ROSSONI, Edmondo
– Nacque a Tresigallo (Ferrara) il 6 maggio 1884 da Attilio, operaio, e da Dirce Cavalieri, i quali ebbero anche una figlia, Giuseppina.
Dopo gli studi ginnasiali nel collegio salesiano di Torino, entrò nel Partito socialista e guidò nel suo paese una manifestazione durante l’ondata di scioperi seguita agli eccidi di operai nel settembre 1904 (per cui nel 1905 subì due condanne poi amnistiate). Trasferitosi in Milano a fine 1904, si avvicinò al socialismo rivoluzionario di Arturo Labriola. Tra l’ottobre del 1906 e la metà del 1907 si distinse nel gruppo di propaganda sindacalista della federazione milanese in attività giornalistica, comizi, proselitismo antimilitarista. Maturata la decisione di lasciare il partito per dedicarsi all’organizzazione sindacale, fu protagonista degli scioperi milanesi in ottobre e a novembre partecipò alla riunione di Parma dei sindacati scissionisti dalla matrice socialista, considerata troppo moderata. Alla guida amministrativa della Camera del lavoro di Piacenza, tenne accesi comizi che gli costarono procedimenti penali, fino alla condanna a quattro anni di reclusione e due di sorveglianza speciale (15 giugno 1908). Per sottrarsi alla pena fuggì dall’Italia: in Francia subì una diffida come agitatore, che nel marzo 1909 lo costrinse a partire da Nizza per riparare in Brasile, aiutato da Alceste De Ambris lì rifugiatosi. Già in novembre, però, si ritrovò espulso per attività sindacale. Tornato in Francia, rimase a Parigi solo fino al luglio del 1910, quando riattraversò l’oceano ma stavolta verso gli Stati Uniti. A New York fino al 1912, si avvicinò alle locali strutture socialiste, divenendone responsabile organizzativo già nell’estate 1910 per poi compiere un giro di conferenze in USA e Canada, che riscossero consenso tra gli immigrati italiani. Redattore de Il Proletario dal giugno 1911, fu arrestato dopo il vittorioso sciopero degli operai tessili nel New England (15 novembre 1912). In libertà provvisoria, prima del processo si diede ancora alla fuga nel gennaio 1913. Grazie all’amnistia concessa dall’Italia poté tornare nella penisola, ove ritrovò un ambiente proletario e sindacale in crisi, segnato da ulteriori eccidi in manifestazioni popolari. Si accostò così alla neonata e rivoluzionaria Unione sindacale italiana (USI). Divenuto segretario del sindacato provinciale degli edili di Modena in febbraio, lo trascinò in un lungo sciopero, fallito. Fu attivo poi a Milano, nell’ultima parte della sequenza di scioperi operai dell’estate, fino a essere arrestato l’11 agosto. In libertà provvisoria, inscenò l’ennesima fuga, scappando di nuovo a New York.
Anche Oltreoceano i sindacati erano in difficoltà, il che lo spinse a riflettere sul mondo dell’emigrazione italiana, debole rispetto ad altre componenti nazionali dell’emigrazione negli Stati Uniti e alle più consolidate organizzazioni locali dei lavoratori, anche perché chiuso in tradizionali riferimenti sindacali e di classe.
Nel settembre del 1913 propose una Camera del lavoro per soli italoamericani, così da sopperire alla loro condizione di minorità. Criticò l’ideale socialista, tentando di contemperare classe e nazione in un’idea di sindacato che fondesse antiche rivendicazioni classiste e spinte derivanti dall’appartenenza nazionale.
Nell’agosto del 1914, allo scoppio della guerra europea, come altri sindacalisti rivoluzionari assunse posizioni interventiste (e francofile, in ragione della sua probabile appartenenza alla massoneria di piazza del Gesù). L’uomo che due anni prima aveva sprezzato il «sentimento fallace della patria» (Il Proletario, 15 marzo 1912), sostenne l’utilità delle guerre, «foriere di grandi avvenimenti d’altro carattere» (Pagine Libere, 10 ottobre 1914). Dopo mesi di tensioni con l’antinterventista leadership sindacalista USA, l’ingresso dell’Italia nel conflitto lo portò a dimettersi dalla direzione del Proletario, passando a dirigere la testata nazionalista e interventista La Tribuna, di Brooklyn.
Richiamato alle armi, nel giugno del 1916 si imbarcò per l’Italia e visse da propagandista per la truppa un’anonima partecipazione alla guerra, tanto da poter tornare già nel 1918 a dedicarsi a giornalismo e sindacalismo rivoluzionario: tra il gennaio e il marzo del 1918 divenne segretario dell’Unione sindacale milanese e ne fondò l’organo, L’Italia Nostra; in giugno partecipò con De Ambris alla nascita dell’Unione italiana del lavoro (UIL), di cui assunse la segreteria, con un programma di «conservazione rivoluzionaria» che inglobasse la lotta di classe entro la cornice della nazione; in luglio venne chiamato a far parte del Comitato regionale di mobilitazione industriale per la Lombardia; in ottobre, al congresso della UIL, tenne un approccio antifascista in contrasto con il filofascismo di De Ambris.
Passato nel marzo del 1919 a dirigere la Camera del lavoro di Roma, mutò linea e mostrò simpatie verso il movimento fascista. Nella capitale, dal 1920 circa, visse con Anna Piovani e dalla loro relazione nacque una figlia.
Uscito dalla UIL e avvicinatosi alla Confederazione italiana dei sindacati economici (CISE), fondata nel novembre del 1920 e prodromo del sindacalismo fascista, venne ricondotto verso le terre d’origine ove agiva Italo Balbo, il quale nel giugno del 1921 gli affidò la guida del sindacato fascista di Ferrara. Nell’ottobre dello stesso anno promosse il congresso ferrarese della CISE e si batté per l’apoliticità dei sindacati, posizione che (pur perdente) ribadì nel gennaio del 1922 a Bologna, nel convegno in cui il fascismo creò la Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali (CNCS), di cui il 10 febbraio fu nominato segretario generale oltre che direttore de Il Lavoro d’Italia. Operò per distruggere la rete sindacale socialista, sottoponendo i sindacati all’influenza fascista e alle «inesorabili esigenze della Nazione» (Cultura sindacale, 19 marzo 1921), trovandosi in passaggi di rilievo intorno alla marcia su Roma: in giugno a Milano, nel congresso della CNCS che assunse l’aggettivo «fascista» (divenendo CNCF); in agosto a Genova, per uno degli episodi squadristici più gravi; in dicembre a Roma, nel vertice dei capi fascisti convocato da Benito Mussolini a potere appena conquistato. Nel gennaio del 1923, nonostante le perplessità mussoliniane verso i suoi progetti e le critiche di agrari e industriali, fu cooptato nel Gran Consiglio del fascismo. Propugnò un sindacalismo ‘integrale’ fascista, fusione delle organizzazioni sindacali lavoratrici e padronali, ma il 21 dicembre gli accordi di palazzo Chigi, nel confermare la reciproca autonomia delle due dimensioni del lavoro, gli procurarono una sconfitta politica.
A dispetto di ciò, vide crescere la sua importanza fino a divenire (anche nella percezione comune) uomo tra i più influenti del fascismo. Eletto deputato il 6 aprile 1924 nella XXVII legislatura (ove fu in giunta generale del Bilancio), si mosse per assicurare al sindacalismo fascista almeno il monopolio della rappresentanza sindacale dei lavoratori, specie nel mondo operaio. Subiti pochi danni dalla crisi seguita all’assassinio di Giacomo Matteotti (giugno 1924), si ritrovò membro di due commissioni – dei quindici, nominata dal direttorio del Partito nazionale fascista (PNF; 4 settembre); dei diciotto o dei Soloni, governativa (31 gennaio 1925) –, entrambe con il compito di delineare nuovi scenari del regime, istituzionali ma anche politico-sociali.
Nel secondo organismo sostenne un riconoscimento giuridico dei sindacati fascisti di tipo monopolistico, in polemiche lesive dell’immagine del regime, finite sulla stampa per l’inopinata scelta da parte sua di renderle pubbliche. La commissione accolse la «pregiudiziale» per cui lo Stato riconosceva solo i sindacati fedeli agli interessi della «vita nazionale», ma il Consiglio nazionale delle corporazioni ribadì la subordinazione sindacale al PNF (18 e 27 aprile). Il 2 ottobre successivo, il patto di palazzo Vidoni riconobbe sì il formale assetto monopolistico della galassia sindacale italiana degli operai sotto l’egida del fascismo, ma in condivisione con la Confindustria: gli imprenditori accettavano la rappresentanza unica e fascista ma ottenevano in cambio un controllo di fatto sui sindacati che, svuotati della capacità di contrattazione dei lavoratori, si riducevano a ruoli di disciplinamento sociale del proletariato. La sua stella sembrò in apparenza toccare l’apice. La legge 3 aprile 1926 n. 563 istituzionalizzò il monopolio dei sindacati fascisti.
Ebbe riconoscimenti di status, come l’ingresso in estate nel direttivo dell’Istituto nazionale fascista di cultura. Il 18 novembre passò a presiedere la nuova Confederazione nazionale dei sindacati fascisti (CNSF), forse formulando la prima parvenza di una Carta del lavoro, poi promulgata il 21 aprile 1927.
Appariva allora popolare, ma più tra i lavoratori che tra gli uomini degli apparati fascisti, e meno ancora nei vertici dell’economia italiana, diffidenti verso il suo antico ribellismo classista. Senza che Mussolini lo impedisse, iniziarono proprio in quei mesi le più classiche manovre denigratorie, tipico segno di contrasti personali e scontri di potere tra uomini, interessi, schieramenti all’interno del fascismo. Rapporti di polizia, note delatorie, campagne di stampa, manovre politiche, furono le più collaudate tecniche messe in campo contro di lui, simili a quanto sperimentarono tutti i protagonisti della dittatura fascista, anche ai massimi livelli, spesso su tattica del duce al fine di delegittimare possibili concorrenti a livello nazionale. A orchestrarle furono Giuseppe Bottai (sottosegretario alle Corporazioni) e Augusto Turati (segretario PNF), ma anche parti influenti del mondo industriale. Oltre ai temi classici («imboscamento» in guerra, «quartarellismo» nella crisi Matteotti, arricchimenti personali, iscrizione alla massoneria), si batté sulle sue specificità: ambizioni di farsi «duce del sindacalismo», congiure per sostituirsi allo stesso Mussolini, persino velleità ‘poetiche’ (suscitò ironie il suo Canto del lavoro, musicato da Pietro Mascagni).
Così, a fine 1928, per rassicurare datori di lavoro e partito alla vigilia del primo plebiscito, il governo decise lo «sbloccamento» della CNSF (27 novembre), che perse il suo peso divisa in sei autonome confederazioni nazionali. Estromesso dalla presidenza (8 dicembre), fu però ‘elevato’ al rango di ministro di Stato e così accettò, almeno in pubblico, il ridimensionamento.
Nel marzo 1929 fu rieletto deputato nella lista unica fascista per la XXVIII legislatura, ma già l’estate lo vide al centro di uno scandalo per una sua mai avvenuta fuga a Ginevra con il denaro dei sindacati fascisti e in dicembre uscì dal Gran Consiglio. Il 22 aprile 1930 venne però nominato nel comitato centrale del Consiglio delle corporazioni, in ottobre fu riammesso nel Gran Consiglio e nel 1931 tornò protagonista del giornalismo nazionale. Un tale percorso lo condusse – nel tipico iter del regime e di Mussolini, che cooptavano nel governo leader altrimenti meno controllabili – a divenire sottosegretario alla presidenza del Consiglio il 20 luglio 1932. Fu allora che diede avvio al progetto di trasformare il suo arretrato ‘borgo natio’ in una sorta di ‘città ideale’ corporativa e fascista: Tresigallo tra il 1933 e il 1939 conobbe così una radicale mutazione urbanistica, ancora oggi tutelata. Ciò gli costò inchieste per interessi privati e culto della personalità.
Più che una nuova campagna denigratoria – partita già dal 1934 dopo la sua rielezione alla Camera nel plebiscito del marzo, ma senza il successo della prima – furono i dissensi di Confindustria, Achille Starace e PNF a indurre il duce a nominarlo, invece che all’agognato dicastero delle Corporazioni, all’Agricoltura e Foreste (24 gennaio 1935). Da ministro gestì autarchia e bonifiche; promosse gli ammassi obbligatori del grano (1936) e i Consorzi provinciali dell’agricoltura (1938). Contemporaneamente si fece più reazionario, legandosi sempre più agli agrari, esprimendo posizioni filo-naziste (1935), approvando in Gran Consiglio le leggi sulla razza (6-7 ottobre 1938). Il suo nome era così circolato tra i gerarchi come possibile successore di Starace al PNF (1936). Nel 1939 fu consigliere nazionale nella non più elettiva Camera dei fasci e delle corporazioni (gennaio) e presidente della commissione per il Quartiere dell’agricoltura di E42 (Esposizione 1942; aprile), lasciando in ottobre il ministero. Scoppiata la guerra, pensò soprattutto a consolidare la propria posizione economica e personale.
Dal 1943 si legò a Maria Teresa Zanoni (poi sposata a Bologna il 15 settembre 1960, dalla quale ebbe una figlia). Nello stesso anno, sebbene espunto dal re dall’ultimo elenco di nuovi senatori (febbraio), fu contattato per una sorta di gabinetto di guerra che avrebbe dovuto far uscire il regime dalla crisi in senso sempre più filotedesco, ma al Gran Consiglio del 25 luglio 1943 votò a favore dell’ordine del giorno Grandi. Dopo l’8 settembre si nascose ancora, questa volta nella procura romana dei suoi antichi educatori salesiani, e la neonata Repubblica sociale italiana (RSI) lo privò della dignità di ministro di Stato (decreto del duce, 30 novembre). Il 10 gennaio 1944 fu condannato a morte – in contumacia – dal tribunale speciale per la difesa dello Stato della RSI, in febbraio il capo della Provincia di Ferrara segnalò un’ingente quantità di valori interrata dalla sorella in Tresigallo e così nel marzo si trasferì nel monastero di Grottaferrata e dal 21 luglio nel santuario benedettino di Montevergine (Avellino). Il 6 dicembre anche le autorità del Regno d’Italia spiccarono un ordine di cattura nei suoi confronti.
Finito il conflitto, nell’ambito dell’epurazione per i crimini fascisti fu condannato all’ergastolo con sentenza n. 9 del 28 maggio 1945. Rimase contumace presso i benedettini, che gli fecero assumere l’identità di un religioso, a fine novembre lo ricondussero in un convento romano e poi, il 30 agosto 1946, riuscirono a fargli raggiungere la nunziatura apostolica di Dublino, da dove proseguì per il Canada. La fuga ebbe vasta risonanza di stampa, ma il 6 dicembre 1947 la sentenza n. 14 della Cassazione, in sezioni riunite speciali, annullò la condanna, permettendogli di rientrare in Italia.
Visse nella sfera privata a Roma e vi morì l’8 giugno 1965.
Opere. Le idee della ricostruzione. Discorsi sul sindacalismo fascista, Firenze 1923.
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