economia programmatica
Complesso delle misure di politica economica e industriale, le cui finalità si discostano dall’attuazione dei principi di libera iniziativa e libera concorrenza, e realizzano una organizzazione delle attività economiche dei singoli secondo principi collettivistici. Precedenti teorici e soprattutto pratici si sono ritrovati nella storia ogni volta che una collettività ha inteso il bisogno di difendere un interesse comune. Tuttavia, soltanto durante la Prima guerra mondiale la necessità di riconvertire i sistemi economici liberisti ne ha reso evidenti le caratteristiche pratiche e i fondamenti teorici. Attraverso l’istituzione di organismi centrali e periferici e l’adozione di regolamenti su produzione e distribuzione, nonché l’introduzione di calmieri, contingentamenti e requisizioni (anche a causa del ridotto volume di scambi commerciali), il regime di libera concorrenza fu ridotto notevolmente, aumentando, di converso, il ruolo dello Stato.
Il fondamento dell’e. p. si sostanzia nell’idea secondo la quale un programma unitario a livello nazionale è il solo mezzo per realizzare una crescita economica. Tale organizzazione dello Stato si è concretizzata nel corso del 20° sec. in due dottrine politiche: il socialismo (➔), come per es. nel caso dell’URSS, e il corporativismo (➔), come per es. nel caso dell’Italia fascista. Nel primo il concetto di libera concorrenza (come anche quello di mercato) è stato eliminato per giungere a un programma formulato dallo Stato, che determinava livelli di produzione, distribuzione e consumo. Questo sistema economico era formulato con il fine di realizzare l’ideale del massimo benessere di tutti i cittadini, materialisticamente uguali e indifferenziati di fronte al potere burocratico regolatore. Tale programma era solo astrattamente logico e realizzabile, in quanto profondamente statico. Il lavoro dei singoli rifletteva, infatti, la riduzione marxistica di ogni lavoro a occupazione materiale misurabile con il tempo. Inoltre, lo Stato, inteso come ente burocratico centrale, era costretto ad accentuare il processo di livellamento generale, non potendo, nella necessaria sua limitatezza, conoscere le infinite differenziazioni della complessa vita sociale. Il programma economico diventava così schematico e uniforme, tendendo inesorabilmente a una presunta perfezione immobile.
Nel corporativismo, tutte le ragioni della critica del liberalismo allo statalismo economico erano riconosciute e superate, trasformando la stessa concezione dello Stato. Questo si realizzava soltanto nella corporazione e perciò negli individui, tutti gerarchicamente disposti nell’ordinamento corporativo. Il programma economico non veniva più formulato, come in regime capitalistico, dai singoli imprenditori dissociati né, come in regime socialistico, dal governo burocratico, bensì dalla corporazione, e anzi dal sistema delle corporazioni (raggruppamenti obbligati di imprese, lavoratori, corpi intermedi ecc.). Con lo Stato corporativo, dunque, il regime fascista intese porre un forte controllo sulla produzione, anche in ragione della convinzione che un deciso intervento statale nell’e. fosse indispensabile in conseguenza della crisi economica del 1929.