Vedi Egitto dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
A cinque anni dallo scoppio delle Primavere arabe, l’Egitto del presidente Abdel Fattah al-Sisi sembra essere ancora lontano da un percorso di stabilizzazione che possa chiudere definitivamente il ciclo rivoluzionario iniziato nel febbraio del 2011, quando l’allora capo di stato Hosni Mubarak fu costretto a rassegnare le dimissioni in seguito alle vibranti proteste di massa che avevano attraversato il paese a partire dal 25 gennaio. La transizione egiziana, infatti, non può definirsi totalmente conclusa in quanto permangono nuovi e vecchi problemi che rendono ancora irto il cammino di stabilità: economia, sicurezza e processo democratico rappresentano le maggiori incognite per il nuovo corso rappresentato da al-Sisi. A queste criticità bisogna aggiungere le violenze tra laici e islamisti che stanno lacerando il paese e che si sono riverberate dopo il ritorno sulla scena politica nazionale dei militari nel luglio 2013, quando venne deposto con un golpe il presidente Mohammed Mursi. Ne è seguita una crescente polarizzazione nel tessuto politico e sociale egiziano, alimentata anche e soprattutto dalla quasi immediata repressione militare della Fratellanza musulmana, quest’ultima dichiarata ‘organizzazione terroristica’ nel dicembre 2013. Alle azioni eclatanti del governo contro l’Ikhwan hanno fatto seguito quelle altrettanto rilevanti della magistratura cairota come la messa al bando di Hamas (marzo 2014) e del Partito libertà e giustizia (agosto 2014) – quest’ultimo braccio politico della Fratellanza musulmana, nonché della condanna a morte di numerosi esponenti dell’organizzazione islamista quali Mursi, appunto, Mohammed Badie e Khairat al-Shater.
Il giro di vite lanciato dalle autorità cairote contro la Fratellanza musulmana ha comportato di fatto una maggiore radicalizzazione di tutte le altre realtà islamiste e salafite, con il preciso scopo di destabilizzare il potere centrale attraverso un’insurrezione armata. Un fattore di criticità interno rilevante è altresì giocato dal terrorismo islamista, alimentatosi anche del furore reazionario della branca egiziana dello Stato islamico (Is), il Wilayat Sinai (Provincia del Sinai), e delle cellule ad essa affiliata o di quelle vicine ad al-Qaida.
A favorire l’instabilità egiziana si sono aggiunte, inoltre, le difficoltà lungo i confini condivisi con Libia e Sudan, i quali pongono un importante problema di sicurezza e di stabilizzazione delle frontiere. Temendo un possibile effetto spill-over delle violenze sul proprio territorio a causa delle continue infiltrazioni jihadiste, l’Egitto ha alzato il livello di allerta nel suo confine occidentale e ha proceduto assieme agli altri paesi della regione nel definire una strategia comune di contenimento della minaccia libica. Se una Libia stabile e un Sinai sotto il controllo statale risultano fondamentali per l’Egitto, anche il mantenimento di buone relazioni con il Sudan è di vitale importanza per gli interessi del Cairo, vista la posizione chiave che esso ricopre nelle questioni libiche e nella contesa delle acque del Nilo. La latente crisi idrica nilota era riesplosa il 29 maggio 2013 quando l’Etiopia ha inaugurato ufficialmente i lavori di costruzione dell’imponente Diga del Millennio sul Nilo Azzurro. Sebbene Addis Abeba non abbia rinunciato a voler costruire l’infrastruttura strategica sono stati lanciati numerosi colloqui tra Egitto, Etiopia e Sudan, con l’intento di dirimere la controversia attraverso un accordo vantaggioso per le parti, come dimostrato anche dall’intesa preliminare raggiunta il 23 marzo 2015 a Khartoum. La dichiarazione di principio firmata dal primo ministro etiopico Hailemariam Desalegn e dal presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, dietro mediazione del leader sudanese Omar al-Bashir, ha stabilito infatti una cornice negoziale in cui inscrivere le scottanti questioni sollevate dalla realizzazione della Diga del Millennio.
Pur nel solco della continuità con il passato mubarakiano, la proiezione esterna egiziana ha subito numerosi cambi di registro negli ultimi anni, rivoluzionando alleanze solide (Usa) e rilanciando partnership fino a pochi decenni fa improbabili (Israele e Russia su tutti). Le priorità dei governi post-rivoluzionari sono state dunque improntate da un lato al mantenimento di legami cordiali con Stati Uniti e Unione Europea (Eu), dall’altro alla ricerca di nuovi partner politici, economici, commerciali e militari come Russia, Cina e monarchie arabe del Golfo. In particolare quest’ultime sono stati i principali sponsor politici ed economici del nuovo corso egiziano, garantendo al Cairo una liquidità necessaria a coprire il fabbisogno primario grazie soprattutto ai ricchi emolumenti giunti da Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti. In particolare Riyadh, il più rilevante tra gli alleati arabi del Cairo, si è fatto garante e portavoce internazionale in più occasioni delle richieste politiche ed economiche egiziane. L’intervento non disinteressato di Riyadh ha permesso, allo stesso tempo, un allentamento delle relazioni cairote con i governi filo-islamisti di Turchia e Qatar.
Se i rapporti con il Qatar continuano ad essere complessi, ma diretti verso una possibile distensione mediata dall’Arabia Saudita, le relazioni con la Turchia sono rimaste fermamente tese tanto da indurre il Cairo a ritirare la propria rappresentanza diplomatica da Ankara e a declassare i rapporti bilaterali al livello più basso. Sempre sul piano regionale le relazioni con Hamas e la Striscia di Gaza hanno conosciuto momenti alterni di tensione e di moderato riavvicinamento politico dettati soprattutto dal fattore terroristico, minaccia costante tanto per il Cairo, quanto per l’establishment islamista al potere a Gaza. Parallelamente anche le relazioni con Israele sono state convergenti e mirate al mantenimento dello status quo, in particolare nell’area strategica del Sinai, divenuta negli anni il cuore dell’instabilità per i tre attori locali.
Sul piano internazionale, i maggiori cambiamenti del nuovo corso diplomatico egiziano si sono registrati soprattutto nei confronti degli Stati Uniti dopo le ripetute critiche espresse da Washington sulla mancata scarcerazione del deposto Mursi e la dura repressione della Fratellanza musulmana. Nonostante le frizioni e i tentativi di riavvicinamento degli ultimi tempi (per esempio lo scongelamento di nuovi fondi economici e militari e la consegna degli elicotteri Apache da utilizzare nelle campagne di counter-terrorism nel Sinai), nessuna delle due parti è sembrata essere disposta ad affrontare una rottura completa del rapporto. Le relazioni di lunga data tra Usa ed Egitto sono state saldate sia su un rapporto di reciprocità strategica, sia su un comune interesse nella lotta al terrorismo internazionale. Anche con l’Eu i rapporti sono rimasti pressoché stabili. La sponda nord del Mediterraneo rimane il principale partner commerciale del Cairo, nonostante le tensioni intercorse per il golpe militare e la repressione degli islamisti egiziani.
Anche in risposta a questa nuova fase nei rapporti con i partner consolidati, l’Egitto ha iniziato ad espandere la sua rete di relazioni con alleati non tradizionali come l’India, la Cina e la Russia. In particolare con Mosca, il governo del Cairo ha avviato un nuovo dialogo strategico che ha portato alla firma di importanti memorandum economici, energetici e militari.
Dopo la destituzione rivoluzionaria di re Farouk nel 1952, l’Egitto è stato trasformato in una repubblica presidenziale. Ciononostante, nel paese è sempre rimasto in vigore un regime tendenzialmente autoritario, sostenuto dai militari. La Costituzione del 1971 – più volte emendata – conferiva al presidente ampi poteri: oltre al comando delle forze armate, al capo dello stato spettava la nomina del primo ministro e del consiglio dei ministri, nonché dei governatori provinciali, dei comandi delle forze armate e di sicurezza, delle più importanti figure religiose e dei giudici dell’Alta corte. A ciò si aggiungeva anche un diritto di veto sulle leggi. A seguito della caduta di Mubarak, il processo di scrittura della nuova Costituzione ha subito vicende alterne, a cominciare dal referendum del marzo 2011, che ha confermato alcuni cambiamenti costituzionali voluti dalla giunta militare in quel momento al potere.
Dopo la deposizione di Mursi, una nuova Carta fondamentale è stata approvata a larga maggioranza con un referendum tenutosi a gennaio 2014. Il testo – anche in questo una riedizione della Costituzione del 1971 – ha rafforzato il ruolo preminente delle forze armate (artt. 203, 204 e 234); ha concesso ai tribunali militari potere di giudizio dei civili; pieni poteri di controllo del budget da parte dell’esercito; autonomia del Consiglio supremo delle forze armate nella nomina del ministro della difesa (per otto anni). In più sono stati proibiti i partiti religiosi ed è stata confermata la sharia (art. 2) alla base del diritto egiziano. Infine sono stati aboliti gli artt. 4 e 219 che riguardavano il ruolo della religione nel diritto e nell’esercizio del potere statale.
Sebbene la nuova Carta fondamentale abbia conferito ai militari uno status privilegiato, istituzionalizzando l’influenza dell’esercito sulla gestione politica del paese, il testo contiene elementi di laicità e di garanzie del diritto maggiori rispetto al precedente testo adottato dalla presidenza Mursi.
Con più di 80 milioni di abitanti, di cui più di un terzo sotto i 14 anni, l’Egitto è lo stato più popoloso del mondo arabo. La sua popolazione è quasi raddoppiata negli ultimi trent’anni e la crescita demografica continua a essere superiore alla capacità economica nazionale di sostenerla. Poiché la maggior parte del territorio egiziano è desertico, più del 95% della popolazione vive in una ristretta area lungo la fertile valle del Nilo e intorno al delta del fiume (che costituiscono meno del 5% del territorio), con un tasso di densità molto elevato, che in alcune zone della capitale raggiunge più di 100.000 abitanti per chilometro quadrato. Ciò spiega perché la riduzione della pressione demografica – il tasso di crescita della popolazione era stimato all’1,6% nel 2013 – costituisca uno degli obiettivi principali del governo.
Gli egiziani rappresentano con il 94% il gruppo etnico dominante, mentre il restante 6% è costituito dai beduini, che abitano nei deserti a est del Nilo e nel Sinai, dai berberi, che si concentrano nell’oasi di Siwa a ovest del Nilo, e dai nubiani, che vivono nell’Alto Egitto. Nel corso degli ultimi decenni nel paese è confluito anche un numero difficilmente quantificabile di rifugiati politici provenienti dall’Iraq, dal Sudan e dalla Siria, che si sono aggiunti ai rifugiati palestinesi affluiti qui fin dal 1948.
Il paese non è estraneo neanche a tensioni di carattere religioso tra la maggioranza musulmano-sunnita e la minoranza cristiano-copta, che conta circa il 10% della popolazione: quest’ultima è spesso colpita da diversi attacchi alle loro chiese in tutto il territorio nazionale.
Le elezioni presidenziali 2014 e quelle parlamentari 2015 sono state segnate da un accentuato controllo autoritario della vita politica del paese e da numerose restrizioni alle libertà personali da parte del nuovo esecutivo. Ciò ha comportato anche limitazioni alla partecipazione politica, soprattutto, per tutte le formazioni islamiste dichiarate illegali. Questa stretta autoritaria ha portato a un aumento delle proteste di piazza – secondo il report Democracy Index nel paese si sono registrate più di 14.000 manifestazioni contro il governo solo nel 2014 – e a un declassamento del paese nei ranking mondiali per indici di democraticità. In questo contesto caratterizzato da repressione e controllo capillare, la protesta politica, la disaffezione nei confronti del regime e le istanze di apertura democratica degli egiziani hanno spesso trovato espressione su Internet, che in Egitto non è soggetto a filtro, sebbene non siano mancati il blocco e l’oscuramento di alcuni siti considerati sensibili. Molti siti e blog di esponenti delle opposizioni laiche e religiose, oltre che di intellettuali indipendenti, in quel periodo sono divenuti lo strumento più naturale per aggirare la censura di stato e per far conoscere le motivazioni dietro la rivoluzione dei giovani egiziani. La rilevanza di questa ‘vitalità virtuale’, d’altra parte, è emersa con tutta le sue potenzialità proprio durante le proteste anti-regime di inizio 2011 e in quelle del 2013, in cui social network come Facebook e Twitter si sono dimostrati mezzi fondamentali per diffondere la mobilitazione all’interno del paese, specie tra le fasce più giovani della popolazione, e per darne visibilità al di fuori, date le forti limitazioni alla libertà di stampa e di informazione. Numerose manifestazioni sono state represse dalle autorità, provocando diverse decine di arresti di giornalisti e di attivisti per i diritti umani. Ancora oggi, anche a causa del perdurare dell’instabilità politica, il quadro generale dei diritti civili e politici nel paese non è migliorato. In tal senso, l’approvazione da parte dell’esecutivo di severe leggi in materia di diritto di manifestazione (previsti gli arresti nei casi di cortei non autorizzati) ha reso ancora più aspra la contrapposizione non solo tra islamisti e militari, ma anche tra questi e società civile liberale e secolare.
A rendere ancora più incandescente il clima di contrapposizione politico-sociale ha influito pesantemente la crescente escalation di violenze terroristiche, che ha indotto il governo ad approvare un nuovo e contestato pacchetto di 54 misure che definisce il concetto di terrorismo in termini poco circostanziati, descrivendolo come «ogni atto che lede l’ordine pubblico con la forza». Le nuove misure molto restrittive concedono prerogative più ampie alle forze di polizia e a quelle di sicurezza nell’intervento conto qualsiasi atto reputato lesivo dell’ordine pubblico e quindi ascrivibile nell’alveo del terrorismo. Le norme prevedono l’introduzione di tribunali speciali militari anche nei confronti di civili, nuove pene da 5 a 7 anni per i crimini legati all’incitamento alla violenza – anche attraverso Internet – e al terrorismo. Inoltre, i giornalisti che pubblicassero informazioni in contraddizione con quelle ufficiali in caso di attentati o sulle operazioni di sicurezza dei militari potrebbero essere multati o sottoposti al carcere. Come per precedenti dispositivi ritenuti liberticidi, anche questa nuova legge è stata ampiamente criticata dalle organizzazioni per i diritti umani, che l’hanno equiparata ad una forma di stato d’emergenza non dichiarato.
Tra i paesi del mondo arabo l’Egitto è la terza più grande economia dopo l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, con un pil di 286,4 miliardi di dollari. Dal 2006 al 2008 l’economia egiziana è cresciuta in media del 7%, registrando una flessione (4,7%) nel 2009 a causa delle ripercussioni della crisi economica internazionale, per poi riprendersi nel 2010 (5,1%). Il graduale processo di liberalizzazioni economiche avviato già durante gli anni di presidenza Mubarak da un lato ha favorito la crescita economica, dall’altro ha prodotto un rialzo dei prezzi e una caduta dei salari che hanno peggiorato le condizioni di vita della popolazione incrementando il problema della disoccupazione (13%), soprattutto tra i giovani (circa il 39%).
Lo scoppio delle rivolte interne e l’instabilità politica conseguita hanno bloccato la ripresa della crescita economica. Il forte calo delle attività economiche ha avuto un inevitabile impatto negativo sul quadro macro-economico, evidenziando un aumento del debito pubblico egiziano e del deficit, una forte contrazione degli investimenti e il conseguente deterioramento della bilancia dei pagamenti. Fattori che hanno causato una repentina emorragia di riserve valutarie. A peggiorare ulteriormente lo stato del deficit, si è aggiunto il piano da 3,2 miliardi di dollari in investimenti pubblici e sussidi (quali il salario minimo garantito per i lavoratori impiegati nel settore pubblico) approvato dal governo poche settimane prima delle elezioni presidenziali del maggio 2014.
Nel duplice tentativo di ridurre il peso della burocrazia e di garantire una progressiva ripresa dell’economia, i numerosi governi post-rivoluzionari hanno cercato di stimolare gli investimenti attraverso una parziale riforma del sistema legale e un tentativo di deregulation. Sebbene ancora lontana dai tassi di crescita dell’era Mubarak, la sostanziale stabilizzazione del quadro politico egiziano ha parzialmente favorito una progressiva ripresa dei tassi di crescita del pil. Nelle intenzioni del Cairo, scelte precise di indirizzo in politica economica e finanziaria potrebbero favorire la creazione di piccole e medie imprese private, una minore presenza dello stato in economia, una maggiore efficienza nella spesa pubblica e una più incisiva capacità di attrazione degli investimenti diretti esteri (ide) nel paese. Per far ciò il governo si è posto come obiettivo sia la riduzione del deficit di bilancio al 10% del pil entro il 2018, sia un ulteriore taglio dei sussidi alimentari e energetici, che incidono per circa il 25% del budget statale.
Potenzialmente un ruolo importante potrà essere giocato dalla nuova legge sugli investimenti esteri che avrà il compito di favorire l’effettiva ripresa. Il nuovo dispositivo normativo, che ha emendato quattro testi varati tra il 1981 e il 2005, punta a ridurre soprattutto gli ostacoli burocratici agli ide, delegando l’intero iter amministrativo al Gafi (General Authority for Investment and Free Zones), che avrà il compito di approvare o rigettare i progetti che saranno realizzati nelle zone speciali individuate dal governo. Il nuovo strumento normativo prevederà, inoltre, la creazione di uno sportello unico per gestire il flusso di capitali provenienti dall’estero. Obiettivo della legge è lo sviluppo di progetti infrastrutturali per la rivalutazione ambientale ed economica di aree depresse come quelle dell’Alto Egitto o del Deserto Occidentale. Si inseriscono in questo contesto anche le cosiddette ‘grandi opere’ nel settore infrastrutturale attraverso partnership pubblico-private, come quella riguardante i lavori di ampliamento del Canale di Suez o gli altri mega-progetti infrastrutturali di sviluppo economico. Questi nuovi indirizzi in politica economica dovrebbero prevedere ricadute positive anche nel turismo, il più colpito dalle tensioni politiche egiziane. Il comparto costituiva nel periodo pre-rivoluzionario una buona fetta del pil egiziano, contribuendo con introiti pari a 11,9 miliardi di dollari. Se da un lato questa strategia potrebbe contribuire ad affrontare il problema della disoccupazione, dall’altro i troppi ritardi nel taglio della spesa pubblica, nella competitività e nell’attrattività del paese fanno aumentare le perplessità circa le reali capacità riformiste del governo. L’Egitto figura oggi al 112° posto su 189 paesi analizzati nell’indice sul Doing Business della Banca mondiale (nel 2008 era tra i primi dieci top reformer) e al 114° su 149 paesi nell’indice di competitività globale.
Sebbene il clima generale rimanga incerto, la sostanziale stabilizzazione del quadro istituzionale, il sostegno finanziario dei donatori internazionali vicini all’Egitto (su tutti le monarchie del Golfo), le misure di consolidamento fiscale e il ribasso del prezzo degli idrocarburi hanno contribuito a ridurre le preoccupazioni degli osservatori per gli squilibri economico-fiscali egiziani e a migliorare le attese sulle prospettive di crescita nel medio-lungo periodo.
Nonostante l’impoverimento dei giacimenti nel Golfo di Suez, l’Egitto rimane fra i principali produttori di petrolio e di gas. Negli ultimi anni, il governo ha avviato attività esplorative nelle aree di frontiera, come il Deserto Occidentale al confine con la Libia e le zone off-shore del Mediterraneo. Proprio in una di queste esplorazioni è stata rinvenuta una delle più importanti scoperte gasifere off-shore di tutti i tempi. Tale scoperta dovrebbe permettere nel medio-lungo periodo sia una certa indipendenza energetica dall’importazione di idrocarburi, sia uno stop alla crescita del consumo elettrico interno (circa dell’8% annuo).
In particolare il forte incremento della domanda, i ritardi nella costruzione dei nuovi impianti elettrici e l’accumulo dei deficit sulle sovvenzioni elargite dal governo a quasi la metà del fabbisogno totale sono stati una delle principali emergenze, al pari dell’economia, per tutti gli esecutivi post-Primavere arabe.
Per cercare, dunque, di far fronte ai continui blackout e per migliorare la distribuzione energetica attraverso le reti nazionali, il governo ha adottato una politica di attrazione degli investimenti esteri con l’obiettivo di rendere più efficiente il consumo interno, di ammodernare le infrastrutture strategiche per l’import e l’export, nonché di diversificarle da quelle già esistenti (le più importanti sono la Suez-Mediterranean Pipeline e l’Arab Gas Pipeline).
Grazie alla sua posizione geografica strategica, l’Egitto ha svolto un ruolo chiave nella politica e nella sicurezza mediorientale sin dalla Prima guerra mondiale. Nel corso del Novecento potenze come il Regno Unito, l’Unione Sovietica e gli Usa hanno considerato il paese un attore rilevante nelle rispettive strategie regionali e internazionali. In particolare, il Canale di Suez si è rivelato cruciale non solo per la sicurezza del Golfo, ma anche per le rotte del commercio tra l’Asia e l’Europa. Dopo le guerre del 1948, del 1967 e del 1973 contro Israele, il presidente Anwar al-Sadat inaugurò un nuovo corso nella politica regionale egiziana, sfociato nella firma degli Accordi di Camp David nel 1978 e del Trattato di pace con Israele nel 1979. Se il riavvicinamento a Tel Aviv, da un lato, ha portato alla rottura delle relazioni diplomatiche con gli stati arabi e all’espulsione dalla Lega Araba dal 1979 al 1989, dall’altro è valso all’Egitto la concessione di aiuti economici e militari statunitensi per 1,3 miliardi di dollari all’anno.
Dalla fine degli anni Settanta, l’Egitto si è adoperato per assicurare la stabilità e la pace regionale. Il paese ha contribuito alla forza internazionale contro l’Iraq – guerra del Golfo del 1990-91 – con 35.000 effettivi, il contingente più numeroso dopo quelli statunitense e britannico. Allo stesso modo, l’Egitto ha fornito il proprio sostegno logistico agli Usa per l’invasione e l’occupazione dell’Iraq nel 2003, benché Mubarak fosse contrario al rovesciamento del regime di Saddam Hussein per il timore di ricadute negative sulla stabilità regionale e di un ridimensionamento della partnership con gli Usa, nonché del flusso di aiuti provenienti da Washington. L’enfasi sulla stabilità regionale, cui è improntata la politica di difesa egiziana, ha spiegato i diversi tentativi di mediazione condotti dall’Egitto tra arabi e israeliani e tra le diverse fazioni palestinesi. Essi sono stati ripresi, seppur con accenti e approcci diversi, sia da Mursi, sia da al-Sisi, dimostrando la volontà di muoversi su una linea di continuità rispetto a questi temi.
Sempre in un’ottica di stabilizzazione della regione e di lotta al terrorismo islamista, lo stato centrale è impegnato nella messa in sicurezza del Sinai e del suo confine orientale, a seguito della recrudescenza del fenomeno all’indomani della destituzione di Mursi nel luglio 2013. Tuttavia il riemergere del terrorismo non è rimasto confinato al solo Sinai e con graduale pericolosità è penetrato in diverse zone strategiche dell’entroterra egiziano: in primo luogo, il Cairo e il distretto della capitale, per poi diffondersi nel delta del Nilo, lungo il confine occidentale con la Libia e, infine, nelle aree rurali dell’Alto Egitto. Seppur apparentemente circostanziato a determinate e differenti tipologie di terrorismo (in particolare guerriglia urbana e lotta armata/insurrezionale), il fenomeno è percepito dal governo egiziano come una delle principali minacce alla stabilità e alla sicurezza nazionale.
All’indomani della destituzione di Mohammed Mursi nel luglio 2013, le relazioni egiziano-statunitensi hanno vissuto il loro momento più basso nell’ultra-quarantennale rapporto di reciprocità strategica, che a lungo ha rappresentato un fattore di stabilità per il Medio Oriente. Una situazione, questa, che ha comportato, da un lato, una delicata fase di ridefinizione delle relazioni con Washington, mentre dall’altro, ha favorito un riavvicinamento a Mosca. Un primo cambio di rotta nelle relazioni internazionali egiziane si era palesato ufficialmente nel novembre 2013, quando Egitto e Russia hanno firmato un memorandum da 3 miliardi di dollari per la fornitura di armamenti militari. Le successive visite di al-Sisi in Russia e di Putin in Egitto, oltre a portare alla firma di nuovi accordi di partenariato strategico (come quelli riguardanti la Free Trade Area del Canale di Suez o la costruzione di un reattore nucleare ad al-Daaba), hanno confermato nel complesso un rafforzamento del trend commerciale bilaterale (l’interscambio è aumentato dell’80%, arrivando a 4,5 miliardi di dollari nel 2014), ma soprattutto un moderato shift geopolitico del Cairo verso Mosca. Da parte sua la Russia, pur non aspirando a sostituirsi agli Stati Uniti come attore principale nella regione, ha approfittato della ridefinizione della politica estera mediorientale statunitense per ampliare anche ad altri teatri operativi (per esempio Algeria, Libia, Siria e Iraq) il proprio export militare – la sua principale arma diplomatica – e aumentare, quindi, la propria influenza in Medio Oriente.
Nel novembre 2013 al Cairo ha avuto inizio un processo contro Mohammed Mursi e contro una ventina di alte personalità legate alla Fratellanza musulmana e al suo braccio politico, il Partito libertà e giustizia: tutti sotto accusa sia per fatti legati alla presidenza islamista (agosto 2012-luglio 2013), sia per alcuni episodi risalenti al periodo della Primavera araba. Dopo un lungo e contestato processo, la Corte criminale del Cairo aveva confermato nel giugno 2015 i due verdetti emessi già in primo grado contro Mursi e gli altri accusati (tra cui Mohammed Badie e Saad al-Katatni): ergastolo per l’accusa di spionaggio in favore di Qatar, Hamas, Hezbollah e Iran, ma, soprattutto, condanna a morte per l’evasione del 2011 dal carcere di Wadi al-Natroun, circa 90 chilometri a nord-ovest del Cairo. La fuga, resa possibile grazie all’intervento di «elementi armati di Hamas, degli Hezbollah libanesi, quadri dei Fratelli musulmani e beduini del Sinai appartenenti a formazioni jihadiste», è avvenuta il 29 gennaio 2011, durante le proteste della prima Rivoluzione egiziana. Secondo i giudici, lo scopo dell’evasione era finalizzato alla creazione di «uno stato di grande caos» nel paese. Destituito da un golpe militare il 3 luglio 2013, Mursi era stato posto immediatamente agli arresti nella prigione di Torah, al Cairo, dov’era stato imprigionato assieme agli altri leader della Fratellanza musulmana, mentre dal novembre 2013 era stato spostato nel penitenziario di Borg al-Arab, ad Alessandria.
A circa 150 anni dalla sua fondazione (1869), il Canale di Suez è tornato nell’agosto 2015 a nuova vita grazie all’apertura di un secondo percorso che permetterà un maggiore transito di navi e merci dal Mar Rosso al Mar Mediterraneo, una riduzione drastica dei tempi di attesa e, in prospettiva, più introiti per le asfittiche casse egiziane. Dai 37 chilometri della nuova sezione di Suez, che corrono in parallelo ai 73 della vecchia arteria, transiteranno entro il 2023 ben 97 navi al giorno (a fronte delle 48 finora calcolate). Il governo e l’autorità marittima garante del Canale hanno stimato inoltre entrate per oltre 13 miliardi di dollari sempre entro il 2023. Parallelamente, le navi che attraverseranno il canale dimezzeranno i tempi di attesa (passando dalle 18 alle 11 ore) e ridurranno i costi di trasbordo di oltre il 40%. Il raddoppio dell’opera era stato annunciato in diretta tv da Ihab Mamish, presidente dell’autorità che gestisce il Canale di Suez, direttamente da Ismailia, il 5 agosto 2014. La nuova sezione – costata all’incirca 9 miliardi di dollari e finanziata in gran parte con obbligazioni nazionali – dovrebbe permettere la creazione di oltre un milione di nuovi posti di lavoro, grazie alla costruzione di progetti paralleli come cantieri navali, stazioni di servizio per i cargo ma anche resort per passeggeri, in modo tale da fare dell’area di Suez una Free Trade Area capace di reggere la concorrenza regionale e internazionale. In questa grande opera sono confluiti anche capitali russi e cinesi. Nelle intenzioni del governo, il canale – che rappresenta il 4% del pil nazionale – e il suo indotto industriale dovrebbero garantire all’economia egiziana una crescita fino al 35% delle sue risorse entro il 2050. Il progetto del nuovo Canale di Suez rappresenta solo uno dei 15 mega progetti (del valore complessivo di 100 miliardi di dollari) rientranti nella nuova politica di sviluppo territoriale e infrastrutturale annunciata da al-Sisi nella Conferenza sullo sviluppo economico dell’Egitto (13-15 marzo 2015). Oltre ai lavori nell’area di Suez, sono compresi un progetto molto importante riguardante il cosiddetto Golden Triangle (Safaga, Qena, al-Quseir, nell’Alto Egitto) relativo allo sviluppo minerario, industriale, logistico, turistico, agricolo della regione, la costruzione di una nuova ‘capitale’ a est del Cairo, il trasporto ferroviario ad alta velocità, le esplorazioni energetiche on-shore e off-shore, la costruzione di ulteriori gasdotti e oleodotti e l’edilizia abitativa. Ciononostante, la promozione e lo sviluppo di tali progetti faraonici non hanno mitigato una situazione politica e sociale ancora difficile per il paese, dopo l’inizio della fase di democratizzazione a seguito della caduta di Mubarak nel 2011.
A 1.450 metri di profondità d’acqua e a circa 107 chilometri dalla costa di Port Said, Eni ha scoperto nel blocco Shorouk il più grande giacimento di riserve di gas e petrolio del Mediterraneo orientale, superiore anche all’israeliano Leviathan. Il giacimento, di circa 100 chilometri quadrati di estensione, si trova nell’area off-shore egiziana presso il prospetto esplorativo denominato Zohr1X. In base ai dati acquisiti da Eni, il giacimento potrebbe avere una capacità potenziale fino a 850 miliardi di metri cubi di gas e a 5,5 miliardi di barili di petrolio, riuscendo di fatto a soddisfare la domanda energetica egiziana per i prossimi decenni (secondo le previsioni più affidabili sarebbero almeno 60 anni). Eni aveva ottenuto la licenza di perforazione nel gennaio 2014, dopo aver vinto una gara internazionale indetta dal ministero del petrolio egiziano e dalla Egyptian Natural Gas Holding Company (Egas).
Fin dalle prime rivolte popolari del gennaio 2011, il controllo statale sul Sinai è andato gradualmente affievolendosi, generando una crescente instabilità, alimentata soprattutto dalla crisi apertasi a seguito della destituzione di Mohammed Mursi. L’escalation di violenze che ha caratterizzato la penisola, in particolare dal luglio 2013, ha affondato le proprie radici in questioni risalenti all’incirca all’ultimo decennio della presidenza Mubarak: in primis la conflittualità tra centro politico e zone periferiche; in secondo luogo il divario socio-economico tra nord e sud del Sinai; infine la marginalizzazione socio-politica ed economica delle comunità beduine. Tutti questi fattori hanno favorito un processo di costante radicalizzazione delle popolazioni locali. Ad alimentare tuttavia tali questioni si sono aggiunte la proliferazione di fenomeni criminali (traffici illeciti di esseri umani, armi e droga) e, soprattutto, la penetrazione di gruppi terroristici variamente legati ad al-Qaida o al sedicente Stato islamico (Is), per lo più nelle aree di confine con Israele (tra Rafah, al-Arish e Sheikh Zuweid). Tra questi il più pericoloso e attivo nella regione è sicuramente Wilayat Sinai (Provincia del Sinai), il gruppo precedentemente noto come Ansar Bayt al-Maqdis e così rinominatosi dopo l’affiliazione dello stesso all’organizzazione del califfo al-Baghdadi, del novembre 2014. Sebbene la gran parte delle attività eversive e terroristiche siano concentrate nel Sinai, nel tempo si è assistito ad una graduale penetrazione terroristica anche nell’entroterra di gruppi jihadisti autori di numerosi attacchi contro istituzioni civili e militari egiziane.
Approfondimento
L’accordo sul nucleare iraniano siglato il 14 luglio 2015 a Vienna ha scatenato un effetto domino nel panorama strategico del Medio Oriente allargato. A tale intesa, tutti (o quasi) gli attori del quadrante regionale hanno risposto con una ridefinizione, più o meno parziale, della propria postura di politica estera. In questo contesto, il 30 luglio 2015, Egitto e Arabia Saudita hanno aggiunto un nuovo tassello nella loro partnership, firmando nella capitale egiziana quella che è stata definita dai media la cosiddetta ‘Dichiarazione del Cairo’. Stipulata tra il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi e il principe ereditario, nonché ministro della difesa saudita, Mohammed bin Salman al-Saud, tale intesa è mirata a rafforzare la collaborazione tra i due paesi su sei livelli differenti di cooperazione (militare, commerciale, politica, energetico-infrastrutturale, culturale e media), che nello specifico riguardano:
1. Lo sviluppo di una cooperazione militare bi- e/o multi-laterale, nella fattispecie garantita dalla realizzazione di un dispositivo comune di sicurezza regionale denominato Joint Arab Military Force (Jamf).
2. Il rafforzamento della strategia di investimenti comuni nei settori dell’energia, dell’elettricità, delle infrastrutture e dei trasporti.
3. Una maggiore integrazione economica bilaterale.
4. L’implementazione degli investimenti reciproci tra Egitto e Arabia Saudita.
5. Il consolidamento della cooperazione bilaterale nei campi della politica (estera e di sicurezza), della cultura e dei media.
6. La definizione delle frontiere marittime nel Mar Rosso tra i due paesi.
Per favorire una piena integrazione e un reciproco sviluppo, Egitto e Arabia Saudita hanno individuato nei progetti relativi ai settori dell’energia, dei trasporti e delle infrastrutture (considerati strategici dal Cairo) e quelli riguardanti la cooperazione marittima e militare (anche attraverso l’introduzione di esercitazioni navali congiunte a carattere periodico e il rafforzamento della flotta civile e mercantile saudita) le basi di partenza necessarie a trasformare una solida partnership in una special relationship.
Al di là della retorica dell’accordo e della relativa valenza politico-simbolica, la ‘Dichiarazione del Cairo’ risponde a canoni già consolidati e tra loro paralleli: da un lato contenere i rispettivi problemi interni e di sicurezza (opposizioni, economia, spinte riformiste e terrorismo), dall’altro frenare la crescita dell’influenza iraniana nella regione. Se la solidità dell’alleanza con gli al-Saud è stata giustificata dal Cairo come necessaria alla sopravvivenza economica del suo sistema e al consolidamento della legittimità politica del nuovo corso presidenziale, tale intesa ha tuttavia mostrato tutti i suoi limiti nel momento in cui l’Egitto ha dovuto accettare e perseguire scelte politiche non propriamente pertinenti alla propria sfera di influenza, come ad esempio la campagna militare in Yemen, accantonando di fatto la questione libica, quest’ultima, invece, una reale urgenza nell’agenda di politica estera egiziana.
A ciò si è aggiunta, inoltre, la volontà di Riyadh di riallineare Hamas e tutte le altre compagini afferenti alla galassia della Fratellanza musulmana nell’alveo delle forze sunnite in funzione anti-iraniana e anti-sciita. Il presunto cambio di orientamento saudita è stato percepito dall’Egitto come un pericoloso segnale politico, che evidenzia in maniera netta la discrepanza esistente tra gli interessi di politica estera di Egitto e Arabia Saudita. Mentre per il Cairo le priorità si sostanziano nella ricerca di un moderato protagonismo che possa rinvigorire la sua tradizionale influenza nei teatri di crisi mediorientali (Libia, Striscia di Gaza, conflitto israelo-palestinese e questione idrica del Nilo), per l’Arabia Saudita l’obiettivo finale passa attraverso un ritorno allo status quo ante l’accordo sul nucleare iraniano e, dunque, un ridimensionamento dell’Iran nello scenario regionale, nonché un contenimento di qualsiasi minaccia alle ambizioni saudite di leadership nel mondo arabo-musulmano.
Pertanto, se l’atteggiamento troppo conciliante dei sauditi verso la Fratellanza musulmana potrebbe dar adito nel breve periodo a ripensamenti strategici nell’alleanza con il Cairo, una persistenza di tali posizioni nel medio-lungo periodo potrebbe condurre ad una frattura nelle relazioni bilaterali, non paritarie. Appiattendosi sulle posizioni saudite, l’Egitto ha giocato infatti un ruolo da junior partner e il suo interesse è stato spesso ridimensionato all’interno della strategia saudita di contenimento dell’Iran. In questo senso, la decisione di al-Sisi di appoggiare l’intervento russo in favore di Assad in Siria – andando contro le aspettative politiche saudite – ha denotato non solo la frustrazione egiziana verso questa condizione di sudditanza nei confronti di Riyadh, ma al contempo ha evidenziato tutti i limiti di una strategia egiziana troppo sbilanciata e poco autonoma dalle scelte dell’ingombrante gigante del Golfo.
Così in un contesto mediorientale sempre più complesso e fluido, la persistenza di una politica estera egiziana troppo legata ai desiderata di Riyadh potrebbe costringere Il Cairo a rielaborare una visione strategica che meglio definisca obiettivi, priorità e interessi del paese nordafricano nel Levante arabo e in Medio Oriente.
di Giuseppe Dentice