Elementi di politica
Elementi di politica è la seconda parte dello scritto di Benedetto Croce Etica e politica (1931), preceduto da Frammenti di etica. Si tratta di un testo composito, che prende le mosse da un nucleo iniziale, dal titolo Politica in nuce, pubblicato nel 1925. A tale scritto nel 1931 venne aggiunta una serie di saggi successivi, riuniti sotto il titolo Aspetti morali della vita politica (1928).
Sia la loro collocazione in Etica e politica sia l’interna articolazione degli Elementi testimoniano che l’interesse di Croce verte sul rapporto fra politica e morale. Si tratta di comprendere come un agire e un volere particolare e immediato, la politica, possa essere superato in un volere universale, la morale. Una questione che coinvolge il significato della storia, e particolarmente della modernità, l’età in cui quel superamento più pienamente si autocomprende (mentre, nondimeno, non si perde la durezza della lotta politica), come anche il ruolo della filosofia, che, in quanto teoria della storiografia, quel processo chiarifica ex post.
Accanto al problema del nesso fra politica, morale, storia, filosofia, la collocazione e la strutturazione degli Elementi ne evocano un altro: il problema storico di Croce. Se infatti è vero che egli si pone a grande distanza soggettiva e oggettiva dalla politica, è anche vero che gli anni di composizione degli Elementi coincidono con la seconda delle tre grandi sfide politiche con cui si è confrontato, ovvero la Grande guerra, il dilagare e il consolidarsi del fascismo, e infine l’assunzione di responsabilità nel Partito liberale italiano dopo il 1943 nonché il fronteggiamento dei partiti di massa postliberali. Una sfida, quella fascista, della cui gravità Croce si rende conto soltanto in maniera progressiva, e che lo porta a enfatizzare la necessità di non limitarsi a contemplare lo svolgersi storico della politica nella morale, ovvero la civiltà, bensì di impegnarsi personalmente nella realizzazione di questo fine.
La riflessione di Politica in nuce deriva dalla Filosofia della pratica. Economica ed etica (1909) e dall’intento metodologico di distinguere, con la critica, le diverse forme dell’attività spirituale, e della pratica. Il che significa soprattutto opporsi a ogni implicazione necessaria fra teoria e prassi (Contro la troppa filosofia politica, 1923, poi in Cultura e vita morale, 1914, 19262). Gli obiettivi polemici sono tanto la scolastica, che deduce normativamente la morale dalla razionalità, quanto il giusnaturalismo, «scuola antipolitica e antistorica» (Elementi di politica, in Etica e politica, 19732, p. 212), che costruisce meccanicamente il mondo umano a partire da assunti aprioristici (i diritti innati e il progresso), quanto ancora il positivismo, che individua leggi naturali oggettive a cui la vicenda umana non può non uniformarsi, e infine lo stesso pensiero dialettico nelle sue versioni classiche: la filosofia della storia di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, viziata dal teleologismo del § 548 dell’Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse (1817) sulla Weltgeschichte, e l’interpretazione filosofico-ideologica del marxismo, che trasforma Karl Marx in teorico di una necessità storico-razionale, del tutto mitologica.
La lotta di Croce contro la mancata distinzione tra ragione e storia, tra filosofia e politica, è consonante, benché non coincidente, con lo storicismo tedesco della seconda metà del 19° sec. (a partire da Wilhelm Dilthey a Johann Gustav Droysen fino a Heinrich von Treitschke e a Max Weber) e con la sua interruzione puntiforme della linea continua di svolgimento della traiettoria dello Spirito hegeliano; e – anche attraverso una ripresa della tesi herbartiana dell’impossibilità di ridurre la storia a concetto – esprime un’esigenza di concretezza e di individuazione che si iscrive in quella dialettica fra vita e forme che è il leitmotiv della cultura europea fra i due secoli. Una dialettica che implica la rinuncia a uno stretto isomorfismo fra esperienza e ragione, e che anzi è il rapporto di circolarità e di incessante ulteriorità fra situazione e azione, fra mondo circostante (il passato) e atto volitivo (l’iniziativa, il fatto nuovo).
Quello di Croce è quindi uno storicismo assoluto, ma puntuale, nemico di ogni metafisica e di ogni normativismo: la storia non rivela alcuna trascendenza (semmai la secolarizza) né deve inverare alcun set di diritti, mentre la ragione chiarifica, dando loro consapevolezza, la vita e la storia politica, e non le guida secondo un piano. Per Croce, insomma, la realtà è spiegata da forme logiche e non logiche, e non – come per parte della tradizione occidentale, culminante in Giovanni Gentile – da un’unica forma logica.
Ecco allora il rapporto di Croce con Georges Sorel, del quale condivide il rifiuto della parlamentarizzazione (cioè della neutralizzazione discorsiva) del socialismo (La morte del socialismo, 1911, poi in Cultura e vita morale) – ecco gli elogi del realismo di Marx (Materialismo storico ed economia marxistica, 1900); ecco il costante confronto con l’elitismo (nonostante le critiche alla pretesa autonomia della scienza politica: cfr. Elementi di politica, cit., p. 199) per la sua concreta ricognizione della realtà sociale; ecco soprattutto la valorizzazione di Niccolò Machiavelli (pp. 204 e segg.) che non è, per lui, profeta dell’Unità d’Italia né spirito d’artista, ma teorico della politica come forza spregiudicata e quindi – pur senza avere la chiarezza concettuale della filosofia, e anzi «conturbato da idoli fantastici» (p. 205) – scopritore dell’autonomia della politica e della sua mondana necessità.
Ed ecco, infine, Politica in nuce, in cui Croce definisce la politica come «azione guidata dal senso dell’utile» (p. 171), non in contrasto con il diritto né con l’agire economico, ma qualitativamente affine a queste guise dell’agire pratico, che all’utile possono anch’esse venire ricondotte (la polemica di Croce contro Georg Jellinek – pp. 247 e segg. – nasce proprio dal fastidio verso la sua utilizzazione, come fossero autonome e concrete, di astratte categorie giuridiche). L’autonomia della politica è tale, oltre che rispetto alla filosofia, anche rispetto alla morale, con cui è in rapporto di distinzione, non di opposizione; e ciò, da un lato, conferisce alla politica un grande rilievo (l’utile crociano è molto più la forza che non il vantaggio economico) ma, dall’altro, non implica alcuna sua specificità (Sartori 1966, p. 200). Infatti, tutte le dinamiche e le forme con cui la politica si determina o si indetermina, in cui si stabilizza o si destabilizza il rapporto comando-obbedienza (come, per es., la gerarchia o l’uguaglianza); tutte le categorie e le istituzioni entro cui la vita sociale si ordina o si disordina – in primis lo Stato, identificato con il governo (Elementi di politica, cit., p. 175), cioè con un potere di alcuni su altri che attraverso la forma della legge si vuole universale: la lettura di Marx, oltre che degli elitisti, non è stata vana – tutte le antitesi e i conflitti che lì sorgono (fra autorità e libertà, fra capitalisti e proletari, fra potere e diritto, fra individuo e Stato, fra economia e politica istituzionalizzata); tutto ciò è spiegato come insieme storico contingente di fenomeni che devono essere ricondotti a un’unica origine, la forza di un individuo o di un gruppo di individui (pp. 174-75). A volontà vitale particolare, ad azione di autoaffermazione.
Operato il distacco fondamentale tra filosofia e politica, riconosciuta l’autonomia di questa anche dalla morale, verso di essa Croce esercita tre ordini di rifiuti. Dapprima, pur riconoscendone l’inerenza alla natura umana, se ne ritrae come persona, perché vi vede una dimensione troppo angusta; un disagio aggravato dall’avvento delle masse sulla scena pubblica, che, particolarmente dopo la Grande guerra, lo porta a una posizione aristocratica affine a quella di intellettuali europei più o meno coevi come Thomas Mann, Julien Benda, Johan Huizinga, José Ortega y Gasset; ma non identica, perché quelli negavano dignità alla politica e alla commistione dell’intelligenza con essa, e argomentavano prevalentemente in termini di ‘decadenza’ o di crisi della civiltà. Invece Croce rifiuta le nozioni di decadenza, declino, tramonto: come si legge nella parte su Pessimismo storico, la storia non è determinata da ritmi sovrumani, ma è fatta dagli uomini.
Inoltre (è il secondo rifiuto), anche per motivi intellettuali Croce non aderisce all’inquieto e instabile mondo della politica, di cui vede la potenza e la pervasività: se si misura il suo pensiero con quello di Carl Schmitt – il quale, fra il 1922 e il 1932, porta a compimento la decostruzione decisionistica e iperpolitica delle architetture concettuali della politica moderna – si comprende che non è sufficiente a renderli assimilabili il fatto che entrambi abbiano letto Sorel, che rigettino l’equazione di Stato e politica, che vedano che «tutto diventa mezzo di politica» (Elementi di politica, cit., p. 183), che questa «sottomette i prodotti delle altre attività» (p. 184) ovvero che non ha un ambito proprio ben delimitato, che rifiutino la mediazione razionale semplice fra teoria e prassi, nonché la filosofia della storia. L’autonomia del ‘politico’ è per Schmitt dal 1932 un’intensità polemica, senza che la ‘serietà’ del ‘politico’, a cui egli si rifà, possa essere interpretata come un passaggio dalla politica alla morale. Insomma, la critica della dialettica marxista e del razionalismo astratto che meccanicizzano la vita non colloca Croce nel pensiero negativo o nell’irrazionalismo; il suo puntuale storicismo non è Aktionismus, la sua contingenza non è occasionalista, il suo realismo non è né compiaciuto sensualismo né abissale pessimismo. Il fatto è che Croce non vuole pensare la lacerazione assoluta del tessuto della umana convivenza: per lui l’uomo è un animale sociale, anche se persegue l’utile (politico, prima che economico) individuale; e la sua critica agli idoli democratici della modernità non è distruzione dell’autocomprensione del Moderno, come in Schmitt, ma rettificazione delle sue illusioni e fallacie. Del resto, davanti alla tesi, attribuita a Friedrich Wilhelm Nietzsche («agitato cuore di poeta»), che la politica sia esclusivamente lotta, nel presupposto che l’uomo «sia condannato a fare schiavi e a farsi schiavo», Croce polemizza inorridito (p. 255).
La politica non è necessariamente un inferno di incomunicabilità; chi ne è convinto, come Francesco Guicciardini o Ottone von Bismarck, come l’attivista irrazionalista Gabriele D’Annunzio oppure, appunto, come Nietzsche, manca di senso morale, e risulta quindi un uomo dimezzato. Per di più, la politica, se pretende di essere soltanto forza, è perdente anche sul piano fattuale, come Croce afferma a proposito della Germania, seguendo implicitamente Weber (collocato tra «i più acuti intelletti di quel popolo stesso», p. 261) che in Parlament und Regierung im neugeordneten Deutschland (1918) aveva sostenuto che la mancanza di dibattito parlamentare nuoceva alla capacità tedesca di dirigere politicamente la guerra.
Nonostante il suo realismo politico, la posizione di Croce non si sovrappone quindi a quella di Treitschke, per il quale lo Stato è «Macht, Macht und wieder Macht» (H. von Treitschke, Bundesstaat und Einheitsstaat, in Id., Historische und politische Aufsätze, 1903, 2° vol., p. 152); in Frammenti di etica proprio al tedesco viene mossa la critica di essere «filosoficamente indisciplinato» (Frammenti di etica, in Etica e politica, cit., p. 147) e di non vedere che lo Stato è, sotto due distinti aspetti, tanto potenza quanto morale, che la politica nella sua amoralità è strumento preparatorio della moralità. Insomma, Croce non aderisce alla tesi di chi la politica esercita come se la sfera pratica si esaurisse in essa – nella forza strutturata dello Stato, nell’utile politico del singolo, nel panpoliticismo, nella feroce incomunicabilità fra gli uomini.
Infine – terzo rifiuto –, così come non condivide la risoluzione della politica in filosofia, Croce vieta le affrettate risoluzioni della politica nella morale. La sua critica della moralizzazione della politica investe il democraticismo, che egli identifica con l’astratto egualitarismo e con la moderna teoria dei diritti, vuota e meccanica – la stroncatura di Jean-Jacques Rousseau e degli «immortali principi» (Elementi di politica, cit., pp. 182, 209 e segg.) è esemplare, insieme alla scarsa considerazione della tradizione intellettuale inglese – ma Croce non tanto contrappone il liberalismo e la democrazia quanto fa del primo un’idea filosofica e morale, e della seconda una tecnica di governo, rispetto alla quale egli è ora vicino ora lontano secondo il tasso di liberalismo che essa incorpora in sé (p. 238).
In realtà, è alla dimensione morale che Croce è soprattutto interessato, ma non vi giunge immediatamente dalla politica, bensì intraprende una non semplice via attraverso la quale l’amoralità della politica, la sua anteriorità, la rendano anche strumento di vita morale. In primo luogo, al pensatore politico per lui paradigmatico, Machiavelli, Croce presta un’«austera e dolorosa coscienza morale» (p. 205), che lo vede diviso fra la considerazione della politica come una triste necessità (ma anche come «arte sublime», di livello religioso, di fondare lo Stato) e la morale tradizionale, in lui ancora viva. Sarà Giambattista Vico a superare la scissione dell’animo di Machiavelli, sapendo riconoscere il vero oltre che il fatto, il provvidenziale oltre che l’utile: pensando cioè adeguatamente il nesso di politica e morale nella prospettiva della civiltà.
Un nesso – la cui esistenza è il vero assunto a priori di Croce – che egli cerca, in Elementi di politica, attraverso una complessa riflessione, il cui cardine è la tesi che rispetto alla vita morale la politica è mezzo indispensabile: l’uomo morale – vir bonus agendi peritus (p. 186) – «non attua la sua moralità se non operando politicamente, accettando la logica della politica» (p. 184). Così,
il momento dello Stato e della politica è un momento necessario ed eterno […], ma un momento e non il tutto; e la coscienza e l’operosità morale è un altro momento, non meno necessario ed eterno, che segue il primo, dispiegandosi dall’unità e nell’unità spirituale (p. 292).
Insomma, per Croce, la politica è autonoma, ma non è sola, né «basta a se stessa» (p. 185): il particolare, distinto dall’universale, non è a questo irrimediabilmente contrapposto. Esiste per Croce anche un’autonomia della morale. Un’autonomia che, anch’essa, non è autosufficienza: la morale, priva di contenuti trascendenti, è l’«ideale pratico» che consente di valutare la politica in quanto questa sia o possa essere «politica della civiltà». È la civilizzazione della politica l’obiettivo di Croce.
Infatti, «all’incessante posizione delle utilità segue l’incessante risoluzione di esse nell’eticità» (Elementi di politica, cit., p. 185); ovvero, l’amoralità della politica, la sua eccedenza vitale, la tendenza a valutare il mondo soltanto sotto le specie dell’utile e della forza, non distruggono le altre facoltà dell’azione, perché lo spirito le tiene insieme, le ‘ricuce’; la politica è strumento della morale, ne è l’antecedente, il contenuto, mentre la morale, a sua volta, costituisce parte dell’ambiente storico nel quale la politica deve agire, e la condiziona. Da un lato, quindi, lo Stato in quanto politico non è immediatamente etico; e, dall’altro, i moralisti che lo condannano (democratici e cattolici) vogliono sottrarsi alla fatica di costruire una più alta situazione morale con cui lo Stato debba confrontarsi (p. 294).
Per Croce risulta possibile un giudizio storico e morale che non confligga con il realismo di Machiavelli e di Marx: se politica è l’azione singolare in quanto utile, morale è l’azione vitale soggettiva che crea più ampie forme di civiltà innalzandosi a libertà riflessiva dei singoli che comunicano nell’universale umanità. La politica non viene eticizzata dall’esterno, sulla base di ipotesi normative; piuttosto, per Croce la politica è una materia oscura altamente dinamica, che ha in sé un potenziale di rischiaramento e di più consapevole e ampio svolgimento nella morale, senza peraltro che ciò significhi che il singolo è sovrastato da un universale: piuttosto, è collaboratore di una civiltà.
Una conseguenza di questa impostazione, che vede politica e morale non contrapposte né sovrapposte, è che se la morale è la capacità di volere l’universale, allora non si può pensare che gli uomini siano «radicalmente sciocchi e cattivi» (p. 257): l’antropologia negativa, presupposto del realismo radicale, è rigettata. E quindi non esiste per Croce un atto politico che sia in grado di recidere la comunicazione interumana: il dialogo dell’umanità al presente, con il proprio passato e indirettamente con il proprio futuro, è appunto la vita morale, consapevole collaborazione umana. Se la politica è conflitto, parzialità, inimicizia, la vita morale mette in relazione amici e nemici.
Ancora, deriva dalla posizione di Croce che la morale, per non essere astrattamente normativa, e per non essere neppure relativistica, debba essere storicamente atteggiata; è essenziale, per questo apparato intellettuale, proiettare sia la politica sia la morale nella storia, nella quale si danno tanto l’azione come utile e come forza quanto lo sviluppo non intenzionale, e tuttavia reale, dell’umanità.
E che la politica sia vista non solo come atto puntuale, pura manifestazione di potere, ma anche come strumento di un più disteso discorso morale e civile, e che questo sia del tutto immanente nella storia, implica, inoltre, la distinzione fra la storia politica (come sequenza di atti di utilità) e la storia etico-politica o civile (come svolgimento morale, e quindi distinta dalla pur apprezzata Staatsgeschichte); ciò che vi è di filosoficamente pensabile nella storia non è la particolarità della politica, ma l’universalità della morale, che delle forze politiche si nutre, che da esse «provvidenzialmente» si svolge (Bobbio 1955, nuova ed. 2005, p. 183). Da ciò ancora consegue la scarsa valutazione crociana della storia economica e politica (Elementi di politica, cit., pp. 225 e segg.), che si aggiunge alla polemica contro chi, all’opposto, colloca in rapporto troppo ravvicinato filosofia e politica; una polemica che si specifica come una radicale critica dell’ideologia: nessuna forza particolare (com’è la politica) è in grado di prefigurare una storia universale dell’umanità (ed è questo un ovvio riferimento anticomunista). E se non lo è lo Stato, neppure i partiti, gli antagonisti dello Stato, sono portatori di cogenti razionalità storiche o metastoriche, ma sono soltanto gruppi particolari di uomini uniti da interessi e programmi comuni, che hanno soggettività politica solo in quanto hanno leader capaci.
Infine, come ultima conseguenza si rileva che la filosofia come storiografia etico-politica «comprende e intende tutto» (p. 193), ma che al contempo giudica, fissando scalini raggiunti nella storia e non più discendibili, sancendo criteri non più derogabili, con cui la politica deve confrontarsi. La morale non giustifica tutto, ma condanna, marxianamente, ciò che è condannato dalla storia, e approva ciò che la storia è giunta ad approvare.
Questa possibilità che la politica si distenda in una storia morale filosoficamente interpretabile è l’atto di egemonia di Croce (Gramsci 1948, 20003, p. 247), che universalizza un’esperienza particolare – intellettuale e storica – elevandola a paradigma della coscienza dell’umanità: la morale che nella storia si manifesta, e che la filosofia riconosce, è infatti la libertà nella sua forma moderna (individuale e collettiva) e nella sua consapevolezza filosofica. E che quella libertà si presenti come «religione della libertà», ossia come una concezione del mondo divenuta stimolo all’azione (p. 349), significa che Marx non agisce in lui solo in negativo, come correttivo delle «alcinesche seduzioni della Dea Giustizia e della Dea umanità» (prefazione alla 3a ed. di Materialismo storico ed economia marxistica, 1918, p. XIV): mentre dà inizio alla sua lotta contro il fascismo, Croce assume anche il marxismo, e il suo rapporto fra teoria e prassi, come contro-modello della propria filosofia che si appresta alla riscossa contro queste due minacce al mondo liberale.
Negli Elementi di politica sono presenti numerose esplicite asserzioni anticomuniste (in termini di condanna della tirannide e della rozzezza intellettuale di una dottrina che crede di poter deviare e rifondare il corso della storia), mentre vi è assente il termine fascismo, a cui si allude con accenni a «regimi autoritari contro la storia» e a «ideali assolutistici» (Elementi di politica, cit., p. 260), nonché a «concezioni politiche autoritarie e reazionarie» (p. 250). Tuttavia, in questa fase, sembra il fascismo il vero problema di Croce.
In Politica in nuce c’è un’aperta polemica contro lo Stato etico, del resto già presente nei Frammenti di etica; ma nei saggi dapprima raccolti in Aspetti morali della vita politica, e poi posti a seguito di Politica in nuce, il tema della moralità della politica, dell’impossibilità che la forza sia l’unico orizzonte dell’umana esistenza, diviene un programma di politica della cultura, di educazione morale, particolarmente nel saggio Contrasti d’ideali politici dopo il 1870, che anticipa l’8° capitolo della Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932). In quei saggi si assiste all’invenzione (o piuttosto alla forte accentuazione) di un liberalismo teorico che spiega la storia moderna al di là delle sue stesse narrazioni autolegittimanti (empirismo, scientismo, illuminismo, utilitarismo), e che consente un giudizio morale immanente alla storia, spingendo all’azione senza essere un’ideologia: appunto, l’equiparazione della morale con la libertà, la «religione della libertà». L’espressione – che significa «fede, fondamento di azione, lume di vita morale» (Elementi di politica, cit., p. 234) – è adombrata dove Croce parla dell’«opposizione irremissibile sulle cose ultime» fra libertà moderna e autoritarismo cattolico, che è «contrasto di religioni, della quale quella liberale e immanente si annunzia all’autoritaria e trascendente in aspetto di giustiziera e seppellitrice» (pp. 236-37): la religione è ormai fatta «storica» (p. 257), la secolarizzazione è compiuta, e il conflitto fra Stato e Chiesa prende il suo autentico aspetto di dialettica fra politica e morale (pp. 284 e segg.).
Croce – che il 24 giugno 1924 vota la fiducia a Benito Mussolini, ma che con il Manifesto del 1° maggio 1925, in risposta a quello di Gentile, dimostra di non essere un «fascista senza camicia nera», come lo definiva il suo antico sodale (Bobbio 1955, nuova ed. 2005, p. 186) – sa ormai che il fascismo non è la sana reazione che ha vinto un liberalismo invecchiato e che, come «chiodo che scaccia il chiodo», lo stimola a nuove forze (Elementi di politica, cit., p. 240), ma anzi è «Stato non-etico» (Sartori 1966, p. 88), cattiva forza particolare e cattiva pretesa di universale, perché, nonostante teorizzi lo Stato etico, vuole dimostrare che l’epoca della libertà è finita, nella teoria e nella pratica.
La critica di Croce investe così – in primo luogo per difendere l’autonomia della vita morale dal potere politico – la teoria dello Stato etico, gentiliana e fascista, che vuole unificare morale e politica nello Stato, dando vita a una «concezione governativa della morale», in un «dionisiaco delirio statale» (Elementi di politica, cit., p. 188). Ora, se il secondo grado della pratica, dopo l’utile individuale, è l’atto morale, la volizione dell’universale, allora lo Stato, anche in quanto Stato-potenza, ha certamente già in sé un’intima doverosità, un’immanente necessità: è questo il motivo per cui lo Stato, pur non immediatamente etico, offre all’etica il contenuto. Nondimeno – contro Hegel (il quale in verità apre lo Stato alla storia), e soprattutto contro i gentiliani (pp. 214-15) – Croce è inflessibile nell’affermare che lo Stato in quanto istituzione resta politico, «forma elementare e angusta della vita pratica» (p. 188), e sarà invece propriamente etico in quanto comunità di individui morali (nella sfera dell’etica, appunto): solo in questa dimensione lo Stato «è la vera Chiesa, ha cura d’anime ed esercita gli uffizi della moralità e della cultura» (Frammenti di etica, cit., p. 147). Questa plurivocità dello Stato in Croce è stata rilevata da molti interpreti.
Ma la distinzione fra morale e politica, e l’affermazione dell’amoralità dello Stato, non può esaurire la risposta crociana al fascismo (una volta escluso il ricorso alla dottrina liberaldemocratica dei diritti umani). Croce lotta contro il fascismo non solo con le armi della distinzione, ma anche con l’affermazione che la continuità processuale dello svolgersi della politica in morale non si interrompe. Insomma, Croce vuole dimostrare che il fascismo (e il suo Stato etico) è impari all’autentico rapporto, mediato, fra politica e morale; che la sua politica di pura potenza fallisce davanti alla sfida dell’universale, cioè della morale, ovvero della libertà. E questa strategia si fonda (in La concezione liberale come concezione della vita) sulla definizione del liberalismo non come forza politica, ma come ‘metapolitica’, ovvero come schema immanente della stessa età moderna, della sua filosofia che (contro Werner Sombart – Elementi di politica, cit., pp. 268 e segg. – oltre che contro Marx) non è per lui solo borghese, ma universalmente umana.
Il liberalismo di Croce non è opera di una classe o di un partito, ma è la stessa filosofia storicistica, nata dal cristianesimo riformato e secolarizzato e dalla filosofia laica italiana (diversa quindi dal razionalismo giusnaturalistico): una filosofia antidogmatica, centrata sul conflitto (la dialettica) e non sulla stasi, capace di rivoluzioni autentiche (cioè etiche e teoriche), ovvero di superare la scissione fra ragione e storia e di porsi come l’adeguata autocoscienza di un’epoca in cui la libertà – ossia la morale, l’universale che si forma nella coscienza individuale e che ne esce per allargarsi all’umanità – diviene soggetto storico autocosciente. Il liberalismo di Croce è la modernità certa di sé.
È contro questa filosofia e questa storia che dopo il 1870 si levano i nemici del liberalismo – i ‘contro-ideali’ del socialismo, dell’imperialismo, del positivismo, dell’autoritarismo – nei quali Croce vede solo una polemica contingente contro le insufficienze dei liberalismi storici, ma di cui afferma l’incapacità a costituire principi ideali della vita umana. La «divergenza fra teoria e fatto» (Elementi di politica, cit., p. 258), fra pensiero filosofico illiberale e sviluppi storici potenzialmente interni alle istituzioni liberali, è per lui sanata dall’affermazione intellettuale dell’«idealismo filosofico, che fa tutt’uno con la concezione liberale della vita» (p. 262).
Insomma, nonostante le sfide storiche e teoriche, il liberalismo, secondo Croce, uscirebbe dalla prova di fine secolo confermato come unico orizzonte possibile della storia d’Europa. Eppure, poiché la Grande guerra («conflagrazione» più che guerra, come spesso ripete per segnalarne l’insensatezza) ha esasperato tutti i problemi e non ne ha risolto alcuno – anche questa è un’allusione al fascismo, oltre che al comunismo –, e poiché forte è in Croce la percezione, scevra peraltro di pessimismo e di declinismo, che «l’Europa naviga gravemente discostata dalla politica umanitaria e umana della metà del XIX secolo, in un mare tempestoso, sotto un cielo scuro» (p. 293), egli non può non concludere che «la storia della nostra età ci prepara dei doveri morali» (p. 262), ovvero di lottare contro le concezioni e le politiche antiliberali. E la tesi di Croce – non espressa, ma evidente in controluce – è che il fascismo non potrà impedire che la politica trapassi, pur nella distinzione, nell’universale morale, che cioè non ha la capacità di lacerare la comunione umana con gli «stolti concetti delle razze e delle nazioni privilegiate e di quelle perpetue nemiche» (p. 293). Un non praevalebunt echeggia nelle pagine degli Elementi di politica: «È cosa assurda che possa mai spegnersi la fiamma morale che arde nel petto dell’umanità» (p. 286).
È difficile negare che questa libertà, che vorrebbe essere un ideale pratico, non sfumi invece in un’idea che, benché immanente, regge la storia, ovvero che la «storia della libertà consapevole di essere tale» (Gramsci 1948, 20003, p. 245) abbia in sé più di un’ombra di teleologismo, o di aprioristica rassicurazione umanistica: «Questo continuo trasfondersi della morale nella politica, che pur rimane politica, è l’effettuale progresso etico dell’uman genere» (Elementi di politica, cit., p. 292). Al contempo Croce sente il bisogno di aprirsi attivamente (anche se non in modo direttamente politico) alla politica della cultura – a una pedagogia filosofica dell’umanità –, e di preparare le armi perché la lotta politica si innalzi a conflitto di religioni. La lotta contro il liberalismo in cui Herbert Marcuse vedeva un volto del fascismo spinge Croce a un compito morale e di critica militante: sconfiggere l’avversario mostrandone la limitatezza, evidente proprio nella sua unilaterale pretesa che una forza storica distrugga per sempre le altre. La superiorità del liberalismo sta proprio nel saper collocare l’avversario all’interno della propria narrazione filosofica (p. 240).
Insomma, rispetto al fascismo in Elementi di politica Croce delinea, in filigrana, una strategia tanto di distinzione (quando l’obiettivo è lo Stato etico di Gentile) quanto di ricomprensione in posizione subalterna (quando l’obiettivo è la vicenda politica in senso proprio). Appunto, la strategia egemonica che si dispiegherà nella Storia d’Europa.
Il talento crociano della distinzione è poi evidente anche nella lunga discussione con Luigi Einaudi (iniziata nel 1928 e proseguita fino al 1943) di cui in Elementi di politica è pubblicato un importante documento, Liberalismo e liberismo, dal quale emerge che l’utile in Croce non dà origine a una filosofia utilitaristica (che anzi è vista come errore ricorrente del liberalismo e come causa delle reazioni antiliberali), ovvero che la libertà economica per lui non è strutturalmente collegata alla libertà morale.
La distinzione fra «l’economico liberismo e l’etico liberalismo» (p. 265) nasce dalla confutazione del leitmotiv dell’utilitarismo armonicista del dimenticato Frédéric Bastiat, ma in generale del liberismo, e anche del neoliberismo e dell’ordoliberalismo (infatti Wilhelm Röpke su questo punto dissente dal pur stimatissimo Croce), che cioè la libertà sia indivisibile, ovvero che esista un rapporto simmetrico fra struttura e sovrastruttura, e che insomma non vi sia libertà politica senza libero mercato. Per Croce, invece, la libertà può affermarsi in qualunque ordinamento economico – una posizione che può essere tanto conservatrice e antimarxista quanto critica, che in lui nasce dall’idea che nessuna istituzione storica sia consustanziale al liberalismo.
Così, il rapporto fra liberalismo e democrazia è negato come necessario, e può essere, per lui, solo contingente: Croce è liberale, non liberaldemocratico come John Dewey, e in seguito rifiuterà perfino che a fianco della libertà si collochi la giustizia, perché la prima è morale, e la seconda è solo empirica, e per di più equivalente all’uguaglianza intesa in senso meccanico; e allo stesso titolo è negato il rapporto necessario con il capitalismo. Né lo Stato (democratico; meno che mai quello fascista) né l’economia (nemmeno quella capitalistica) esauriscono la libertà (l’anticomunismo di Croce è filosofico ed etico-politico, non economico). Anche quella di Croce è la lotta – fondata sulla critica, sulla distinzione, sulla morale intesa come «libertà senza aggettivi», cioè sull’eccedenza dell’energia vitale (nelle sue varie guise: utile, morale, intellettuale) del soggetto – contro il rischio che, per varie vie, l’uomo si riduca «a una dimensione», che il pensiero si faccia «unico». Una lotta per la complessità plurale della civiltà.
Gli Elementi di politica non esauriscono il pensiero politico di Croce, ma ne contengono molti temi, in sottile tensione drammatica tra sicurezza e contingenza, tra morale e conflitto, che la filosofia critica vuole risolvere, ma in cui essa stessa viene coinvolta. L’amoralità della politica distinta dall’universalità della morale non genera distacco tra le due dimensioni, né la distanza fra filosofia e politica risulta, in Croce, una fuga dalla realtà, ma si risolve in impegno, sia pure solo morale; né impolitico né accademico, Croce si sforza di trovare sconnessioni nella compattezza del reale, e connessioni nelle sue fratture; insomma, si espone alla contingenza, alla vita a cui non pretende di imprimere un sigillo normativo e logico, ma che neppure accetta come datità dalle leggi immodificabili. Se la politica è trascendibile, intrascendibile (e neppure interrompibile) è il ritmo di costante trascendimento della politica in morale, e il successivo ripresentarsi della politica.
La sua condanna del pessimismo è quindi meno olimpica di quanto voglia apparire, e ha più di qualcosa da spartire con l’ottimismo della volontà di Antonio Gramsci, se non con il Sisifo di Albert Camus: le sue certezze (i passaggi da un grado all’altro, dalla politica alla morale) che si vogliono teoretiche si affidano in realtà a un forte investimento di volontà pratica, anche se non militante, in un contesto storico e politico assai difficile. Ed è proprio la forte presenza del liberalismo – quadro teorico e storico della modernità, ma anche arma polemica nel presente – che fa degli Elementi di politica un momento di revisione, pur senza rinnegamenti, nel pensiero crociano. Un liberalismo sui generis; inteso da Croce come libertà senza aggettivi, come essenza filosofica e morale della modernità, come espressione della personalità del soggetto e della più vasta umanità. Così che Croce si presenta come un singolare liberale dialettico, non illuminista né giusnaturalista né contrattualista né utilitarista (interno quindi a una modernità molto più italo-tedesca che anglo-francese); come un liberale non democratico, che eticizza la politica senza essere normativista e senza rinnegare il realismo; come un liberale non necessariamente liberista né capitalista. Tanta è la singolarità di Croce che si è affermato che egli, formatosi su autori non liberali come Machiavelli, Hegel, Marx e Sorel, ha avuto una «funzione liberale» senza essere egli stesso un liberale (Bobbio 1955, nuova ed. 2005, p. 202).
E, in quanto filosofo, appare come un idealista realista; come un vitalista non irrazionalista; come un immanentista non positivista – e anzi decostruzionista delle categorie delle scienze giuridiche e sociali – ma neppure nichilista; come uno storicista assoluto che non vuol essere provvidenzialista (benché ciò non gli riesca), ma che non accetta che il pensiero confluisca nell’abisso della contingenza.
Questi tratti di originalità, che nascono da assunti teorici modificati davanti alle sfide storiche, non tolgono che Croce – interessato meno all’azione politica, individuale contingente, e più alla morale, storica e universale – perda la determinazione strutturale delle forme del rapporto comando-obbedienza. Alle soggettività concrete ma anche alle istituzioni, alle costanti della politica e della stessa natura umana, a ciò che è generale ma non universale, Croce dedica scarsa attenzione sia quando tematizza la politica sia quando pensa la morale: egli lascia la fenomenologia della politica ai cultori delle scienze empiriche, agli storici del pensiero politico, ai giuristi, agli economisti. La scienza della politica per lui è solo strumentale: al di là delle empiriche nervature e regolarità che vi si possono rinvenire, la politica è, nella sua essenza, slancio vitale, spontaneità, contingenza; è drammatica come l’intero processo vitale, che consiste nella dialettica fra la politica e la morale.
E come non vede l’importanza di questo spazio, così non coglie il rilievo non dialettico dei conflitti che vi si manifestano: il suo realismo è assai lontano dal realismo della scienza politica, atteggiato secondo istanze epistemologiche estranee a quelle crociane. Anche le contraddizioni fra economia e politica, fra mercato e Stato, fra politica e diritto, fra Stato e partiti (questi ultimi gravemente misconosciuti), sono per lui solo guise dell’utile, mentre quella fra liberismo e liberalismo – colta con profondità e acume – è interpretata come mancata distinzione fra utile e morale, fra particolare e universale. Come gli è estranea la riflessione, centrale per la filosofia politica contemporanea, intorno alla democrazia, alla sua essenza, alle sue trasformazioni, alle sue sorti (e a quelle del soggetto moderno, in lui ancora vitale, benché inquieto); il nesso fra umanesimo e politica è da lui declinato in termini di rapporto fra politica e morale, non di rapporto fra diritti e potere, fra differenze e uguaglianza.
Inoltre, qui egli non vede che il trionfo di principi non liberali, la scomparsa della «borghesia in significato spirituale» (p. 283) ovvero dell’uomo moderno consapevole di sé – oltre che dei clercs «che nella società moderna e laica sono rappresentati dai cultori del vero […], dai custodi degli ideali» (pp. 288-89) –, ossia la lacerazione della trama del discorso civile e morale dell’umanità, sono molto più che un pericolo da combattere con l’arma del dovere; che cioè il fascismo (quello tedesco, però, in questi anni non è ancora vittorioso) non costituisce una parentesi in un decorso storico complesso ma in ultima istanza non discontinuo, ma un punto di non ritorno, una barbarie non recuperabile alla civiltà perché frutto delle dinamiche stesse della civiltà, o quantomeno un’irruzione che ne mostra la fragilità e la contingenza. E come non coglie appieno la qualità del totalitarismo, così negli Elementi di politica non fa i conti con il residuo oscuro e irrisolto che la secolarizzazione porta con sé e che, negandone la pretesa di piena e conciliata immanenza, nutre la riflessione novecentesca sulla teologia politica. Per tacere della schematicità con cui tratteggia, a fare inizio da un Machiavelli piuttosto convenzionale, la storia del pensiero politico moderno.
Nel complesso, quindi, due ordini di debolezze: l’attenzione è spostata sul nesso politica/morale a scapito dell’analisi delle soggettività e delle contraddizioni reali interne alla politica e ai complessi sviluppi del pensiero politico; gli assunti sistematici su cui quel nesso si sostiene sono smentiti, non solo ora ma anche nel tempo in cui coraggiosamente li affermò.
Il pensiero politico di Croce, insomma, non può più fare egemonia: la sua capacità di interpretare i problemi del tempo con il suo specifico apparato intellettuale non è più percorribile, anche a causa del suo compatto eurocentrismo. Eppure, dagli Elementi di politica emergono insegnamenti ancora validi, se enucleati dalla garanzia umanistica e dalla declinazione morale e progressiva che li sorregge: che una filosofia politica è essenzialmente battaglia per il linguaggio, dentro il linguaggio e quindi dentro la storia, con le armi della critica intesa come strumento di decostruzione della compattezza del potere e della sua autorappresentazione; e che questo misurarsi della filosofia con le sfide del tempo, questo suo essere ‘civile’, è anche un uscire della filosofia da se stessa, un aprirsi alla vita e al suo dramma: che è insomma un gesto implicitamente politico; che la (pretesa) comprensione di tutto non è un perdonare tutto.
Un esempio di questa intrinseca politicità di Croce è proprio la sua distinzione fra liberalismo e liberismo, che ai nostri giorni si carica di un particolare valore in quanto mette in guardia, contro il discorso pubblico prevalente, dal rischio che la loro sovrapposizione – «errore» che Croce considerava non da dimenticare perché «atto a risorgere» (p. 264) – trasformi il principio della libertà di ieri nel dispotismo di oggi.
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