ELEMENTO (dal lat. elementum)
Col nome di elemento la chimica moderna designa quelle sostanze che non possono decomporsi in altre e che, invece, combinandosi tra loro, dànno origine a tutte le rimanenti. Precisando meglio, D. Mendeleev propose di chiamare corpi semplici le sostanze materiali ed elemento quel quid comune ad esse e a tutte le sostanze composte che ne derivano (così il carbonio, elemento comune del diamante, della grafite, del carbone, dell'anidride carbonica, ecc.).
Cenno storico. - Si può dire che il problema delle sostanze elementari abbia formato il tema dominante di tutta la fase iniziale (presofistica) del pensiero greco, orientata verso la ricerca del principio comune (ὠρχή) da cui si fossero generate le cose. Dapprima i Greci pensarono che la sostanza elementare dovesse essere unica: più tardi, specialmente per lo influsso della metafisica eleatica secondo la quale, posta l'unica realtà era esclusa da essa ogni possibilità di divenire, videro (coi sistemi pluralistici di Empedocle, Anassagora, Democrito) la necessità che esse fossero invece molteplici. L'atomismo di Democrito costituiva un'audace anticipazione di concetti che poi avrebbero avuto tanta importanza nel campo della fisica e della chimica: ma esso, come le altre dottrine di Democrito fu soverchiato dalla tradizione platonico-aristotelica, la quale non celò mai la sua antipatia per il naturalismo democriteo. Così accadde che, in luogo dell'atomismo, influisse sulle posteriori ricerche dei corpi elementari, quali furono proseguite nel Medioevo soprattutto dagli alchimisti, quella concezione empedoclea, in sé assai più rozza, che aveva avuto d'altronde l'onore di esser ripresa (per quanto in posizione secondaria) in seno al sistema aristotelico. Empedocle aveva considerato come "radici" (ριξώματα) delle cose il fuoco, l'aria, l'acqua e la terra; Aristotele diede a questi rizomi il nome, che poi rimase classico, di "elementi" (στοιχεῖα), considerandoli peraltro riducibili ai due binomî fondamentali (anch'essi del resto derivati dalla fisica presocratica) del caldo e del freddo, dell'arido e dell'umido (onde il fuoco appariva sintesi del caldo e dell'arido; l'aria, del caldo e dell'umido; l'acqua, del freddo e dell'umido; la terra, del freddo e dell'arido), e aggiungendovi infine, come elemento del mondo sopralunare, quell'"etere", che poi ebbe il nome di "quinto elemento" (πέμπτον στοιχεῖον) o quinta essentia.
Questa dottrina serbò in tutto il periodo medievale efficacia dominante. La possibilità, sperimentalmente riconosciuta, di ottenere per trasformazione di alcune sostanze, altre sostanze dalle più svariate proprietà doveva ovviamente far nascere negli alchimisti l'idea che fosse possibile realizzare qualsiasi trasformazione a patto di trovare il procedimento adatto. Ed erano le teorie aristoteliche appunto a dare saldo sostegno a queste supposizioni, insegnando che tutte le sostanze derivavano dai quattro elementi, di cui si trattava solo di saper variare le proporzioni relative. L'alchimia finì presto col dar posto all'impostura e alla ciarlataneria, con i suoi problemi della preparazione dell'oro, dell'elisir di lunga vita, della pietra filosofale, ma quel tanto di pratica sperimentale condotta dagli alchimisti, anche se confusa e mal diretta, valse a convincere presto che gli elementi aristotelici con le loro proprietà non erano i più adatti a render conto delle effettive variazioni osservate, e a farne introdurre altri, con particolare riguardo ai metalli e loro derivati; così il mercurio, come causa della lucentezza e malleabilità, lo zolfo, come causa della durezza e combustibilità (scelta, questa, attribuita ad Avicenna), essendo inteso che non si trattava delle sostanze di questo nome, ma di un mercurio e d'uno zolfo "filosofico". A questi due elementi Paracelso aggiunse un elemento salino come causa della solubilità, e altri voleva anche un elemento terroso, a render conto della refrattarietà e insolubilità.
D'altra parte, anche a prescindere da questa estensione della teoria degli elementi, che rimaneva pur sempre nell'ambito delle idee aristoteliche, vi era pur sempre una ricca messe di osservazioni sperimentali e di nuove sostanze (basi forti, acidi minerali, alcool, molti sali) e di loro reazioni: scoperte su cui le menti più aperte potevano lavorare liberandosi dai pregiudizî del loro tempo e segnando un reale progresso nel campo della scienza. Vediamo così R. Boyle combattere tanto gli elementi aristotelici quanto quelli alchimistici, dimostrando che essi non servivano allo scopo loro assegnato, ma erano semplici astrazioni fantastiche, e stabilire il principio, col quale finalmente si entra nello spirito moderno, secondo cui sono da considerarsi elementi le sostanze materiali ottenibili per trasformazione di altre, e non ulteriormente trasformabili, ma anzi ricuperabili inalterate dopo i più complicati trattamenti. E di questo suo concetto seppe anche dare qualche esempio tipico nei metalli, e specialmente nel rame, nell'argento, nell'oro.
Dopo di lui, le preparazioni di numerose serie di sali derivanti da uno stesso metallo si moltiplicarono (esempio, questo, di conservazione di un elemento attraverso i suoi composti), ma contemporaneamente una nuova e, per quei tempi, vivificante concezione sorgeva col flogisto di G. E. Stahl. Secondo quest'autore le sostanze che oggi chiamiamo ossidabili (carbone, e specialmente metalli) contenevano una sostanza imponderabile, il flogisto, cui dovevano tale loro proprietà, e che eliminandosi per riscaldamento lasciava come residuo una calce (l'ossido). Questa del flogisto fu la prima teoria sistematica dei fenomeni chimici, distinguendo e nettamente contrapponendo i due grandi processi dell'ossidazione e della riduzione, e ispirando i lavori di chimici di prim'ordine, quali K. Scheele, J. Priestley, T. O. Bergman; ebbe però il difetto di essere puramente qualitativa, e d'ignorare volutamente le variazioni di peso durante i processi esaminati.
Le considerò invece A. Lavoisier, il quale attribuì loro un'importanza fondamentale, mostrando che ossidazione e riduzione erano addizione o eliminazione d'una sostanza materiale, l'ossigeno. Il Lavoisier distrusse così la teoria del flogisto, e col cancellare dagli enti chimici questo imponderabile, e col ridurre tutto a considerazioni di peso (il principio sperimentale della conservazione del peso, o della massa, se anche non enunciato esplicitamente, pervade di sé tutto il Traité de chimie antiphlogistique, 1787) stabilì su basi salde e sperimentali il concetto di elementi, definiti come le sostanze da cui si possono, per addizione fra loro o con sostanze composte, ottenere tutte le altre, ma che non sono ulteriormente decomponibili in altre più semplici. Si deduce da ciò che, se si opera in modo quantitativo, il peso d'un elemento è sempre minore di quello delle sostanze da cui si prepara o in cui si converte, per unione con altre. Questi criterî, dal Lavoisier in poi, sono sempre stati considerati come decisivi per stabilire la natura elementare di una sostanza, e il cloro, per es., che nei primi anni del secolo scorso per idee preconcette si sospettava essere un ossido, fu accettato come elemento quando, facendolo passare sul carbone rovente, non si osservò formazione di ossido di carbonio e di una nuova sostanza, come pure avrebbe dovuto avvenire secondo tale supposizione. Particolarmente semplice e netta è la dimostrazione se la sostanza in esame non dà origine ad altre nuove sotto l'azione delle temperature più elevate, o meglio, della corrente elettrica, cui nessun composto resiste.
Del resto, è da distinguere fra l'ottenere una serie di sostanze nuove, derivanti l'una dall'altra e che devono quindi contenere un nuovo elemento (di cui è così dimostrata l'esistenza), e il separare materialmente il corpo semplice corrispondente. Questa è solo un'interessante questione di chimica preparativa, e può aver luogo molto tempo dopo che l'esistenza dell'elemento è posta fuori dubbio, come nell'esempio tipico del fluoro, identificato come elemento da K. W. Scheele nel 1771 e preparato come corpo semplice da H. Moissan nel 1886, ovvero, caso storicamente più importante, dei metalli alcalini, liberati dai loro idrossidi con l'aiuto della corrente voltaica (H. Davy, 1807) dopo che già il Lavoisier (1787) aveva intuito la natura composta di questi. Vi sono stati casi in cui, per impreviste complicazioni sperimentali, quelli che si ritenevano metalli elementari (vanadio, uranio) furono riconosciuti come ossidi inferiori (VO, UO2).
Metodi di ricerca degli elementi. - La ricerca degli elementi si può condurre in varî modi: 1. Coi metodi ordinarî dell'analisi (a cui del resto anche negli altri casi spetta pur sempre l'ultima parola). Se applicando a un nuovo minerale gli usuali procedimenti dell'analisi qualitativa, si osservano a un certo punto reazioni diverse da quelle note e attese, si ha ragione di presupporre l'esistenza di un nuovo elemento, che potrà separarsi mediante le reazioni stesse, allo stato di solfuro, ossido, da cui poi, per azione di acidi, basi, ecc., si prepareranno serie di derivati. Tutto ciò, naturalmente, a patto che si riesca ad evitare le innumerevoli insidie dell'analisi; la storia della chimica infatti è piena di supposti elementi che si dimostrarono poi miscugli di elementi già noti, mentre di un vero elemento, il vanadio, scoperto nel 1801 sotto il nome di pancromo, le reazioni furono per un certo tempo attribuite alla supposta presenza del cromo. 2. Mediante l'analisi spettrale. Con questo potente metodo di indagine, dovuto a R. W. Bunsen e a G.R. Kirchhoff (1860), l'esistenza di un nuovo elemento in un minerale è arguita dalla presenza di nuove righe nel suo spettro di fiamma o di arco elettrico. Applicato alle sostanze terrestri, ha reso servizî preziosi (cesio, rubidio, tallio, indio); esteso agli spettri dei corpi celesti, se permise a N. Lockyer e ad E. Frankland (1868) di prevedere l'esistenza dell'elio (poi trovato effettivamente da W. Ramsay, 1895, nella cleveite), ha al suo passivo la caduca scoperta del nebulio e del coronio, dovuta al fatto più tardi accertato, che in condizioni speciali i varî elementi possono dare righe e spettri diversi dagli usuali. A questo metodo si riconduce la ricerca con spettri di alta frequenza (per mezzo dei raggi X), con l'aiuto dei quali D. Coster e G. von Hevesy hanno ricercato e scoperto l'elemento detto poi afnio. 3. Mediante i fenomeni della radioattività, metodo di straordinaria sensibilità, ma limitato agli elementi che possiedono tale proprietà.
Nomenclatura. - Per alcuni elementi, i cui corrispondenti corpi semplici o composti erano noti da lungo tempo, il nome ha origini antiche, così carbonio, ferro, oro, argento, zolfo, rame (cuprum), alluminio, silicio, hydrargyrus (mercurio), kalium (potassio); ovvero risale all'epoca degli alchimisti, come bismuto, volframio. Per altri il nome allude a proprietà specifiche, come ossigeno, nitrogeno (azoto), cromo, bario, fosforo, bromo, iodio, argo; o alle difficoltà incontrate nell'identificazione, come disprosio, lantanio, didimio. Meritano speciale menzione i nomi tratti dal colore di qualche riga spettrale: rubidio, cesio, tallio, indio; o dalla radioattività: radio, attinio. Per altri, il nome è tratto dai minerali in cui furono trovati, come berillio, zirconio, columbio, o da una località (ittrio e itterbio da Ytterby presso Stoccolma) o dal nome d'uno scienziato, come gadolinio da J. Gadolin. Altri debbono i loro nomi a una moda, come quelli derivanti dal Walhalla nordico (vanadio e torio) o da figure mitologiche (cadmio, tantalio, niobio) o da pianeti scoperti nella stessa epoca (cerio e uranio), per arrivare ai cosiddetti "elementi nazionalisti": scandio, germanio, gallio, polonio, olmio (da Stoccolma), lutezio, afnio (da Hafnia, Copenhagen), europio.
Simboli. - Gli alchimisti indicavano le sostanze con segni convenzionali. Con segni convenzionali furono anche indicati, secondo l'esempio di J. Dalton (v.), i nostri elementi fino a che J. Berzelius propose di indicarli con le iniziali del nome, simbolo cui si attribuisce anche il valore numerico del loro peso atomico (v. atomo).
Abbondanza relativa degli elementi. - Gli elementi si trovano sulla terra in quantità assai disuguali: alcuni assai rari, come lo xeno, gas raro dell'atmosfera, di cui esiste circa 1 gr. per ogni tonnellata degli altri elementi; altri molto abbondanti. In generale, pare che gli elementi a numero atomico pari prevalgano su quelli dispari. Praticamente però occorre distinguere fra l'elemento molto diffuso, ma con basse percentuali per es. (nichelio) e l'elemento magari meno abbondante, ma concentrato in minerali ricchi (rame). Ecco di alcuni le quantità percentuali (grossolanamente approssimate) esistenti negli strati superficiali della terra (aria, acqua e rocce per uno spessore di 10 km.)
Nell'interno della terra (almeno da 200 km. in giù, su un raggio di 5300 km.) si ha ragione di ritenere che esista soltanto ferro, con una certa quantità di nichelio, e qualche altro metallo facilmente riducibile, il quale perciò sarebbe l'elemento di gran lunga preponderante. A simili conclusioni porta l'analisi delle meteoriti.
Per quanto concerne le stelle, l'analisi spettrale della luce dà assai minori ragguagli di quel che si potrebbe supporre. Infatti, a seconda della temperatura, certi elementi, pur presenti, non si rivelano spettralmente, ovvero appaiono sproporzionatamente prevalenti. Tuttavia, sembra si possa escludere che esistano nelle stelle elementi diversi da quelli che conosciamo.
Sistematica. - Rimandando, per i particolari, agli articoli speciali, e a quelli generali sui metalli e sui metalloidi, ricordiamo fugacemente che i corpi semplici si presentano sotto tre stati di aggregazione, da gas difficilissimamente liquefacibili, come l'elio, a liquidi (bromo, mercurio) e a solidi refrattarî, come il tungsteno e il carbonio, con una altrettanto grande variabilità delle altre proprietà fisiche. Non meno diversa la loro reagibilità chimica, cominciando da quella così elevata del fluoro e degli alogeni in genere, del fosforo, dei metalli alcalini e alcalino-terrosi, per finire all'inattività completa dei cosiddetti gas nobili (elio, neo, argo, cripto, xeno), che meglio si chiamano gas inerti. Pure accentuate le differenze circa il numero e la varietà dei composti. Nonostante tante differenze generiche, esistono fra gli elementi relazioni che concernono tanto le proprietà dei corpi semplici quanto, e più, quelle dei composti. Fino dai primi decennî del secolo scorso, infatti, si poterono stabilire alcune tipiche famiglie di elementi, come ad es. i metalli alcalini, alcalino-terrosi, gli alogeni, i gruppi del ferro, del platino. Simili ravvicinamenti fecero risaltare certe relazioni fra i pesi atomici degli elementi affini (J. W. Döbereiner, 1829), ma solo nel 1869 D. Mendeleev, dopo parziali tentativi, nello stesso senso, di J. A. R. Newlands (che egli del resto non conobbe), arrivò a riunire tutti gli elementi in un sistema unico, che egli chiamò periodico. Ordinandoli, infatti, secondo i pesi atomici ascendenti (ma esćludendo quello più basso, l'idrogeno), egli trovò che dopo i primi sette elementi, nei quali si osserva un cambiamento graduale nelle proprietà, dal metallo fortemente elettropositivo litio fino all'energico metalloide fluoro, con l'ottavo elemento (sodio) ricominciano le proprietà metalliche, che gradualmente declinano e s'invertono nel decimoquarto (cloro) e così via, con periodi di maggior lunghezza e con gruppi intercalari (gruppo VIII, terre rare), per i quali v. periodico, sistema.
Una così stretta rete di relazioni fa pensare che tutti gli elementi abbiano analoga costituzione e derivino da un quid comune, idea che infatti si presentò a molti chimici, ma che, per un curioso fenomeno psicologico, il Mendeleev stesso non volle mai ammettere. Già molto prima (1815) W. Prout aveva supposto che tutti gli elementi si formassero per condensazione dell'idrogeno, basandosi sul fatto che i valori dei pesi atomici allora accertati potevano considerarsi come multipli di quello dell'idrogeno (ossia ammesso H = 1, erano numeri interi). Peraltro, ulteriori e più accurate determinazioni (fra cui quelle famose e, per i loro tempi, insuperabili dello Stas) mostrarono invece che si avevano anche numeri sicuramente frazionarî, e l'espediente a cui ricorsero i seguaci del Prout, di ammettere che l'elemento primordiale avesse un peso atomico uguale alla metà o a un quarto dell'idrogeno, non fece che gettare il discredito sull'idea generale. I recenti progressi della fisica atomica hanno dimostrato però che tutti gli elementi sono costituiti dagli stessi materiali, e i loro atomi hanno un tipo di struttura unico. L'atomo, cioè, consta d'un nucleo in cui è concentrata la massa, elettricamente positivo, e di un numero Z di elettroni, che circolano intorno ad esso e la cui carica complessiva (e × Z, essendo e la carica di un elettrone) neutralizza esattamente quella del nucleo. Orbene, Z coincide per ogni elemento col numero atomico, cioè col numero di ordine che spetta all'elemento nella tavola periodica, contando, idrogeno incluso, verso i pesi atomici crescenti; mentre la massa del nucleo è sempre un multiplo intero di quella del nucleo di idrogeno o protone, salvo una piccola differenza in meno. Si deve perciò concludere che i due enti costituenti l'atomo di idrogeno costituiscono pure, in diverse proporzioni, gli altri atomi (v. atomo).
Si può chiedere come si concilii l'affermazione della molteplicità esatta dei varî paesi atomici rispetto all'idrogeno, col fatto sperimentale che, invece, all'analisi chimica i pesi atomici risultano indubbiamente frazionarî. La spiegazione è data da un'altra scoperta degli ultimi anni; a uno stesso elemento possono corrispondere atomi con ugual numero di elettroni ma con massa nucleare diversa e diverso peso atomico, talché il peso atomico apparente è una media, che può ben essere frazionaria, dei veri pesi atomici interi.
Questa scoperta, che a uno stesso tipo di elemento chimico possono corrispondere sostanze con peso atomico diverso, ossia diverse composizioni percentuali nei loro composti qualitativamente identici, è certo stata una fra le più sorprendenti degli ultimi tempi; (si veda per essa isotopismo e radioattività). Ma poiché tutti i progressi della stechiometria (da στοιχεῖον "elemento"), dalle leggi delle proporzioni definite in poi, avevano invece portato a vedere nel peso atomico la proprietà più tipica e invariante d'un elemento, si comprende come sia sorta la questione, se ogni isotopo deve considerarsi come un elemento diverso, e una sostanza contenente più isotopi come un semplice miscuglio, e non più come un individuo chimico definito. Conviene, però, attenersi all'opinione dei chimici più autorevoli, secondo cui l'elemento chimico è definito, sperimentalmente, dalle proprietà chimiche e dallo spettro che esso dà in condizioni ben definite, e teoricamente dal numero atomico, ossia dalla quantità di elettroni estranucleari da cui tali quantità dipendono, mentre a denotare l'eventualità di un peso atomico (massa nucleare) diverso si userà, nome nuovo per nuovo concetto, la parola isotopo. E tutto ciò specialmente per gli elementi ordinarî, mentre per il gruppo ben definito dei radioattivi tipici (dal numero 86 in su), dove, assai più della carica, assumono importanza preponderante le proprietà individuali del nucleo (modalità del suo disintegrarsi) ogni isotopo viene, in base a ciò, considerato come un elemento a sé.
Anche sotto altri riguardi, del resto, lo studio dei processi radioattivi ha portato un contributo alle nostre nozioni sugli elementi. Così, pare che il numero degli elementi (per il quale, altrimenti, non si vedrebbe termine necessario nel senso dei pesi atomici crescenti) sia limitato dalla disintegrazione spontanea dei loro nuclei, quando divengono troppo pesanti e complicati, visto che appunto gli elementi a peso atomico elevato sono tutti radioattivi. Così pure il principio della conservazione degli elementi, caposaldo della stechiometria classica, soffre eccezioni per le sostanze radioattive (e notiamo, per incidenza, che la vita delle sostanze radioattive essendo limitata, e sia pure a miliardi di anni, si presenta ovvia la questione della loro origine, che, probabilmente, implica quella di tutti gli altri elementi in genere; ma non si hanno in proposito che ipotesi provvisorie).
Ma anche per gli elementi ordinarî si è potuto osservare una trasformazione (forzata, come si usa dire) sotto l'influenza delle particelle α, emesse dagli elementi radioattivi. Queste particelle sono animate da grande velocità, che, nel caso di uno fra gli elementi più instabili, il radio C′, raggiunge il valore di 20.000 km. al secondo: quando uno di questi proiettili, fantastici di piccolezza e di energia concentrata, percuote in pieno un nucleo (e ciò accade di rado: una volta all'incirca per ogni dieci milioni di atomi incontrati) lo disgrega e ne separa un protone, di cui si può nettamente seguire la traiettoria con adatti dispositivi. Meno facile è conoscere la sorte del resto: nel caso dell'azoto, p. es., si sa già che esso può restare unito alla particella α che l'ha urtato, e si ha così un isotopo dell'ossigeno, a peso atomico 17. Ma in ogni caso è certo che in seguito all'eliminazione del protone deve formarsi un elemento diverso dal preesistente. Si può realizzare, per quanto con rendimento infinitesimo, una vera trasmutazione degli elementi.
Questi meravigliosi risultati hanno fatto lavorare le fantasie. Dato che per passare da un elemento a un altro si tratta solo di levare o aggiungere un elettrone o un protone nell'interno del nucleo, varî sperimentatori hanno sperato di potervi arrivare per mezzo di scariche elettriche o altrimenti. Così A. Miethe credette or non è molto di aver constatato la formazione d'oro nelle lampade a vapore di mercurio, e altri la formazione di elio dall'idrogeno (che sarebbe stata utilissima cosa) o di mercurio dal piombo; ma l'elaborazione di nuovi metodi analitici, alcuni (come per l'elio) di una sensibilità veramente straordinaria, ha sempre mostrato che i nuovi elementi preesistevano, in tracce, nel materiale adoperato. Del resto, con qualche ardita ipotesi e cioè ammettendo che le formule termodinamiche della dissociazione delle molecole valgano anche per la disgregazione dei nuclei, si può calcolare a quale temperatura la conversione del nucleo di un elemento in quello di altri dovrebbe essere possibile su larga scala, a guisa dei nostri equilibrî gassosi, e si trova cento miliardi di gradi. Ma dai calcoli dell'astronomo A. S. Eddington risulta che neppure nelle stelle più calde la temperatura sale oltre i dieci milioni di gradi; perciò il problema della trasmutazione degli elementi, che è strettamente collegato a quello della loro origine, resta ancora un mistero.
Bibl.: A. Mieli, Pagine di storia della chimica, Roma 1922; G. Castelfranchi, Fisica moderna, Milano 1929; Eucken, Chemische Physik, Lipsia 1930.