FOSCARARI, Egidio
Figlio di Andrea di Astorre di antica e illustre famiglia bolognese e di Orsina Lambertini, imparentato con la famiglia modenese Molza, nacque a Bologna il 27 genn. 1512. Entrato nel marzo 1526 nell'Ordine domenicano, con cui i suoi avevano strette relazioni, vi compì gli studi; nel 1546 si addottorò nell'ateneo bolognese e venne ascritto al Collegio dei teologi.
Tra il 1546 e il 1547, dopo una breve esperienza nella provincia lombarda, ritornò in patria per dirigere come priore e inquisitore il convento di S. Domenico. Nella primavera di quell'anno, tuttavia, Paolo III lo chiamò a Roma per sostituire (3 aprile) P. Martire da Brescia, maestro del Sacro Palazzo: in tale veste approvò gli Esercizi spirituali ignaziani insieme col card. G. Álvarez de Toledo e col vescovo F. Archinto (31 luglio 1548). In questo periodo - che coincide con la fase bolognese del concilio di Trento - strinse importanti legami di amicizia con alcuni personaggi della Curia, tra i quali il card. G.M. Ciocchi Del Monte, presidente e legato apostolico al concilio, al quale il F. partecipò come teologo. Secondo una testimonianza del card. R. Pole (Monumenti…, 1793, I, p. 350) nel febbraio del 1550 assistette M.A. Flaminio sul letto di morte e ne raccolse la confessione.
Il 23 maggio 1550 il F. fu nominato vescovo di Modena dal card. Ciocchi Del Monte, divenuto papa Giulio III, il quale soddisfece la pressante richiesta del vescovo uscente, il card. G. Morone: si stabilì così un rapporto strettissimo tra i due religiosi, e il F., ormai "creatura" del cardinale, ne seguì l'intera parabola politica. Raggiunta rapidamente la nuova destinazione, dove intendeva "fare residentia", il F. non vi si trattenne a lungo: l'anno successivo, infatti, alla riapertura del concilio, venne chiamato a parteciparvi e, pertanto, dal luglio 1551 si trasferì a Trento. Qui non rivestì ancora un ruolo di protagonista, sebbene i passati incarichi curiali, la competenza teologica e la capacità argomentativa gli permettessero di dare un contributo significativo soprattutto nel delicato lavoro di stesura dei canoni e dei capitoli dottrinali.
Sospeso il concilio a causa della guerra all'inizio del 1552, il F. tornò a Modena per dedicarsi all'attività pastorale. Già nel suo primo brevissimo soggiorno aveva dettato le linee ancorate all'autorità del Morone di un governo e di una disciplina ecclesiastici in sintonia con lo spirito cattolico di riforma; ora riprese le fila di quel discorso interrotto.
Mantenendo le aspettative che il suo arrivo nella diocesi aveva creato, il F. si prodigò nell'esercizio dei suoi doveri: predicava e coordinava l'attività assistenziale, istruiva il clero e imponeva la registrazione pasquale delle anime, compiva una visita episcopale (1552) e ne ordinava a breve distanza una seconda (settembre 1556), incarnando, e anzi contribuendo a modellare, secondo il giudizio unanime e ammirato dei suoi contemporanei, l'immagine ideale di vescovo che si era andata delineando in quel primo cinquantennio del secolo. E tuttavia, anche a seguito di episodi quali la discussa predicazione quaresimale di Giovan Francesco da Bagnacavallo, tenutasi a Modena nel 1551 alla presenza dello stesso F., non mancò di essere notata e disapprovata la sua mitezza verso quanti mostravano segni sospetti di convincimenti eterodossi.
Si trattava di una questione delicata perché, come narra nella fase difensiva del suo processo (Apologia, in Il processo inquisitoriale, 1981, I, p. 337 n. 272), il Morone aveva spinto il F. ad accettare la carica convinto che le qualità personali del domenicano, e soprattutto la grande cultura teologica di cui egli, invece, si diceva privo, si sarebbero dimostrate di grande efficacia nella lotta contro l'eresia serpeggiante in Modena, considerata dall'Inquisizione un pericoloso focolaio dopo le vicende che dagli anni Quaranta avevano visto protagonisti, fino allo scontro decisivo attorno al "formulario", gli umanisti dell'Accademia e proprio il Morone. Ma contemporaneamente lo stesso Morone aveva suggerito al F. di intervenire "con la bona dottrina et con l'assiduità et patientia et con ogni amorevolezza et charità" (ibid.) per arrivare a persuadere gli eretici, ostinati nelle loro convinzioni e forti di molti appoggi familiari in città.
In effetti il F. adottò una politica estremamente moderata nei confronti dei fermenti eterodossi, mirando soprattutto a evitare il crescere di una spirale di violenza repressiva: così, da una parte, difese la propria giurisdizione dalle interferenze dell'Inquisizione romana e della sua ramificazione locale, dall'altra trattò direttamente con i possibili inquisiti (è il caso, tra gli altri, di F. Valentini e di G. Rangoni) per giungere ad abiure extragiudiziali e private, documentate tra l'altro proprio dal ritrovamento del libretto delle assoluzioni impartite. Nel 1555, poi, L. Castelvetro, uno dei più importanti firmatari del "formulario" del 1542, riuscì a sfuggire a una convocazione inquisitoriale a Bologna, sollecitata dal papa, per l'intervento congiunto del duca Ercole II d'Este e del F. che, da parte sua, sostenne con fermezza di aver già indagato sulle posizioni dottrinarie del Castelvetro senza aver trovato alcuna prova di eresia.
Ma questa prassi venne presto severamente condannata dall'Inquisizione, coinvolta in un processo di trasformazione e istituzionalizzazione che la rese quasi un centro di potere autonomo e concorrenziale rispetto alla gerarchia, ai pontefici e ai conclavi durante i quali riuscì a imporre i propri candidati e sempre più ostile a quel cattolicesimo "umanistico-riformatore" (secondo la datata, ma efficace definizione di H. Jedin) cui anche il F. apparteneva, come seconda generazione, e di cui condivise in pieno il destino.
Quando infatti, nel giugno 1557, venne arrestato il Morone e sottoposto a un processo squisitamente politico, tutto interno alla lotta in corso ai vertici della Chiesa, molti ritennero imminente una convocazione del F. davanti all'Inquisizione. Tuttavia solo alla metà di ottobre del 1558 il F. fu chiamato a Bologna per essere ascoltato dal card. M. Ghislieri a proposito di alcune questioni relative al procedimento in corso contro il Morone e, in particolare, di alcune lettere che avrebbe cercato di far giungere all'illustre inquisito, perché in grado di scagionarlo. L'incontro terminò con l'ordine di non abbandonare la città, ma già si prospettava una convocazione a Roma, dove, infatti, il F. si dovette recare il 17 novembre.
Il 21 genn. 1559, dopo un incontro con i cardinali inquisitori, venne richiuso in Castel Sant'Angelo: la prigionia durò fino all'agosto, quando la morte di Paolo IV impedì un'ulteriore recrudescenza della repressione e pose momentaneamente fine all'aspro conflitto al vertice della gerarchia. Il 1° genn. 1560, una settimana dopo l'elezione di Pio IV, una solenne assoluzione inquisitoriale pronunciata dallo stesso Ghislieri restituì agli onori e agli impegni pubblici il F., "non solamente incolpevole, ma ancor di tutte le cose di che fu accusato innocentissimo" (Il processo inquisitoriale…, IV, p. 76 n. 118). Conclusasi la dura esperienza, che, malgrado i riconosciuti meriti, gli precluse il cardinalato, il F. si occupò della revisione degli scritti del card. Pole, fino a quando (24 febbr. 1561) venne inviato al concilio che il nuovo papa si era preoccupato di indire dopo circa un decennio di sospensione.
Dell'esperienza tridentina, cui partecipò dal 15 apr. 1561 al 3 dic. 1563, il F. ha lasciato una puntuale testimonianza attraverso le lettere settimanali al Morone, che s'interruppero solo dopo la nomina di questo alla presidenza del concilio nella primavera del 1563. Per le sue qualità, già rivelatesi nelle precedenti sessioni, il F. si distinse come una delle personalità più autorevoli del concilio. Vicino agli spagnoli, mantenne sempre indipendenza di giudizio e di coscienza, sostenendo insieme gli imperativi di una riforma della Chiesa e le necessità pastorali; il suo grande senso della misura si alimentava della notevole intelligenza e cultura teologica, del profondo afflato spirituale e del vivo sentimento di responsabilità.
Fin dall'inizio del concilio il F. fu coinvolto in prima persona: redatto il delicato decreto di apertura, il 17 febbr. 1562 venne inserito nella commissione per la riforma dell'Indice dei libri, che con sua grande delusione, nonostante gli esordi, ripiegò su posizioni difensive, senza peraltro redigere l'atteso elenco. Contemporaneamente il card. G. Seripando chiedeva a lui e ad altri cinque vescovi, tra cui M. Calini e L. Beccadelli, un memoriale basato sulla propria esperienza pastorale: rielaborato e selezionato, questo "libello italiano di riforma" costituì la piattaforma dei lavori conciliari, i dodici articoli di riforma.
Nella primavera del 1562, con l'inizio dei dibattiti, si aprì una durissima battaglia intorno al problema della residenza dei vescovi. Il F. sostenne con forza la necessità di considerare "de iure divino" l'obbligo di risiedere nella diocesi affidata, non tanto come principio teologico, che avrebbe chiamato in causa l'origine e la natura del potere episcopale e di conseguenza la sua relazione con quello papale, quanto come unico deterrente efficace contro l'assenza dei vescovi. Questa posizione, introdotta dagli spagnoli e condivisa da alcuni italiani vicini al F., fu osteggiata da molti padri conciliari sicuri dell'assoluta avversione della Curia. Dopo vari tentennamenti Pio IV pose fine all'aspro scontro ordinando di interrompere la disputa e di lasciare al papa ogni decisione in materia.
La delusione del F. fu tale che egli chiese il permesso di lasciare il concilio, perché, come spiega nella lettera del 18 maggio (Arch. segreto Vaticano, Concilio di Trento, 42), scritta in risposta ai severi rimproveri del Morone "vedendo io, che non si sodisfanno i miei patroni et signori che si dichiari la volontà di Dio et la sua Santa Legge; et non potendo io caminare per altra strada che per questa, essendo gia giunto all'ultimo atto della vita mia; et per dir meglio all'ultima scena non è giusto che mi parta da quei principii, nelli quali mi sono nudrito, che è, che lucerna sit pedibus meis verbum dei; et lumen semitis meis, vorrei che Vostra Signoria Illustrissima m'ottenesse gratia di partirmi dal Concilio".
Alla fine tuttavia il F., sensibile all'urgenza di concludere definitivamente il concilio e consapevole del danno che avrebbe comportato la sua partenza, rinunciò a impuntarsi e si adoperò con parziale successo, visti anche i presupposti teorico-politici degli spagnoli, per convincere i più ostinati sostenitori del "diritto divino" a riconsiderare la loro posizione.
Anche successivamente intervenne nei dibattiti conciliari proponendo opinioni non sempre di maggioranza, ma comunque molto seguite: nella discussione sull'eucarestia sostenne la necessità di formulare insieme con i canoni le spiegazioni dottrinali alla loro base; si pronunciò contro il valore sacrificale (oblatio) dell'Ultima Cena, considerandolo piuttosto eucaristico; intervenne appassionatamente a favore della richiesta dell'imperatore di concedere il calice ai Tedesco-Boemi; con il suo voto fece passare i canoni contro gli abusi nella messa; avanzò l'impopolare proposta di limitare il sacerdozio ai titolari di benefici. Impegnato frequentemente nell'opera di elaborazione dei documenti conciliari, stese il decreto sulle indulgenze e nel maggio del 1563 partecipò alla redazione del delicato canone sul sacramento dell'Ordine, dove, ripresentandosi i problemi già affrontati nella disputa sulla residenza, soprattutto l'origine del potere episcopale, divenne necessario garantire in modo ortodosso il potere supremo del papa pur senza alcun esplicito riferimento. Nell'ultima sessione, insieme con i vescovi M. Calini e L. Marini e al teologo F. Foreiro, gli fu affidata l'opera di revisione e redazione dell'Indice e del Catechismo, Messale e Breviario, che, frutto di una identica logica compilativa, vennero ultimati dopo la conclusione del concilio.
Tornato a Roma, il F. accolse spesso tra i suoi ospiti Carlo Borromeo, che, ammirato dalla sua ricca personalità, ne subì la duratura influenza. La morte, di cui rimane la cronaca nelle lettere di amici ed estimatori, quali ad esempio L. Beccadelli e M. Calini, lo colse a Roma il 22 dic. 1564. Venne sepolto nella chiesa di S. Maria sopra Minerva.
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