ELETTRONE
. Fin verso la fine del secolo scorso, si ritenne dalla maggior parte dei fisici, che l'elettricità fosse costituita da un fluido elettrico oppure da due fluidi elettrici uno positivo e l'altro negativo. L'idea che a questa concezione dovesse contrapporsi l'altra d'un atomismo dell'elettricità, l'idea cioè dell'esistenza di una quantità minima d'elettricità non ulteriormente suddivisibile fu proposta per la prima volta da G. C. Stoney nel 1874, per spiegare in modo semplice le leggi dell'elettrolisi. In base a tali leggi, e alla conoscenza, sia pure molto imperfetta, che si aveva allora del numero di molecole costituenti un corpo, Stoney riuscì anche a valutare correttamente l'ordine di grandezza della carica di questo atomo d'elettricità per il quale egli stesso propose in seguito (1891) il nome d'elettrone.
Le leggi dell'elettrolisi, e, più tardi, le leggi del passaggio dell'elettricità attraverso ai gas, dimostravano che la carica elettrica degli ioni (cioè degli atomi o molecole cariche d'elettricità) era sempre un multiplo intero, positivo o negativo di questa minima quantità d'elettricità. Invece la massa degli ioni risultò molto variabile; nell'elettrolisi gli ioni hanno masse eguali a quelle degli atomi o degli aggruppamenti di atomi che li costituiscono; e similmente si trovano anche nei gas alcuni ioni che hanno massa di questo ordine di grandezza. Fu perciò fondamentale la scoperta fatta indipendentemente nel 1897 da J. J. Thomson e E. Wiechert, dell'esistenza, nella scarica elettrica, nei gas rarefatti, di corpuscoli carichi d'elettricità negativa aventi massa enormemente minore della massa degli atomi; precisamente circa 1800 volte più piccola della massa dell'atomo più leggiero, cioè dell'idrogeno. A questi corpuscoli si dà oggi il nome di elettroni. Con ciò il significato della parola elettrone, usata in principio come sinonimo d'atomo d'elettricità sia positiva sia negativa, è venuto a subire una notevole restrizione.
La prima conoscenza dell'elettrone, nel senso in cui si usa attualmente questa parola, si ebbe come abbiamo accennato, nello studio del passaggio della scarica elettrica nei gas rarefatti; precisamente nel fenomeno dei raggi catodici (v. catodici, raggi). Introduciamo in un tubo di vetro della forma mostrata nella fig. i due lastrine metalliche C e A collegate con l'esterno del tubo per me2zo di fili metallici saldati entro il vetro. Stabiliamo poi tra C e A, per mezzo d'una macchina elettrostatica o d'altro apparecchio equivalente, una differenza di potenziale di alcune migliaia di volt, in modo che la lastrina C risulti positiva (elettrodo negativo o catodo) e la lastrina A risulti negativa (elettrodo positivo o anodo). Se poi per mezzo d'una pompa rarefacciamo l'aria contenuta entro il tubo, avverrà il passaggio della scarica elettrica tra gli elettrodi C ed A, accompagnato da una luminosità del tubo i cui aspetti variano a seconda del grado di rarefazione (v. elettriche, scariche). Quando la pressione ha raggiunto un valore sufficientemente basso (dell'ordine di grandezza di 1/100 di mm. di mercurio) si osserva una radiazione nuova, i raggi catodici, che, partendo dal catodo in raggi rettilinei perpendicolari alla sua superficie, attraversano tutto il tubo di scarica e, urtando la parete del vetro nel punto B opposto alla superficie del catodo, vi producono una fluorescenza caratteristica verdastra abbastanza brillante. Se la rarefazione nel tubo poi non è troppo spinta, si può facilmente seguire il percorso dei raggi catodici entro il tubo poiché essi producono una debole luminescenza del gas che attraversano; si riscontra in tal modo che i raggi percorrono effettivamente il tratto da C a B in linea retta.
Lo studio fisico delle proprietà dei raggi catodici ha dimostrato che essi sono costituiti da una proiezione di elettroni, che vengono lanciati dalla superficie del catodo con una velocità assai considerevole dipendente dalla differenza di potenziale applicata al tubo di scarica. Una delle prove più semplici del fatto che i raggi catodici sono una proiezione di corpuscoli elettricamente negativi, è data dalle deviazioni che essi subiscono quando attraversano un campo elettrico o un campo magnetico. L'apparecchio rappresentato nella fig. 2 è un tubo di scarica, simile a quello della fig. 1 (nel disegno sono stati omessi, per evitare confusione, l'anodo A e il tubo di connessione con la pompa). Entro il nuovo tubo sono due elettrodi supplementari N e M tra i quali si può, occorrendo, stabilire un campo elettrico portandoli a potenziali differenti. Manteniamo dapprima M e N allo stesso potenziale, per modo che tra di essi non si abbia un campo elettrico: azionando il tubo, vedremo allora che i raggi catodici, che partono dal catodo C, attraversano rettilineamente lo spazio interposto tra M e N e vanno a finire sul vetro in B nel punto opposto al catodo C. Stabiliamo ora un campo elettrico tra M e N, portando N a potenziale positivo ed M a potenziale negativo, in modo che il campo elettrico sia diretto da N verso M. Vedremo allora che il fascio dei raggi catodici devia, come è mostrato nella figura, e va a finire sul vetro in B′. Questa esperienza ci mostra che i raggi catodici vengono attirati dalla lastra positiva N, ciò che s'interpreta immediatamente ammettendo che i corpuscoli che li costituiscono portino una carica elettrica negativa.
Alla stessa conclusione si arriva osservando la deviazione che subisce un fascetto di raggi catodici attraversando un campo magnetico. Nella fig. 3 è rappresentato schematicamente un tubo a raggi catodici con catodo C. Facciamo passare il fascetto di raggi uscente da C attraverso i due poli d'una calamita, in modo che il percorso dei raggi sia perpendicolare alle linee di forza del campo magnetico prodotto dalla calamita. Nella figura si è supposto che il polo nord sia al disopra e il polo sud al disotto del tubo, e le linee di forza perciò sono dirette dall'alto verso il basso. Il rettangolo punteggiato rappresenta la proiezione dei due poli sul piano della figura. Sotto l'azione del campo magnetico i raggi catodici deviano il loro percorso e s'incurvano, come è mostrato nella fig. 3, andando a finire sulla parete del tubo in Bn. Anche questa deviazione magnetica trova immediata spiegazione se si ammette che i raggi catodici siano una proiezione di corpuscoli elettrizzati negativamente. In questa ipotesi infatti il fascetto dei raggi catodici equivale a una corrente elettrica di verso opposto a quello del movimento dei raggi, poiché la carica è negativa. Su questa corrente elettrica, per le ordinarie leggi dell'elettrodinamica, il campo magnetico esercita una forza perpendicolare alle linee di forza magnetica e alla direzione della corrente, il cui verso che risulta immediatamente dalla regola di Ampère, è appunto tale da deviare i raggi catodici nel modo indicato dalla figura.
Le esperienze ora descritte sopra la deviazione elettrica e magnetica dei raggi catodici, oltre a indicarci il segno della carica elettrica dei corpuscoli che li costituiscono, ci permettono anche di misurare la loro velocità e il rapporto e/m tra la carica elettrica e la massa dei corpuscoli.
Senza entrare in particolari tecnici sopra l'esecuzione di queste misure, ci limitiamo a esporre il principio su cui esse sono basate.
Quando un elettrone di carica elettrica e si trova in un campo elettrico d'intensità E si esercita su di esso una forza
Similmente si esercita una forza sull'elettrone quando questo si muove in un campo magnetico d'intensità H. Questa seconda forza è data, conformemente alle leggi dell'elettrodinamica, dall'espressione
essendo v la velocità (vettoriale) della carica elettrica e c il rapporto tra le unità elettromagnetica ed elettrostatica di quantità di elettricità che, come è noto, è eguale alla velocità della luce. Quando l'elettrone si muove in una regione dello spazio in cui si abbia simultaneamente un campo elettrico E e un campo magnetico H, la forza che agisce su di esso è la somma vettoriale delle due forze F′ e F″ dovute ai due campi; e cioè
Consideriamo dapprima l'effetto della forza (1) esercitata da un campo elettrico, che supporremo uniforme e parallelo all'asse y (fig. 4). La forza eE esercitata sul corpuscolo dal campo E, sarà essa pure parallela all'asse y e avrà grandezza costante; essa imprimerà perciò al corpuscolo un'accelerazione eE/m, essa pure costante in grandezza e direzione. Il moto del corpuscolo sarà perciò un moto parabolico uniformemente accelerato. Se il corpuscolo parte dall'origine O delle coordinate avendo velocità v parallela all'asse delle x, si ha dalle note formule del moto uniformemente accelerato che la sua posizione, dopo trascorso il tempo t, avrà per coordinate
da cui, eliminando t, si ottiene l'equazione della traiettoria del corpuscolo
Da questa equazione si ricava
Osserviamo che le grandezze che figurano nel secondo membro di questa equazione sono tutte accessibili alla misura diretta; possiamo infatti misurare senz'altro il campo elettrico E: inoltre osservando la traiettoria di un fascetto di raggi catodici che passano attraverso a esso otteniamo i valori di x e y. La (6) ci fornisce così una prima relazione tra e, m, v.
Ne possiamo facilmente ottenere un'altra studiando la deviazione che i raggi catodici subiscono attraversando un campo magnetico. Consideriamo (fig. 5) un fascetto di raggi catodici che si muove nel piano della figura; e supponiamo che esso attraversi un campo magnetico uniforme H avente le linee di forza perpendicolari al piano stesso. Siccome la velocità v dei raggi catodici è perpendicolare alle linee di forza, avremo, conformemente alla (2), che sugli elettroni si esercita una forza con la direzione, indicata nella figura, perpendicolare alla traiettoria, e grandezza eHv/c. Sotto l'azione di questa forza la traiettoria s'incurverà; sia R il suo raggio di curvatura. Scrivendo che la forza esercitata dal campo H è equilibrata dalla forza centrifuga, otteniamo la seguente espressione:
da cui risulta che la traiettoria dei raggi catodici è un cerchio di raggio
Dalla (7) otteniamo immediatamente una nuova relazione tra e, m, v; essa può scriversi nella forma
in cui tutte le grandezze del secondo membro sono direttamente misurabili. Combinando la (9) con la (6) ricaviamo
che ci permettono di misurare la velocità dei raggi catodici e il rapporto tra la carica elettrica e la massa degli elettroni che li costituiscono.
Con metodi basati sostanzialmente sopra il principio qui esposto si è trovato che la velocità dei corpuscoli catodici può essere differente a seconda delle condizioni della scarica in cui essi sono prodotti; essa è tanto maggiore quanto più grande è la differenza di potenziale applicata al tubo di scarica. Invece il rapporto e/m tra la carica e la massa degli elettroni ha sempre lo stesso valore, entro i limiti degli errori sperimentali, qualunque siano le condizioni della scarica, il gas che si trova nel tubo o i metalli di cui sono costituiti gli elettrodi. Questo rapporto è
La costanza di questo rapporto induce a ritenere che esista una sola specie di elettroni che costituiscono raggi catodici. Studî ulteriori hanno ormai dimostrato che la carica elettrica e la massa degli elettroni hanno sempre lo stesso valore, qualunque sia la sostanza da cui gli elettroni provengono e qualunque sia il procedimento con cui essi sono stati estratti.
La spettroscopia, e in particolare l'effetto Zeemann (v. atomo) hanno poi dimostrato che lo stesso valore del rapporto tra carica e massa dell'elettrone si ha anche per gli elettroni interni agli atomi che, con i loro movimenti, producono l'emissione della luce.
Essendo noto, come abbiamo visto, il rapporto e/m tra la carica e la massa dell'elettrone, per conoscere separatamente i valori di queste due grandezze basta misurarne una sola. Le prime misure dirette della carica dell'elettrone sono dovute a J. S. Townsend; oggi conosciamo con notevole esattezza il valore della carica dell'elettrone grazie alle misure di R. A. Millikan; esse sono basate sul principio seguente:
Nella fig. 6, a e b rappresentano due piatti metallici orizzontali disposti uno al disopra dell'altro. Se stabiliamo tra a e b una differenza di potenziale opportuna otterremo, nello spazio interposto tra di essi, un campo elettrico, approssimativamente uniforme, la cui intensità E è conosciuta e può farsi variare a piacere. Tra i due piatti a e b vengono spruzzate delle minutissime goccioline di olio il cui movimento viene osservato al microscopio. Tali goccioline sono per lo più cariche di elettricità, per strofinio; se esse per strofinio hanno perduto z elettroni, la loro carica elettrica sarà ze, e essendo la carica dell'elettrone, a meno del segno. Manteniamo dapprima i due piatti a e b allo stesso potenziale; sopra la gocciolina allora non agirà naturalmente nessuna forza elettrica, per modo che essa, sotto l'azione del suo peso p andrà cadendo. La sua velocità di caduta, che si può osservare al microscopio, è però assai piccola per effetto della forte resistenza dell'aria. Si capisce facilmente che la velocità di caduta della gocciolina dipende dalle sue dimensioni, e cresce al crescere di queste. Dalla misura della velocità di caduta si possono perciò, con opportuni accorgimenti, dedurre le dimensioni della goccia e quindi il suo peso p. Eseguita questa misura preliminare, stabiliamo tra i due piatti una differenza di potenziale in modo tale che il campo elettrico E nello spazio interposto sia diretto verso l'alto. Siccome la carica elettrica della goccia è ze verrà allora a esercitarsi su di essa una forza zeE diretta verso l'alto; a seconda che questa maggiore o minore del peso p, la gocciolina si muoverà allora verso l'alto o verso il basso. Facendo variare l'intensità del campo elettrico, si riesce a ottenere che le due forze si facciano equilibrio, ciò che si riconosce dal fatto che la gocciolina resta ferma. In queste condizioni si avrà
Ora accade assai spesso che la goccia perda spontaneamente per effetto fotoelettrico un altro elettrone; la sua carica elettrica diventerà allora (z + 1)e e la goccia incomincerà a spostarsi verso l'alto, poiché il campo elettrico esercita ora su di essa una forza (z + 1)eE, maggiore del peso. Riducendo però l'intensità del campo elettrico, potremo trovare un nuovo valore E′ della sua intensità, per cui si ha di nuovo equilibrio tra il peso p e l'azione del campo. Si avrà allora evidentemente
Da questa equazione e dalla precedente si ricava
che ci esprime la carica elettrica dell'elettrone per mezzo di sole grandezze direttamente misurabili.
Con questo metodo R. A. Millikan ha trovato, come media di molte misure concordanti, il seguente valore per la sua carica elettrica dell'elettrone:
con un errore probabile all'incirca dell'uno per mille.
Il precedente valore della carica elettrica ha una grandissima importanza per tutta la fisica molecolare, non solo come carica dell'elettrone, ma anche per il fatto che può ben dirsi che essa rappresenta l'unità di misura naturale per le cariche elettriche. Tutte le cariche elettriche conosciute, sia negative che positive, sono sempre multipli interi della carica elettronica.
La conoscenza della carica elettrica, e del rapporto e/m tra la carica e la massa dell'elettrone, ci permette immediatamente di conoscere la massa elettronica: essa risulta:
ed equivale perciò a circa 1/1800 della massa dell'idrogeno che l'atomo più leggiero.
Il fatto che la massa dell'elettrone è tanto più piccola della massa degli altri corpuscoli, ha fatto pensare spesso che essa non debba considerarsi d'origine materiale, bensì d'origine elettromagnetica. Risulta dall'elettrodinamica che un corpo carico di elettricità, indipendentemente dall'eventuale massa del suo sostegno materiale, ha anche, per il solo fatto di contenere una carica elettrica, delle proprietà d'inerzia in tutto simili a quelle d'una massa ordinaria. A questa massa apparente si dà il nome di massa elettromagnetica.
Si trova così per es., che una sferettina di raggio r sulla cui superficie sia distribuita la quantità d'elettricità e ha una massa elettromagnetica
oppure, se si tien conto di certe correzioni relativistiche
dove c rappresenta la velocità della luce.
Se fosse vera questa interpretazione della massa dell'elettrone, si potrebbe per mezzo della (11) calcolare il raggio dell'elettrone conoscendone la carica elettrica e la massa. Il raggio risulterebbe precisamente di 1,4.10-13 cm. pari a circa centomila volte meno delle dimensioni degli atomi.
Non ci si può nascondere tuttavia che il valore di questa considerazione è assai scarso; nulla infatti ci autorizza ad ammettere che anche all'elettrone, data la sua estrema piccolezza si possano applicare i risultati di considerazioni dedotte dall'elettrodinamica dei corpi macroscopici; abbiamo anzi delle buone ragioni per ritenere che ciò non sia in alcun modo lecito. Il problema di sapere se, e fino a che punto, si possa parlare d'un raggio dell'elettrone è fino ad oggi completamente insoluto, ed è intimamente collegato al problema della determinazione delle alterazioni ancora sconosciute che subiscono le leggi dell'elettrodinamica quando si applicano a sistemi di dimensioni notevolmente più piccole di quelle dell'atomo.
Gli elettroni sono i soli corpi sui quali sia stato possibile verificare con una discreta esattezza la validità delle leggi della meccanica relativistica; ciò dipende dal fatto che si riesce ad imprimere agli elettroni velocità prossime a quelle della luce, cosa che non è possibile per nessun altro corpo. Secondo la teoria della relatività la legge classica della meccanica del punto, massa per accelerazione forza, è una legge di prima approssimazione, alla quale, per corpi dotati di velocità dell'ordine di grandezza della velocità della luce, si deve sostituire la legge relativistica
in cui v rappresenta la velocità ed F la forza agente sul corpuscolo. La legge (12) che, con opportune ipotesi, può anche dedursi, per corpi dotati di massa elettromagnetica, dall'elettrodinamica ordinaria, coincide praticamente con le leggi consuete per corpi che abbiano velocità piccole, mentre le deviazioni sono sensibilissime quando la velocità raggiunge valori dell'ordine di grandezza di c; in particolare segue dalla (12) che occorre un'energia infinitamente grande per imprimere a qualunque corpo una velocità uguale a quella della luce, così che tale velocità si presenta come un limite superiore di tutte le velocità realizzabili per un corpo. W. Kauffmann, A. H. Bucherer e altri hanno potuto effettivamente verificare, mediante esperienze eseguite su raggi catodici assai veloci oppure sulle particelle β, che gli elettroni obbediscono alla legge relativistica (12); ciò che del resto trova anche una conferma indiretta nel fatto che si conoscono elettroni aventi una velocità che arriva fino a 99/100 della velocità della luce, mentre non se ne conoscono che raggiungano oppure superino tale velocità.
Oltre all'avere una carica elettrica e una massa con i valori che abbiamo indicato, l'elettrone ha anche altre proprietà che sono risultate principalmente dagli studî spettroscopici (v. atomo) e che possono ormai considerarsi accertate pur mancando prove dirette. Per spiegare la struttura degli spettri atomici e del sistema periodico degli elementi è stato infatti necessario ammettere che l'elettrone abbia una quantità di moto areale intrinseca rispetto al proprio centro e un momento magnetico coassiale con questa. A tale ipotesi, proposta per la prima volta da G. E. Uhlenbeck e S. Goudsmit, si dà il nome di ipotesi dell'elettrone rotante; essa infatti potrebbe interpretarsi formalmente pensando l'elettrone animato da un moto di rotazione attorno a sé stesso, che spiegherebbe l'esistenza simultanea della quantità di moto areale e del momento magnetico. Naturalmente questa interpretazione non è in alcun modo da prendersi alla lettera; oggi anzi si ritiene generalmente che queste proprietà dell'elettrone siano un'estrinsecazione di fenomeni relativistici. La quantità di moto areale intrinseca dell'elettrone ha valore h/4 essendo h la costante di Planck; il suo momento magnetico è pari a un magnetone di Bohr, cioè o,92.10-20 unità C.G.S.
Gli elettroni sono uno dei costituenti essenziali di tutti gli atomi nei quali essi sono sempre presenti in numero maggiore o minore; per le proprietà dell'elettrone nell'atomo, v. atomo. Essendo contenuti in tutti gli atomi, gli elettroni sono naturalmente sempre presenti in qualsiasi sostanza e contribuiscono a determinare le proprietà fisiche. Una delle proprietà che più direttamente dipende dalla presenza degli elettroni è la conducibilità elettrica; propriamente la conducibilità elettrica dei metalli e non quella degli elettroliti (v. elettrolisi), nei quali il trasporto dell'elettricità avviene con un meccanismo alquanto differente.
Negl'isolanti ogni elettrone può considerarsi legato a un certo atomo e non può perciò contribuire al trasporto dell'elettricità non essendo libero di muoversi da una parte all'altra del corpo. Invece si ritiene che nei metalli si abbia un certo numero di elettroni liberi di muoversi, i quali possono in qualche modo assimilarsi a un gas di elettroni che permea gl'interstizî della struttura atomica del metallo. Sotto l'azione d'un campo elettrico, questi elettroni si spostano nella direzione della forza che il campo esercita su di essi, originando così il passaggio della corrente elettrica.
Gli elettroni che si trovano nell'interno dei metalli, o delle altre sostanze, ne possono venire estratti per mezzo dell'azione della luce. Se s'illumina la superficie d'un metallo con luce di frequenza conveniente, si osserva infatti che da esso si liberano degli elettroni. Il fenomeno prende il nome di effetto fotoelettrico (v. fotoelettricità); affinché la luce possa produrlo occorre che la sua frequenza sia superiore a un certo limite, soglia fotoelettrica, che dipende dalla natura della sostanza dalla quale si vogliono estrarre gli elettroni. In genere la soglia fotoelettrica è piuttosto bassa per i metalli, in particolare per i metalli alcalini, mentre è più elevata per le altre sostanze per le quali l'effetto fotoelettrico si produce solo con radiazioni molto ultraviolette.
Gli elettroni possono venire estratti da un metallo anche per semplice azione della temperatura. Infatti dalla superficie di un metallo scaldato a temperatura molto elevata si liberano spontaneamente degli elettroni; questo fenomeno si dice effetto termoionico (v. termoionici, fenomeni). La quantità degli elettroni liberati da un metallo per effetto termoionico cresce assai rapidamente con la temperatura; essa dipende inoltre dalla natura del metallo ed è assai influenzata dallo stato della sua superficie; bastano infatti tracce d'impurità presenti sulla superficie per alterare moltissimo l'intensità dell'emissione. L'effetto termoionico ha importantissime applicazioni tecniche nelle lampade a tre elettrodi (triodi) usate in radiotelegrafia e radiotelefonia, e nelle lampade a due elettrodi (diodi) usate per rettificare le correnti alternate. La corrente che attraversa queste lampade è infatti costituita dagli elettroni emessi dal filamento caldo per ottenere un'emissione particolarmente intensa; i filamenti vengono spesso coperti da un sottilissimo strato di ossidi metallici o di altre opportune sostanze che ne elevano grandemente il potere termoionico.
I due effetti fotoelettrico e termoionico sono intimamente connessi, poiché dipendono ambedue dall'energia di estrazione degli elettroni, cioè dall'energia necessaria per portare un elettrone fuori del metallo. Quanto minore è tale energia, tanto più intensa, a parità di temperatura, è l'emissione termoionica di elettroni. Inoltre l'energia di estrazione w è collegata alla frequenza limite ν0 dell'effetto fotoelettrico dalla semplicissima relazione di proporzionalità
in cui h rappresenta la costante di Planck, che ha il valore di 6,54.10-27 unità C.G.S. La relazione precedente s'interpreta osservando che, per poter estrarre l'elettrone dal metallo, occorre che l'energia a esso comunicata dalla luce, che è eguale a un quanto hv, sia almeno eguale all'energia di estrazione. Infine le energie di estrazione sono legate in modo assai semplice all'effetto Volta, cioè alla differenza di potenziale che si stabilisce spontaneamente tra due metalli diversi posti in contatto. Tale differenza di potenziale è data infatti dalla differenza w2 − w1 delle energie di estrazione dei due metalli, divisa per la carica elettrica e dell'elettrone.
Oltre a essere il costituente della parte esterna dell'atomo, gli elettroni sono certamente presenti anche nell'interno dei nuclei (v. nucleo); ciò è dimostrato dai fenomeni radioattivi e particolarmente dall'emissione dei raggi β (v. radioattività). I raggi sono una radiazione simile, sotto molti aspetti, ai raggi catodici; essi sono costituiti da elettroni velocissimi che vengono proiettati spontaneamente fuori dal nucleo di alcuni elementi radioattivi; la loro velocità è in genere poco inferiore a quella della luce, e la loro energia è dell'ordine di grandezza di quella che avrebbero elettroni catodici prodotti in un tubo di scarica azionato da una differenza di potenziale di qualche milione di volt.
Le idee dei fisici sopra la natura degli elettroni, come del resto su quella di qualsiasi corpuscolo, hanno subito negli ultimi anni un notevole cambiamento, determinato sostanzialmente dai progressi della teoria dell'atomo. Si è riconosciuto infatti che l'ordinaria descrizione cinematica del moto di un punto materiale è insufficiente alla rappresentazione della meccanica dei corpuscoli di dimensioni atomiche o ultratomiche. Senza entrare in particolari (v. atomo), accenniamo al fatto che si è riconosciuto che una proiezione di corpuscoli ha molte proprietà che la ravvicinano a una propagazione ondulatoria; in particolare essa dà luogo a fenomeni d'interferenza in tutto simili a quelli che avrebbero luogo per una radiazione ondulatoria di lunghezza d'onda
Fenomeni d'interferenza dei raggi elettronici sono stati effettivamente osservati da G. Davisson, L. H. Germer e altri, facendo cadere un fascetto di elettroni sopra un reticolato cristallino; le immagini di diffrazione che si ottengono hanno in molti casi una nettezza non inferiore a quella che si ha nelle interferenze della luce oppure dei raggi X.
Bibl.: R. A. Millikan, The electron, Chicago 1918; J. J. Thomson, Conduction of electricity through Gases, Cambridge 1903; J. S. Townsend, Electricity in Gases, Oxford 1915.