VITIELLO, Elena (Francesca Bertini). – Nacque a Firenze il 5 gennaio 1892. La madre, Adele Maria Fratiglioni, nubile al momento della sua nascita, la affidò al Regio Spedale degli Innocenti, dove le fu assegnato il cognome fittizio Taddei: solo più di due anni dopo la riconobbe come figlia naturale e la riprese con sé. Il padre, Arturo Salvatore Vitiello, viaggiatore spensierato e giocatore d’azzardo che «non aveva mai lavorato» (F. Bertini, Il resto non conta, 1969, p. 18), poté legittimarla solo dopo il matrimonio con la donna, avvenuto nel 1910 (Jandelli, 2006, pp. 85-87)
Poche le notizie certe sui suoi primi sedici anni, perché l’attrice mantenne sempre il massimo riserbo su di sé, affidando alle sue memorie una versione abbellita ed edulcorata dei fatti. Nell’autobiografia raccontò di aver trascorso un’infanzia felice tra Firenze e Vallombrosa: poiché i suoi genitori «viaggiavano sempre», di essere stata cresciuta dai nonni materni, Ermelinda e Amedeo, che la chiamarono Francesca in ricordo di una loro figlia morta bambina (Il resto non conta, cit., p. 6). Dopo la morte di Ermelinda e il nuovo matrimonio di Amedeo, Elena si trasferì a Napoli con la madre. Si stabilirono a Foria, nella casa del padre di Vitiello, Vincenzo, vedovo e agiato commerciante di tessuti. Non abbiamo notizie circa i suoi studi: la madre, che era istruita, le avrebbe insegnato il francese (ibid., p. 25). A dodici anni si appassionò alla danza, sognando di diventare ballerina. Nel 1907, tramite la figlia Maria, conobbe Eduardo Scarpetta, che la introdusse nell’ambiente del teatro, dove esordì nel ruolo della servetta in commedie vernacolari. Sarebbe stato Scarpetta a suggerirle lo pseudonimo Francesca Bertini. L’esperienza durò poco: non conosceva la lingua napoletana e la sua famiglia non la voleva sul palcoscenico. Nel 1908 Salvatore Di Giacomo, amico di famiglia, le propose di reclamizzare un negozio di fotografia con un cortometraggio amatoriale, La dea del mare. Inguainata in «veli seminati di conchiglie marine», posò davanti ai Faraglioni di Capri (F. Bertini, Sensazioni e ricordi, 1918). Non era mai entrata in una sala né sapeva cosa fosse il cinematografo, considerato un passatempo popolare, non una forma d’arte. Il mondo della cultura e la borghesia lo disprezzavano o lo ignoravano. E la ragazza sognava di diventare una grande attrice, come Sarah Berhnard o Eleonora Duse. Così nel 1909 ritentò la via delle scene. Al teatro Nuovo, nella compagnia di Gennaro Pantalena, fu una stiratrice nel primo allestimento di Assunta Spina di Di Giacomo. Secondo il parere di questo, non aveva speranza di affermarsi in teatro: «era la stonatura del teatro dialettale» (Il resto non conta, cit., p. 16).
Ma Gerolamo Lo Savio cercava un’attrice per la parte di Eleonora nel Trovatore (1910), che Louis Gasnier doveva girare a Roma per la FAI (Film d’Arte Italiana), succursale italiana della Pathé, e notò la singolare avvenenza della ‘stiratrice’: una bellezza mediterranea dagli occhi scuri espressivi, profilo imperioso, lunghi e folti capelli bruni. Nella fase ancora pionieristica del cinema non si chiedeva esperienza agli attori: Bertini seguì Lo Savio a Roma, girò il film e tornò a Napoli. La prova convinse, la FAI le propose un contratto e Bertini si trasferì a Roma. Fra il 1910 e il 1912 girò diciotto film, diretti per lo più da Lo Savio e da Ugo Falena. La giovane attrice era ancora acerba, ma il suo erotismo poteva già stregare. Lucio D’Ambra, che nel marzo del 1910 visitò il set di Salomè dove Francesca Bertini, al suo secondo film, interpretava ancora la parte minore di una schiava, esaltò la «sua bella testa dalla quale precipita a terra una meravigliosa pioggia di capelli color ebano» (Il Tirso, p. 3, cit. in Bernardini - Martinelli, 1985, p. 13): fu il primo degli ammiratori dell’attrice.
Bella, magnetica, dotata di una misteriosa fotogenia e di una personalità spiccata ottenne subito il ruolo di prima attrice nella Francesca da Rimini (1910), seguita da adattamenti di tragedie e romanzi, tra cui Re Lear (1910), Il mercante di Venezia (1910), Tristano e Isotta (1911), La contessa di Challant (1911), La congiura di Fieschi (1911), Beatrice d’Este (1912), Il falco rosso (1912), Una tragedia alla corte di Milano (1912), Un amore di Pietro de’ Medici (1912), Romeo e Giulietta (1912). Questi truci drammi ambientati negli scenari autentici dei palazzi medievali e delle città italiane erano destinati al mercato estero e piacquero. Ma Bertini era ambiziosa. E attenta alle potenzialità espressive del nuovo mezzo. Non l’appagavano i ruoli convenzionali e paludati che le proponeva la FAI. Nel 1911 vide L’abisso, un film danese nel quale Asta Nielsen interpretava una ragazza sedotta dall’ambiguo mondo del circo. Si chiese: «Perché devo stare con questi fagotti addosso, queste parrucche? Io posso fare le cose moderne» (Mingozzi, 2003, p. 50). Si offrì quindi al barone Alberto Fassini della Cines, la più grande casa di produzione di Roma. Che la accontentò, provandola subito in un film realista, Suonatori ambulanti (1912), diretto dal conte Giulio Antamoro. La Cines le dette la possibilità di cimentarsi in vari generi: il film storico, il dramma moderno e la commedia. La rosa di Tebe (1912), ambientato nell’Egitto dei faraoni, fu diretto da Enrico Guazzoni, che l’anno dopo sarebbe diventato, con Quo vadis?, il maestro dei kolossal; Il fascino della violenza (1912), storia dell’inquieta moglie di un operaio, che tradisce con il suo caposquadra, scatenandone la furia omicida e poi si accusa del delitto da lui commesso, sembra una riscrittura operaia di Assunta Spina, mentre in Le due scommesse (1912) poté dimostrare la sua versatilità in un ruolo di attrice brillante.
Ma la Cines aveva già troppe prime donne e Bertini, forte del successo crescente dei suoi film, pretendeva più spazio. Passò alla Celio Film, succursale della Cines, diretta dal conte Baldassarre Negroni: per la Celio, in due anni, girò venti film. Fin dalla commedia Panne d’auto (1912) formò una squadra affiatata con il regista Negroni e con gli attori Alberto Collo ed Emilio Ghione. Con loro, ancora nel 1912 realizzò Lagrime e sorrisi e Tragico amore, e nel 1913 Per la sua gioia, Per il blasone, In faccia al destino, La cricca dorata, Terra promessa, L’ultima carta, La maestrina, Il veleno delle parole, Idolo infranto, Tramonto, La gloria, La donna altrui.
Si trattava per lo più di drammi moderni, nei quali interpretava donne passionali, ma di animo puro, per amore disposte a ogni sacrificio. L’anima del demi-monde (1913), ambientato nel mondo equivoco degli apaches, La bufera (1913), di messinscena verista, e L’Amazzone mascherata (1914), in cui cavalcava e guidava la motocicletta, rappresentarono invece una prova generale per gli imminenti veri trionfi. Primo dei quali Histoire d’un Pierrot (1914), dalla pantomima di Fernand Beissier: le proiezioni erano accompagnate dalla musica di Mario Costa eseguita in sincrono con le immagini, sicché si può considerarlo un antesignano del musical. Travisata dal costume e dal trucco, Bertini interpretava il protagonista. Recitare un personaggio maschile era rivoluzionario nell’ambiente dello spettacolo italiano, ma vi si erano provate con successo le attrici ammirate dalla Bertini (Bernhard, Nielsen). Con la Celio, Francesca Bertini divenne una ‘diva’: il termine fu usato per la prima volta per lei nel 1915 in una recensione di Sangue bleu (Savio, p. 404). Il film, uscito nel settembre del 1914 e diretto da Nino Oxilia, era un dramma di perdizione, nel quale Bertini si degradava per amore fino a diventare ballerina delle Folies-Bergère ma si riscattava piantandosi una spada nel petto mentre ballava ‘il tango della morte’.
Nell’estate di quello stesso anno la Celio ridusse attività e paghe a causa del conflitto: Bertini le fece causa, si svincolò e firmò un contratto di esclusiva con Gioacchino Mecheri che, già direttore generale della Celio, si metteva in proprio con la Tiber Film (Il resto non conta, cit., p. 83). Ma l’avvocato napoletano Giuseppe Barattolo, distributore ed esercente cinematografico, intendeva passare alla produzione, fondò la Caesar Film e le offrì un contratto favoloso di 15.000 lire per due film. Bertini considerava ‘don Peppino’ un imprenditore spregiudicato «pieno di idee sagaci e di trovate geniali» (ibid., p. 84), capace di valorizzarla, e accettò di lavorare per lui. Mecheri, che stava ancora allestendo i teatri di posa, acconsentì incautamente a prestargli la ‘sua’ attrice. Ma Barattolo non gliela restituì mai e affrontò il processo che seguì alla contesa: non dovette pentirsene. Il nome di Francesca Bertini sulla locandina ormai bastava a riempire le sale. E non solo in Italia. Negli anni del primo conflitto mondiale, i suoi film si vendevano sul mercato internazionale a scatola chiusa. Le spettatrici copiavano le sue mises, il bel mondo accorreva alle sue prime come all’opera, gli ammiratori spedivano cartoline illustrate con la sua effigie e le scrivevano lettere d’amore.
Il primo film della Caesar, Nelly la gigolette (1915), una tenebrosa storia di malavita e vendetta, ebbe un fenomenale successo di pubblico. Bertini interpretava la danzatrice del titolo, mentre Ghione (anche regista) era l’apache Zar-la-mort. Ghione avrebbe poi serializzato il personaggio, mentre Bertini, sempre in cerca di novità, rifiutò. E si propose invece per la trasposizione del dramma di Di Giacomo, Assunta Spina. Come regista e coprotagonista fu scritturato Gustavo Serena, con il quale aveva già recitato in Giulietta e Romeo. Assunta Spina costò 60.000 lire. I 2200 metri di pellicola furono girati alla fine di novembre del 1914, tra le strade e i vicoli di Napoli, allagati dalla pioggia, al mercato, nelle aule del tribunale di Castel Capuano, in carcere, a Marechiaro. Con attori non professionisti salvo i due protagonisti: passanti, scugnizzi, anche poliziotti. Con luce naturale (nonostante il tempo infernale e senza sole) e con la macchina da presa talvolta nascosta perché i napoletani, non abituati al cinema, tiravano pomodori e patate sulla troupe e sugli attori. Francesca Bertini era la stiratrice del titolo: una donna vera, lontana dalle aristocratiche ingioiellate in abito da sera e dalle eroine tragiche e romantiche nei panni delle quali il pubblico l’adorava. E la interpretava con una recitazione misurata, sobria, modernissima, anch’essa antitetica alla maniera delle pose statuarie ed enfatiche alla quale fu poi associata. Recitava infagottata in abiti dimessi, senza trucco, in piani sequenza con inquadratura fissa, valorizzando ogni movimento del corpo e delle braccia, ogni gesto, passo, sguardo. E ogni indumento. Bertini, che sceglieva personalmente i costumi da indossare sul set e che in seguito fu rimproverata di cambiare abito a ogni inquadratura e di trasformare i suoi film in sfilate di moda, si accontentò in questo di uno scialle bianco (della signora Barattolo). Lo scialle, che ora le copriva le spalle, ora le cingeva la vita, la accompagnò per buona parte del film: divenne strumento di seduzione, promessa d’amore e di tradimento, quasi metonimia del corpo dell’attrice.
Come ammise lo stesso Serena, Francesca Bertini fu la vera autrice di Assunta Spina. Fu lei ad adattare il dramma di Di Giacomo, lei a inventare il prologo e costruire il finale, lei a imporre le scenografie, le (poche) didascalie, le inquadrature. Insomma, fu la regista, la sceneggiatrice, l’art director, la montatrice, la costumista.
Realista, verista o protoneorealista, Assunta Spina è il capolavoro del cinema muto italiano; rimane un caposaldo del nostro cinema, modello di un genere che ci avrebbe contraddistinto nel secondo dopoguerra e ancora nel XXI secolo. Non ha mai perduto il suo fascino e la sua forza. Fu insieme un coraggioso azzardo, perché davvero il pubblico non premiava il cinema realista e preferiva il cinema epico, storico, i drammi tratti dall’opera, o dalle commedie già famose: e invece riscosse un successo immenso, inatteso e in qualche modo irripetibile. Rimase infatti un esperimento isolato.
La Caesar e Bertini non proseguirono sulla strada del realismo e della verità. Forse anche perché nel frattempo l’Italia era entrata in guerra e il pubblico, oppresso dalle notizie dal fronte e dalla penuria bellica, voleva sognare, evadere, dimenticare. Bertini tornò ai film ambientati nei salotti dell’alta società, in cui poteva sfoggiare arditi décolleté e toilette elegantissime con la grazia di un’indossatrice, e impersonare contesse, adultere, spie, eroine appassionate e sentimentali, destinate quasi sempre a morte tragica (per veleno, pugnale, annegamento): Ivonne la bella danzatrice, La signora dalle camelie, Diana l’affascinatrice, (tutti del 1915), Odette e Fedora (1916), Andreina (1917) e Tosca (1918). Gli ultimi quattro, tratti da fortunate commedie di Victorien Sardou, deliziarono il pubblico e Bertini stessa definì Fedora «il film che più io abbia amato» (Il resto non conta, cit., p. 101), l’interpretazione che le aveva «dato più gioia» (Mingozzi, 2003, p. 53). Il progetto di diventare sceneggiatrice delle sue storie (nel 1916 firmò La perla del cinema e My little baby con lo pseudonimo di Frank Bert) si dimostrò velleitario. Un buon successo riscossero invece La piccola fonte (1917, dal dramma di Roberto Bracco), in cui moriva folle, precipitando da una rupe, Il processo Clémenceau (1917), dal romanzo di Alexandre Dumas figlio, e Frou-Frou (1918).
Dopo la battaglia di Caporetto anche il cinema partecipò allo slancio patriottico. Bertini, che si era già prestata a serate di beneficienza per i soldati e a visitare i feriti negli ospedali, non girò tuttavia una pellicola di mera propaganda ma l’originale Mariute (1918).
Vi interpretava se stessa, una diva capricciosa che indugia nella sua alcova mentre la troupe la attende sul set, e la Mariute del titolo, una contadina del Friuli occupato, stuprata dagli austriaci. Bertini – che usciva di rado, al punto che nessuno spettatore l’aveva mai vista fuori dallo schermo, che si negava ammantando di mistero la sua persona per favorire l’identificazione con il suo doppio cinematografico – offrì così al pubblico un’apparente satira di se stessa: la messinscena insieme autentica e mitologizzante della sua vita reale, che in realtà sottrae proprio mentre finge di ostentarla.
Fu il primo dei film realizzati dalla nuova casa di produzione Bertini-Film, cui seguì la serie sui sette peccati capitali (L’Orgoglio, La gola, L’ira, L’avarizia, L’invidia, L’accidia, La lussuria). Usciti fra il 1918 e il 1919, delusero il pubblico, furono stroncati dalla critica e costituirono il suo unico vero insuccesso. Un segnale che il gusto del pubblico stava cambiando, ma Bertini e i suoi collaboratori non rinnovarono né il repertorio, né le tecniche di ripresa e l’indiavolato ritmo di lavoro non rallentò. Con la commedia Spirito allegro (1919) Bertini trovò anzi un nuovo regista a lei congeniale, Roberto Roberti, che, sempre affiancato dal fido operatore Alberto G. Carta, la diresse nei suoi ultimi successi, La contessa Sara, La serpe, La principessa Giorgio, Marion, artista da caffè concerto, Maddalena Ferat (1920).
Ma l’epoca d’oro del cinema italiano era finita. Nel dopoguerra, per la situazione economica disastrosa, le case di produzione chiudevano gli stabilimenti o fallivano. Il nostro mercato – e i mercati internazionali che avevano assorbito le nostre pellicole – furono invasi dai prodotti di Hollywood, innovativi nel linguaggio, nella tecnologia e nei generi, con i quali i nostri non riuscivano più a competere. Fra il 1921 e il 1929 la crisi avrebbe azzerato il cinema italiano, ma Bertini ebbe l’occasione di uscirne indenne: William Fox le offrì un milione di dollari per trasferirsi a Hollywood. Bertini firmò il contratto. Ma non partì. Non divenne una diva del nascente star system hollywoodiano, capace di passare da un continente all’altro e dal cinema muto al cinema sonoro, come avrebbe fatto, quattro anni dopo, la svedese Greta Garbo.
Nella primavera del 1921 l’autorevole rivista L’Illustrazione italiana annunciò che ad appena ventinove anni Bertini «abbandona l’obbiettivo fotografico per un obbiettivo matrimoniale. [...] Dopo aver finto – a pagamento – infiniti romanzi d’amore, si paga sul serio il lusso di un amore vero [...] rinunzia ai favolosi guadagni [...] sacrifica al matrimonio il suo successo di Diva» (Mingozzi, 2003, p. 116). Tutte le attrici del resto rinunciavano al lavoro dopo il matrimonio che le mutava in signore rispettabili, talvolta aristocratiche, contesse e baronesse, coronando così il sogno di ascesa sociale che avevano alimentato nel loro pubblico femminile popolare e piccolo borghese.
Nel 1919, mentre girava La Piovra, in cui interpretava una femme fatale ispirata alla contessa Maria Tarnowska, assassina protagonista nel 1910 di un clamoroso caso di cronaca nera, al Grand hotel di Roma aveva incontrato il conte svizzero Alfred Paul Cartier (nato nel 1882). Nobile e ricco, sembrava uno dei personaggi da feuilleton di cui tante volte Bertini si era innamorata sullo schermo. Parente del Cartier gioielliere, campione sportivo (calciatore attaccante nel Genoa e nel Milan), dopo il ritiro dall’agonismo, nel 1906, si era dedicato unicamente alla professione di banchiere. Bertini era rimasta ‘onestissima’. Grazie alla straordinaria riservatezza della sua vita privata, dei suoi flirts (con il poeta Fausto Maria Martini e qualche aristocratico) nulla era trapelato. Per anni aveva lavorato ininterrottamente, dal mattino alla sera, fino a svenire sul set. Fisicamente stremata, forse presagendo la crisi che stava per travolgere il mondo di cui era stata regina, stavolta acconsentì al matrimonio. Prima delle nozze Cartier la costrinse a vendere tutto ciò che aveva acquistato con la sua professione di attrice. Nell’aprile del 1921 mise all’asta l’arredo della sua villa in via Nomentana a Roma.
In agosto concluse le riprese della Fanciulla di Amalfi (per problemi di censura distribuito con il titolo di Consuelita), sposò Cartier e si trasferì in una villa vicino a Firenze. Nel 1924 nacque il figlio Giovanni Benedetto (Jean Benedict). Poco dopo i Cartier lasciarono l’Italia per Parigi.
La sua carriera era durata appena nove anni. Ma a differenza di tutte le dive del cinema muto italiano, che furono presto dimenticate, o vollero esserlo, distruggendo le proprie fotografie e il proprio ricordo, Bertini non tramontò mai. I suoi film in buona parte sopravvissero al naufragio del cinema muto e continuarono a circolare, divenendo talvolta, come Assunta Spina, oggetto di culto. E circolava il suo ricordo, sempre più leggendario. Bertini aveva saputo costruire il suo personaggio senza il supporto di un sistema industriale e di una strategia commerciale, praticamente da sola: con l’intuito, l’intelligenza e l’empatia con i sogni e le frustrazioni del suo pubblico. In Italia e nel mondo il suo nome è rimasto sinonimo di seduzione, passione, italiana bellezza.
L’assenza dagli schermi durò tuttavia solo cinque anni. In Francia interpretò il melodramma La fin de Monte-Carlo (1926), seguito dal remake di Odette (1927), girato negli studi UFA di Berlino. Quest’ultimo (per il quale aveva ricevuto il compenso astronomico di 800.000 franchi) ebbe un certo successo e parve prometterle il ritorno. Ma in quei pochi anni il cinema era cambiato. E Bertini rifiutava le innovazioni che avevano trasformato il modo di girare un film e di interpretarlo: amava il piano sequenza, l’inquadratura fissa, non il montaggio né il primo piano. Giurava di non avere mai provato una scena: le interruzioni e le ripetizioni le impedivano di entrare nel personaggio. Agli spettatori dei tardi anni Venti, la sua recitazione parve algida e artificiosa. E l’avvento del sonoro stroncò ogni speranza. Con l’eccezione di Garbo e di Charlie Chaplin, le stelle del cinema muto si spensero. Non si adattarono al nuovo stile di recitazione che il sonoro imponeva, oppure la loro voce si rivelava sgradevole. La voce roca di Bertini, dall’accento fiorentino venato da una vaga inflessione napoletana, era invece seducente quanto la sua fisicità. Ma il cinema sonoro era vincolato alla lingua e l’italiano non aveva mercato negli anni Trenta. Comunque, i poco convinti tentativi di Bertini nel cinema parlato, sia in francese sia italiano (La femme d’une nuit, 1930, La donna di una notte, e il secondo remake di Odette, 1934) non piacquero.
Durante la seconda guerra mondiale, nel 1942, si trasferì in Spagna, a Barcellona, dove tornò a recitare in teatro nella Dame aux camélias di Dumas figlio, e in un film di Raffaello Matarazzo, Dora, la espia (1943). Tornò in Italia nel 1952 e si stabilì a Roma. Visse in disparte, in un appartamento del quartiere Parioli, difendendo tenacemente il suo mito e il suo mistero. Si mostrava solo nel salotto del Grand hotel, offrendo alla camera della RAI o di un cinegiornale Luce la sua ricercata eleganza, il corpo e il volto per nulla offesi dal tempo. Poiché si era sempre considerata un’attrice e non una diva, avrebbe desiderato continuare a recitare, ma l’incontro con Federico Fellini, che la voleva nella Dolce Vita, non ebbe seguito, e più tardi rifiutò sdegnosamente una parte nelle Vaghe stelle dell’orsa di Luchino Visconti.
Pubblicò le sue memorie nel 1969, ma non ebbero risonanza: ormai pareva un fantasma del passato. Invece Bernardo Bertolucci riuscì a riportarla sullo schermo, nel cameo dell’orsolina suor Desolata, sorella di Burt Lancaster, in Novecento Parte I (1976). Si riaccese l’interesse per lei e Gianfranco Mingozzi realizzò per la RAI il documentario L’ultima diva. Francesca Bertini (1982). Celebrativo ma per nulla nostalgico, fu il suo testamento artistico.
Morì a Roma, il 13 ottobre 1985.
Scritti. Dell’interpretazione. L’arte e gli attori nel cinematografo. Parla Francesca Bertini, in L’arte muta, I (1916), 1, pp. 42 s.; Sensazioni e ricordi, in In Penombra, I (1918), 1, p. 1; Arte e vita di Francesca Bertini, in Film, I (1938), nn. 28-44; Il resto non conta, Pisa 1969.
Fonti e Bibl.: L. D’Ambra, “Salomè” all’aria aperta, in Il Tirso, VII (1910), 13; La Donna, 1916, n. 270; T. Alacci, Le nostre attrici cinematografiche studiate sullo schermo, Firenze 1919; Petronio, in L’Illustrazione italiana, 1921, n. 14; F. B., in Almanacco della donna italiana, Firenze 1923; R. Bracco, La cinematografia. F. B., Giovanni Grasso e io, in Comoedia, 1929, n. 6; A. Consiglio, G. Debenedetti, La B. prima diva, in Cinema, 1937, n. 13; G. C. Castello, Alfabeto: F. B., in Eco del cinema, 1952, n. 38; F. Montesanti, La parabola della diva, in Bianco e nero, XIX (1952), 7-8, pp. 55-72; F. Savio, F. B., in Enciclopedia dello Spettacolo, Roma 1954, ad ind.; P. Bianchi, F. B. e le dive del cinema muto, Torino 1969; C. Costantini, La diva imperiale: ritratto di F. B., Milano 1982; A. Bernardini - V. Martinelli, F. B. 1892-1985, Roma 1985; A. Dalle Vacche, F. B.: la donna è mobile, in Cinegrafie, VIII (1999), 12, pp. 52-65; G. Mingozzi, F. B., Genova-Recco 2003; C. Jandelli, F. B., in Le dive italiane del muto, Palermo 2006, pp. 31-91. Si veda inoltre www.sempreinpenombra. com e i film documentari L’ultima diva. Francesca Bertini, 1982, di G. Mingozzi, e Diva dolorosa, 1999, di Peter Delpeut.