria, duo). Federico I si era richiamato al fatto di aver ricevuto la spada temporale tramite l'elezione e direttamente da Dio ("electionem principum a solo Deo regnum et imperium nostrum sit"), e secondo Ottone di Frisinga il fondamento della dignità imperiale era costituito dal suo conferimento non tramite successione ("propago sanguinis") ma tramite elezione. Enrico VI, che molti storici hanno definito un freddo calcolatore, con il suo progetto di monarchia ereditaria chiarì che ai suoi occhi l'argomento dell'elezione reale, su cui il padre aveva fondato l'indipendenza della spada temporale, non possedeva alcun peso particolare.
L'inattesa morte di Enrico VI nel 1197 collocò l'elezione reale dell'anno successivo in un contesto completamente nuovo. Era indiscutibile che una monarchia del già eletto Federico non era in questione. Sua madre Costanza rinunciò in nome del figlio a tutti i diritti che egli avrebbe acquisito con quest'elezione, e i principi da parte loro dichiararono quest'elezione non valida ("cassantes"). Infatti l'elezione veniva intesa come promessa di obbedienza. Essa costituiva unicamente il fondamento di una pretesa alla monarchia ‒ chiarendo il senso del risalto dato da Federico I ad Aquisgrana come luogo dell'incoronazione ‒, una pretesa che veniva messa in atto solo con l'incoronazione e che poteva essere revocata.
La doppia elezione del 1198, che vide contrapposti Filippo di Svevia e Ottone IV, è stata a lungo interpretata come un sostanziale contrasto guelfo-svevo, prima che questo contrasto fosse smascherato come una costruzione storiografica. Di fatto il capo della famiglia guelfa, il conte palatino Enrico, si tenne in disparte dall'avventura reale del fratello più giovane. L'elezione di Ottone fu un'elezione promossa in modo decisivo dal re d'Inghilterra e che trovò il sostegno soprattutto della città di Colonia e poi dell'arcivescovo di Colonia. I cronisti hanno riferito in questo contesto di carri colmi di denaro, probabilmente senza eccessive esagerazioni, in quanto nel frattempo le relazioni economiche fra Colonia e Londra (la casa della corporazione dei coloniesi a Londra è un antecedente dell'ufficio della Lega anseatica), attraverso la via commerciale più importante dell'Impero, il fiume Reno, si erano sviluppate nella seconda metà del XII sec. fino a diventare una costante del nascente sistema commerciale europeo ad ampio raggio. Filippo di Svevia, nominato in origine vescovo di Würzburg, come capo maschile della stirpe sveva era stato eletto da tutti i sostenitori degli Svevi nell'Impero e trovò un appoggio militare decisivo nei ministeriali imperiali.
La scomunica che Celestino III inflisse a Filippo di Svevia creò la base per l'intervento di Innocenzo III nella disputa per il trono tedesco. Nel 1201 il papa si era espresso a favore di Ottone IV. Gli stavano a cuore gli interessi politici del Papato, essendo intenzionato a sottrarsi a un accerchiamento del Patrimonium Petri da parte degli Svevi, ma al tempo stesso credeva di poter giovare al mantenimento della pace nell'Impero. Quest'obiettivo fu largamente mancato, poiché i principi insistettero sul loro diritto d'elezione ed erano decisi ad accettare il verdetto delle armi piuttosto che quello del pontefice. Tuttavia la decisione papale esercitò un effetto a distanza sulla storia dell'elezione reale. Infatti Innocenzo III si vide costretto per motivi giuridici a definire il ruolo del pontefice nell'incoronazione reale in rapporto all'elezione del re dei Romani. Quest'occasione fu all'origine della decretale Venerabilem del 1202, che sarebbe diventata la più celebre del diritto imperiale tedesco. Era formulata con maggior cautela di quanto abbiano voluto far credere canonisti più tardi, che vollero già leggervi un diritto di approvazione, come sarebbe stato formulato solo da papa Giovanni XXII nel 1324. La decretale non prende in considerazione un'elezione reale valida unicamente in seguito all'approvazione papale, come pretenderà il papato avignonese. Era sottolineato esplicitamente il diritto di voto dei principi, con la motivazione che il papa non intendeva sottrarre a nessuno il suo diritto. Con il gerundio della locuzione "rex in imperatorem promovendum" non era specificato quali competenze potesse rivendicare il papa nei confronti di un re dei Romani che aspirasse a raggiungere la dignità imperiale. I canonisti più tardi hanno interpretato questo gerundio sia nel senso di una pretesa del re dei Romani all'incoronazione imperiale, sia nel senso di un'approvazione papale di questa stessa pretesa.
Per quanta importanza abbia assunto la Venerabilem, di pari passo con l'autorità delle decretali papali che si andava gradualmente affermando in Europa, la sua efficacia nella situazione politica contingente fu modesta, sebbene fosse rivolta a Bertoldo di Zähringen, un accreditato candidato al trono nel 1198. Filippo di Svevia mise sempre più alle strette il suo rivale. Nel 1205 riuscì addirittura ad attirare nel suo schieramento l'arcivescovo di Colonia Adolfo di Altena, ma aveva comunque bisogno per i suoi scopi di una finzione giuridica. Rinunciò alla corona per poi poter essere eletto nuovamente da Adolfo, che con questa procedura intendeva sottolineare il principio della libera elezione. Nel 1206 la Curia riprese cautamente i contatti con lo Svevo che aveva scomunicato; la causa di Ottone IV sembrò perduta, allorché l'uccisione del re a Bamberga per mano del conte palatino Ottone di Wittelsbach ‒ un atto di vendetta privo di motivazioni politiche ‒ mutò radicalmente lo scenario politico.
Dopo la morte di Filippo di Svevia, Ottone IV ottenne un generale riconoscimento come sovrano nell'Impero. Sotto la direzione del maresciallo Enrico di Kalden, che poco prima aveva ucciso l'assassino del suo signore, la ministerialità dell'Impero era passata dalla parte del Guelfo. La cosiddetta 'elezione suppletiva' di Ottone da parte dei sostenitori degli Svevi a Halberstadt non fu altro che una promessa di obbedienza elaborata in modo cerimoniale.
Se si considera il destino di Ottone IV sotto il profilo del concetto di elezione, emerge nuovamente quanto questa fosse poco strutturata dal punto di vista giuridico. Ciò non riguardava soltanto il diritto imperiale, ma anche il rapporto fra regnum e sacerdotium. Già nell'ottobre del 1210 l'imperatore sarà scomunicato da Innocenzo III. In realtà con quest'atto il papa non lo aveva deposto, come egli stesso avrebbe confermato. Quindi nel settembre 1211, sotto l'influenza di Filippo II Augusto di Francia, i principi ostili al Guelfo si erano riuniti a Norimberga e al posto di Ottone IV, scomunicato dal papa, avevano proclamato futuro imperatore Federico II: sul piano politico fu l'attuazione della volontà del pontefice. Nessuno nell'Impero pensò a una deposizione formale che integrasse sul piano temporale la scomunica papale. Solo il pontefice si accorse di questa mancanza. Egli approvò l'elezione, sebbene Ottone IV non fosse stato ancora deposto ("nondum Ottone imperatore deposito"). I principi riuniti a Norimberga, una minoranza fra i grandi dell'Impero, dichiararono Ottone eretico, e così facendo fu chiara la conseguenza giuridica del rifiuto dell'obbedienza. Tuttavia non elessero Federico II, bensì si richiamarono alla sua prima elezione 'cassata' e lo proclamarono futuro imperatore: "Ottonem hominem hereticum nominarent […] Fridericum Heinrici imperatoris filium, antea ad universitate electum, futurum imperatorem declararent" (Monumenta Erphesfurtensia saec. XII, XIII, XIV, a cura di O. Holder-Hegger, in M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, XXXXII, 1899, p. 209). Era una dichiarazione trasparente sotto l'aspetto degli interessi politici, e non convinse nessuno che già non fosse convinto in precedenza. Alla fine di settembre scoppiarono conflitti nei territori tedeschi. L'opinione degli Annales S. Rudberti, secondo cui Federico II aveva raccolto la sua eredità, non era condivisa da nessuno dei principi che insistevano sul diritto di voto.
L'atmosfera politica fra il 1198 e il 1210 aveva subito un drammatico mutamento. Filippo di Svevia era stato trattato con rispetto da Innocenzo III anche dopo il verdetto di scomunica: era considerato "nobilis dux Sueviae". Invece Ottone IV dopo la scomunica fu oggetto di aspre ingiurie da parte dello stesso papa, che giunse a chiamarlo Satana. Per motivi di delusione personale che in questa sede non possono essere spiegati nel dettaglio, Innocenzo III, con il suo rifiuto di Ottone IV, aveva condannato indirettamente anche il diritto di voto dei suoi sostenitori. Cominciava già ad annunciarsi la propaganda papale del periodo tardo del regno di Federico II.
Per il graduale riconoscimento di Federico II nell'Impero non furono decisivi né la dieta dei principi riunita a Norimberga nel 1211, né un atto di elezione convincente per i contemporanei, bensì una successione di promesse di obbedienza e il contemporaneo rifiuto dell'obbedienza nei confronti di Ottone IV. In questo scenario la battaglia di Bouvines, del 1214, potrebbe aver svolto un ruolo più modesto di quanto soprattutto i cronisti francesi abbiano voluto mettere in risalto. Più importante fu l'abbandono del sovrano ‒ un principio essenzialmente altomedievale ‒ da parte della ministerialità nel 1212. Ottone IV stava per avere il sopravvento su Ermanno di Turingia, quando la sua giovanissima moglie, la sveva Beatrice, morì dopo sei settimane di matrimonio. I ministeriali dell'Impero, tra i quali il legame con la casa sveva rappresentava per lo più una tradizione familiare, abbandonarono l'esercito dell'imperatore, che a seguito di ciò fu costretto a sospendere la sua campagna militare.
Nel suo testamento Ottone IV, che sarebbe morto nel 1219 sull'Harzburg, stabilì che suo fratello, il conte palatino Enrico, avrebbe dovuto consegnare le insegne imperiali al successore eletto, ovvero a colui che già era stato eletto dalla maggioranza dei principi. In questa decisione si può leggere il punto di vista del Guelfo ‒ che non era stato formalmente deposto ‒ secondo cui Federico II deteneva già il potere nei territori tedeschi. Di fatto Federico poté rinunciare alla conferma della dichiarazione di Norimberga del 1211 tramite un'elezione reale particolare. Vi è un motivo storico contingente se Giovanni Teutonico, nella sua glossa ordinaria successiva al 1215, invece dell'elezione reale ricorre ad una locuzione tardoantica a fondamento della dignità imperiale: "Exercitus facit imperatorem".
La morte di Ottone IV offrì a Federico II l'opportunità di imporre l'elezione del proprio figlio Enrico (VII) nel 1220. L'elezione dei figli di imperatori, nel caso di Enrico VI e di Federico II (nella sua prima elezione), era stata fatta rientrare nel principio del consenso messo in risalto nelle diete. La lettera trionfale dello Svevo a papa Onorio III sull'elezione di Enrico (VII) chiarisce nuovamente questo contesto. Anche i principi in precedenza contrari ora avrebbero approvato l'elezione. Questo stato di cose viene comunicato al papa dopo il racconto particolareggiato dell'antefatto. L'imperatore, secondo l'usanza germanica ‒ ma naturalmente in conformità alle direttive papali ‒ aveva convocato una dieta generale ("curiam generalem"). All'apparenza è di secondaria importanza la locuzione "iuxta morem imperii", ma il luogo della dieta segnala quale fosse l'elemento politico decisivo: Francoforte, ossia la tradizione fondata da Federico I del luogo legittimo dell'elezione, viene usata dall'imperatore al pari del tradizionale rapporto fra dieta ed elezione reale. Ma in questo contesto, nel malumore suscitato dal progetto di monarchia ereditaria, si erano manifestate anche le prime incrinature. Questo stato d'animo si era accentuato in occasione dell'elezione del figlio dell'imperatore Enrico (VII); infatti fu evidente che esisteva una connessione fra quest'elezione e la Confoederatio cum principibus ecclesiasticis dello stesso anno. In realtà la Confoederatio garantiva solo quanto si era verificato di fatto già da lungo tempo, ma la circostanza che i principi ecclesiastici dell'Impero insistessero su un simile patto dimostra che l'effetto della dieta solenne sulla creazione del consenso aveva perso di incisività. Ciò non sorprende dopo i disordini sorti nel 1198, perché essi non consentirono la prosecuzione della dieta generale e solenne.
L'elezione del figlio del re non ancora maggiorenne nel 1220 non lasciava ancora presagire il destino dell'eletto, un destino che rappresenta, fra l'altro, una testimonianza dell'epoca sveva: anche la deposizione reale appartiene infatti alla storia dell'elezione reale. Non era consentita una semplice inversione della decisione dal diritto di elezione al diritto di deposizione ‒ evidente per il pensiero moderno ‒, come già attestano gli eventi del 1211. Un simile ribaltamento, considerato dal punto di vista della storia costituzionale, è possibile solo dopo il precedente della deposizione di re Venceslao nel 1400.
La deposizione di Enrico (VII) nel 1235 è rimasta un episodio senza seguito sul piano storico, il che emerge già dal fatto che l'ordinale del suo nome dev'essere posto tra parentesi, perché nel 1308 quando fu eletto Enrico VII di Lussemburgo nessuno si ricordava più dello Svevo. Indipendentemente dall'assenza di effetti sul piano storico-costituzionale, il destino del figlio del re è rivelatore della forza ancora debole del concetto secondo cui una monarchia viene istituita nel senso formale di un atto elettivo peculiare. Continuò comunque a rimanere centrale la promessa di obbedienza inerente all'elezione.
La deposizione di un re dei Romani da parte di suo padre era già avvenuta nel 1098 nel caso di Corrado, figlio dell'imperatore Enrico IV. Ma mentre allora perlomeno una fonte riferisce che Corrado fu deposto in seguito a una sentenza del tribunale di corte, non possediamo notizie sulla forma giuridica in base alla quale Enrico (VII) perse il suo trono. È certo soltanto che già prima dell'arrivo di suo padre in Germania era un re 'abbandonato' e che nel 1235, come nel 1212, l'antica forma franca dell'abbandono del sovrano svolse ancora un ruolo concomitante all'esautorazione. Il silenzio delle fonti è significativo: lo splendore della dieta di Magonza del 1235 non fu turbato dalla circostanza che un figlio di re perdesse la sua sovranità.
L'autorevolezza dell'imperatore nella dieta di Magonza era stata dimostrata in modo così incisivo che nel 1237 Corrado IV poté essere eletto dai principi senza alcuna contropartita. Quest'elezione reale avvenne a Vienna ancora sotto l'impressione dell'entrata in scena di Federico II nel 1235. Essa rappresenta il vero apogeo della posizione di forza dell'imperatore nelle terre tedesche e contiene al tempo stesso il germe del suo declino. Infatti questo potere dipendeva da una presenza almeno temporanea del sovrano. A Federico II, tuttavia, dopo il 1235 non si presentò più l'opportunità di recarsi nei territori tedeschi. Da questa situazione, a causa della mancata possibilità di creare un consenso fra i principi e il loro monarca, ebbe origine quel vuoto di potere che rese attuabili le due elezioni reali del 1247.
Problemi strutturali della sovranità di Federico II, che riuniva territori italiani e tedeschi, si associarono in un periodo critico a quelli genealogici che accompagnano la storia delle monarchie europee. Già due anni dopo l'elezione di Corrado IV apparve chiaro che l'elezione di un sovrano minorenne, il cui padre era assente, creava notevoli problemi nei territori tedeschi, problemi traducibili nell'esigenza primaria di cercare il 'conseguimento del consenso' nelle diete. In rapida successione i reggenti imperiali nominati dall'imperatore si allontanarono dal re. La situazione divenne assolutamente inestricabile dopo il 1245, quando Federico II fu deposto da papa Innocenzo IV. I contemporanei furono incerti proprio come gli storici successivi nel valutare la situazione giuridica e politica.
La deposizione di Federico II nel primo concilio di Lione da parte di papa Innocenzo IV, con acclamazione del concilio ("approbante […] concilio"), era un atto giuridico assolutamente nuovo. Non si trattava affatto di un proseguimento della scomunica pronunciata da Gregorio VII nel 1076; infatti, come ha argomentato Friedrich Kempf, questo papa "aveva portato con sé nella tomba il diritto di deposizione". Anche Innocenzo III aveva evitato di esprimere formalmente una deposizione imperiale, sebbene ai suoi occhi Ottone IV fosse Satana. Il modo di procedere di Innocenzo IV si spiega soltanto alla luce del rapporto fra canonistica e papato che si fa sempre più stretto nel XIII secolo. La deposizione, dal solo punto di vista canonistico, poggiava su un terreno giuridico sicuro. Indipendentemente dal procedimento dubbio e dai testimoni discutibili, al concilio di Lione la canonistica approvò la possibilità di una deposizione dell'imperatore da parte del papa. Invece nel diritto imperiale questa possibilità non era contemplata. Perciò Federico II poté rilevare che a Lione non era stato presente nessuno dei principi dell'Impero dal cui consenso dipendevano sia l'elezione che la deposizione, né tanto meno erano stati consultati. Bisogna comunque richiamare l'attenzione sul fatto che il diritto imperiale non aveva mai formulato un diritto di deposizione del sovrano da parte dei principi, e che lo Svevo in questa situazione d'emergenza istituì accanto al diritto d'elezione anche il diritto di deposizione. Le questioni giuridiche aperte non furono risolte neppure dalla casualità della morte repentina di Federico II; infatti nelle terre tedesche la deposizione dello Svevo non era stata accettata a maggioranza, per cui più tardi poté essere risollevata la questione se fossero valide le disposizioni imperiali prese fra il 1245 e il 1250.
Le elezioni antisveve del 1247 ‒ quelle del langravio di Turingia Enrico Raspe e, dopo la sua morte prematura, di Guglielmo d'Olanda ‒ furono palesemente elezioni di minoranza, per le quali il Papato dovette investire ingenti somme di denaro: denaro al posto del consenso a fondamento di un'elezione reale. In particolare l'arcivescovo di Colonia alleggerì il peso dei suoi debiti grazie a questi pagamenti papali, che si caratterizzano senza ombra di dubbio come corruzione. Il fatto che un re come Enrico Raspe dovette fare appello ai conti di Turingia per conferire almeno un certo lustro alla sua elezione, e che quest'elezione ebbe luogo davanti alle porte della città di Würzburg, fedele agli Svevi, nella piccola località di Veitshöchheim, manifestano con chiarezza sia il carattere di elezione di minoranza, sia le proporzioni del vuoto di potere che essa non riuscì a colmare.
Il vuoto di potere nelle terre tedesche che coincide con il periodo tardo del regno di Federico II si espresse anche nell'apparente doppia elezione del 1256-1257. L'elezione di Alfonso X di Castiglia, proclamata solo dall'arcivescovo di Treviri come promessa di obbedienza e formulata come pretesa da una proclamazione imperiale particolare a Pisa, è un aneddoto più che un elemento costitutivo della storia dell'elezione reale tedesca. L'elezione di Riccardo di Cornovaglia poté appoggiarsi a un consenso un po' più ampio da parte dei principi della Germania settentrionale e delle città renane; tuttavia rimase un'elezione di minoranza e questo sovrano non poté mai esercitare un autentico dominio nell'Impero. Il vuoto di potere nelle terre tedesche imputabile già a Federico II, e impossibile da ignorare dopo la sua morte, fu descritto con incisività dal poeta politico Rumeland di Sassonia, il quale osservò che su cinque re ‒ era annoverato evidentemente anche Corrado IV ‒ nessuno era stato incoronato ad Aquisgrana.
Solo con l'elezione di Rodolfo d'Asburgo nel 1273 sarebbe stata restaurata una monarchia universalmente riconosciuta in Germania. Fra tutte le elezioni del XIII sec., a prescindere dal caso particolare dell'elezione di Vienna del 1237, fu quella nella quale confluì la minor quantità di denaro. Quest'elezione appartiene alla storia delle elezioni reali dell'epoca sveva, in quanto non avrebbe potuto essere compiuta prescindendo dagli sviluppi che si erano verificati allora. In quest'elezione rientra anche ‒ rievocando scenari del periodo svevo ‒ la dieta di Würzburg del 1275, che si occupò fra l'altro del diritto elettorale.
Le premesse dell'elezione di Rodolfo d'Asburgo ‒ sul piano concreto la nascita dell'organo elettorale composto da sette persone, chiamato in seguito collegio dei principi elettori ‒ rappresentano uno dei campi di ricerca più controversi della medievistica tedesca. Il Codice sassone, che risale a poco prima della dieta di Magonza del 1235, enumerava sette principi che sulla base del loro alto ufficio avrebbero avuto prerogativa di voto nell'elezione reale: i tre arcivescovi di Magonza, Colonia e Treviri in qualità di gran cancellieri di Germania, Italia e Gallia, i conti palatini del Reno come gran siniscalchi, il duca di Sassonia come gran maresciallo, il margravio di Brandeburgo come gran camerario e il re di Boemia come gran coppiere dell'Impero. Tuttavia il boemo, come dichiara Eike von Repgow, compilatore del Codice, non essendo tedesco non poteva esercitare il diritto d'elezione legato all'alto ufficio (Erzamt). Molti studiosi (Castorph, Wolf e, in una prospettiva diversa, Thomas) hanno sostenuto l'opinione che questo celebre paragrafo sull'elezione reale sia stato interpolato nel testo giuridico solo nel quadro dell'elezione del 1273. Questo è impossibile, tuttavia, sotto l'aspetto della tradizione storiografica. Infatti, sebbene non sia stato tramandato un manoscritto del Codice sassone che sia databile con precisione prima dell'anno 1294, è assolutamente inverosimile che un paragrafo interpolato nella Germania settentrionale abbia trovato la via per imporsi nella tradizione complessiva di questo testo giuridico, penetrando nell'area orientale tedesca e anche oltre.
Anche se il paragrafo sull'elezione reale è parte dell'opera di Eike von Repgow, ci si chiede come l'autore sia giunto a stabilire il collegamento tra il diritto di elezione preliminare e l'alto ufficio. Che l'abbia desunto dalla realtà è documentabile solo in senso negativo: nell'opera di Eike von Repgow la dieta, che fu così importante per la storia dell'elezione reale in epoca sveva, non svolge alcun ruolo. L'autore, scrivendo prima del 1235, non aveva nemmeno potuto vivere l'esperienza di una grande dieta, di una "curia celebrata". È possibile che Eike von Repgow abbia reagito all'importanza della posizione della ministerialità imperiale, a cui erano assegnate le cariche ministeriali di corte, ricorrendo alla finzione dell'alto ufficio. Che si tratti di una finzione si ricava, non da ultimo, dal fatto che i principi elettori cominciarono a inserire solo nel 1300 nella loro titolatura sovrana il titolo di 'alto ufficio'.
Mentre la posizione privilegiata dell'arcivescovo di Magonza nell'elezione reale si può desumere dalla storia (già nell'elezione del 1024 l'elettore magontino deteneva la prima vox), quella dell'arcivescovo di Colonia potrebbe fondarsi sulla carica di gran cancelliere di Rainaldo di Dassel all'epoca di Federico I e l'arcivescovo di Treviri basava forse il suo credito sulla circostanza che nel Medioevo la città era ritenuta la più antica fra quelle tedesche ‒ sebbene, secondo l'opinione comune del tempo, fosse situata in "Gallia" ‒, il privilegio degli altri quattro elettori laici è senz'altro difficile da motivare (nel caso dei Guelfi, non era nominata una delle più antiche e insigni stirpi principesche tedesche). Arnim Wolf (2002) riteneva di aver trovato la soluzione nella circostanza che solo questi quattro principi potevano far valere la loro parentela con la casa degli Ottoni attraverso linee di discendenza femminili, e in questo contesto la doppia elezione del 1198 avrebbe svolto un ruolo chiarificatore. Wolf, con una straordinaria conoscenza delle genealogie, dimostrò l'influenza del concetto di cognazione ancora nell'Alto Medioevo, ma le sue tesi sono state accolte con scetticismo per il fatto che presupponevano una profondità di nozioni genealogiche nel mondo principesco che difficilmente può essere ammessa. Franz-Reiner Erkens (2002) ha infine contraddetto con fermezza questa tesi e restaurato nei suoi diritti la teoria dell'alto ufficio del Codice sassone come elemento costitutivo della forma di elezione reale che ebbe il sopravvento a partire dal 1273.
L'elezione di Rodolfo d'Asburgo non si allineò alle teorie di Eike von Repgow, il quale aveva sottolineato che i più importanti della Curia non avrebbero dovuto eleggere a propria discrezione, in quanto dovevano considerarsi vincolati alla volontà di tutti i principi. Invece il Codice svevo, derivato dal Codice sassone con la mediazione decisiva dei Francescani di Augusta ‒ che erano in contatto con i loro confratelli di Magdeburgo ‒, cronologicamente vicino all'elezione di Rodolfo d'Asburgo, coincise con la forma d'elezione applicata nel 1273. È molto plausibile che quest'elezione, normativa per il futuro, sia stata inscenata assumendo elementi dell'epoca sveva nel ricordo trasfigurato della monarchia di quel periodo.
L'elezione del 1273 è più intimamente legata alla storia delle elezioni sveve di quanto non emerga dalle date. Il Codice sassone, che aveva stabilito la suddivisione dei ruoli per inscenare l'elezione del 1273, era nato in epoca sveva. Gli Svevi avevano fissato il luogo dell'elezione, Francoforte, nel senso di una tradizione che fosse garante del diritto. E la dieta di Würzburg del 1275, che è in stretto rapporto oggettivo con l'elezione del 1273, si richiamò a concezioni sveve.
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(traduzione di Maria Paola Arena)