Cultura, economia della
L'analisi economica del consumo culturale
La teoria economica ha per lungo tempo sottovalutato l'e. della c., considerandola uno dei tanti possibili ambiti di applicazione dei più diffusi modelli di teoria della scelta e dei mercati. Alla base di questo atteggiamento vi era la convinzione secondo cui non esistono specificità teoricamente rilevanti che possano distinguere il funzionamento del mercato di un qualunque bene di consumo da quello di un mercato di beni e servizi culturali come i libri, i supporti musicali o le visite ai musei. Questa impressione era ulteriormente suffragata dal fatto che gli studiosi che si occupavano attivamente di e. della c. erano solitamente anche musicisti, o scrittori, o appassionati di cultura, e quindi il loro interesse andava ascritto più alla passione per il loro hobby preferito che a una reale rilevanza del tema per la ricerca economica in sé. A partire dalla fine degli anni Novanta, tuttavia, il quadro ha cominciato a mutare sensibilmente, con una crescita sempre più sostenuta del numero di studiosi interessati a questo tema. Con lo sviluppo della disciplina sta però divenendo progressivamente chiaro che, lungi dall'essere un mero campo di applicazione di costruzioni teoriche prodotte in altri contesti, l'e. della c. pone ai teorici problemi specifici di grande complessità, e al tempo stesso si rivela ambito di potenziale interesse generale a causa del ruolo crescente che i fenomeni di produzione e di consumo culturale stanno assumendo all'interno delle moderne economie postindustriali. La forte concentrazione di studiosi che sono allo stesso tempo grandi consumatori o anche produttori culturali non va quindi letta come una conseguenza di un supposto carattere dilettantesco-ricreativo degli studi di e. della c., quanto piuttosto come una necessità imprescindibile: è impossibile analizzare in modo teoricamente sensato un mercato culturale se non se ne comprendono in modo profondo e diretto le peculiarità.
L'aspetto più evidente di tale specificità ha a che fare con l'analisi della domanda, e più propriamente dei comportamenti dei consumatori di cultura. Mentre nel caso di un qualunque bene di consumo è possibile supporre che le preferenze del consumatore restino costanti per tempi sufficientemente lunghi da permettere di effettuare scelte di consumo ottimizzanti sulla base di preferenze date, nel caso delle esperienze di fruizione della cultura una simile ipotesi rappresenta una forzatura intollerabile in quanto, quasi per definizione, il senso ultimo di tali esperienze è quello di mettere in discussione la visione del mondo e le convinzioni più radicate del fruitore e quindi, in ultima analisi, di contribuire in modo più o meno sensibile alla strutturazione stessa delle sue preferenze. Nella misura in cui un'esperienza culturale si rivela significativa, quindi, essa non potrà non avere un impatto altrettanto significativo sulle preferenze del consumatore; ragionare sulle scelte di consumo culturale in termini di preferenze costanti, in analogia con quanto accade per le più comuni scelte di consumo, implica quindi una vera e propria petizione di principio. Una critica particolarmente profonda e ben argomentata all'applicazione del modello microeconomico tradizionale in ambito culturale è stata portata da R.A. McCain (1979, 1981, 1995), che ha mostrato come l'essenza della domanda di esperienze culturali vada cercata in un vero e proprio processo di 'coltivazione del gusto', che porta i consumatori a costruire progressivamente criteri di valutazione sempre più strutturati e sofisticati grazie all'apprendimento mediato dal consumo stesso. P. Brito e C. Barros (2005) introducono un sofisticato modello microeconomico di scelta intertemporale che incorpora nella funzione di utilità il capitale culturale accumulato dal consumatore attraverso la sua intera storia di consumo. Il modello sembra così generalizzare il fenomeno della coltivazione del gusto, riproducendo inoltre i principali risultati della letteratura empirica sul consumo culturale, e in particolare il ruolo decisivo dei livelli di consumo culturale precedenti, del reddito e del prezzo relativo dei beni culturali rispetto ai beni di consumo ordinari, nonché il basso livello di elasticità della domanda di beni culturali rispetto al proprio prezzo. Attraverso questo approccio, il tema della plasticità delle preferenze indotta dall'esperienza culturale viene ricondotto a una versione, per quanto molto sofisticata, di un modello di scelta standard, non diversamente da quanto accade in ultima analisi nei cosiddetti modelli di dipendenza razionale (Stigler, Becker 1977; Becker, Murphy 1988); secondo i quali la scelta di specializzarsi progressivamente nel consumo culturale può essere vista come il risultato della scelta ottimizzante di individui lungimiranti, che sono in grado di anticipare il beneficio utilitario dell'apprendimento prodotto dal consumo di cultura e di pianificare quindi razionalmente lo sviluppo di una dipendenza verso tale forma di consumo.
Il limite fondamentale di simili approcci deriva dalla scarsa considerazione che essi prestano alla dimensione cognitiva dell'apprendimento culturale, che gioca invece un ruolo fondamentale. Una qualunque esperienza di consumo culturale richiede il ricorso a un modello mentale, ossia a una rappresentazione cognitivamente efficiente dei tratti salienti di tale esperienza. In presenza di esperienze culturali poco familiari, ma anche, seppure in misura meno evidente, relativamente familiari, tale modello mentale, formatosi sulla base della storia delle esperienze precedenti, rivela alcuni elementi di inadeguatezza che possono essere talmente rilevanti da precludere completamente il senso dell'esperienza stessa, come può provare chiunque si trovi, per es., ad assistere a un concerto di musica sinfonica partendo da una base esperienziale costituita unicamente da canzoni pop di facile ascolto. L'esperienza culturale richiede allora un adeguamento del modello mentale che si rivela costoso non soltanto dal punto di vista cognitivo, ma anche dal punto di vista motivazionale, in quanto per maturare un modello mentale più articolato e consono all'esperienza culturale in oggetto il consumatore deve impiegare tempo ed energie che potrebbe più utilmente rivolgere, in termini del suo corredo di competenze esperienziali attuali, a forme di consumo culturale più familiari e quindi, almeno al momento, più gratificanti. È allora possibile definire il concetto di costo di attivazione di un'esperienza culturale (Sacco, Viviani 2003; Sacco, Zarri 2004) come equivalente monetario del costo cognitivo e motivazionale associato all'elaborazione di un modello mentale adeguato a tale esperienza, cioè tale da consentire all'individuo una sua fruizione appagante. La costruzione di competenze di consumo culturale non può allora essere concettualizzata semplicemente come processo di apprendimento, ma deve essere pensata piuttosto come un processo di autoeducazione oppure di costruzione di capacità e funzionamenti nel senso indicato da A.K. Sen (1999). È pertanto fuorviante ragionare in termini di costruzione intenzionale di una dipendenza razionale dalle esperienze culturali, in quanto soltanto una volta acquisite le opportune competenze cognitive un consumatore è in grado di stabilire se una determinata esperienza è, dal suo punto di vista, sensata e interessante, e quindi portatrice di valore, oppure no. La considerazione della dimensione cognitiva dell'esperienza culturale mostra inoltre come il processo di scelta vada necessariamente caratterizzato in senso adattivo: l'esistenza dei costi di attivazione fa sì che il consumatore non prenda in considerazione tutte le possibili forme di consumo culturale, ma soltanto quelle che implicano ex ante un costo di attivazione compatibile con la propria propensione a sostenerlo. I consumatori considerano cioè soltanto le alternative presenti nel proprio spazio di esperienza che comprende tutte le forme di esperienza culturale da essi percepite come cognitivamente e motivazionalmente sostenibili. In presenza di un livello elevato di consumo culturale, la propensione a sostenere costi di attivazione aumenta e lo spazio di esperienza si allarga di conseguenza. Il contrario accade in presenza di un consumo culturale debole: il consumatore si disabitua al sostenimento dei costi di attivazione e quindi il suo spazio di esperienza si contrae fino a considerare sostenibili soltanto quelle esperienze che comportano costi di attivazione pressoché nulli. Questa dimensione dinamica mostra anche quanto sia limitativo considerare la domanda di consumo culturale in termini di dipendenza razionale: la dipendenza, infatti, determina una preclusione delle alternative di scelta, che nel nostro contesto è caratteristica dei consumatori dotati di uno spazio di esperienza limitato. Per i consumatori caratterizzati da uno spazio di esperienza ampio, l'insieme delle alternative è viceversa accresciuto. Al contrario del soggetto dipendente, il consumatore caratterizzato da un'alta propensione al pagamento di costi di attivazione può decidere di concentrare tutto il suo consumo su un insieme limitato di alternative o di distribuirlo ecletticamente su molte alternative diverse, alle quali può comunque accedere a suo piacimento. Queste brevi considerazioni indicano come la ricerca nel campo del consumo culturale sia ancora nelle sue prime fasi, e come probabilmente essa richieda la formulazione di strumenti analitici più sofisticati e più specifici di quelli resi disponibili dagli sviluppi per quanto evoluti della teoria del consumo standard.
L'analisi dei mercati culturali
Nel campo dell'analisi dei mercati, le differenze tra mercati culturali e mercati tradizionali dei beni e dei servizi tendono a prima vista a essere meno marcate di quanto accade nel campo dell'analisi del consumo culturale. Vaubel (2005) mostra, per es., seguendo una linea di ragionamento familiare agli economisti, come la superiorità qualitativa del Barocco musicale italiano e tedesco su quello francese e inglese possa essere in ultima analisi attribuita al maggior grado di competitività dei rispettivi mercati professionali, a propria volta riconducibile al maggior grado di frammentazione politica presente all'epoca nel contesto italiano e tedesco rispetto a quello francese o inglese. Tuttavia, anche in questo ambito sarebbe fuorviante pensare a una meccanica trasposizione di concetti e di strumenti analitici. J. Gander e A. Rieple (2004) mostrano, per es., come nel caso dell'industria della musica pop il classico approccio dei costi di transazione suggerito da O.E. Williamson (1985) fatichi a spiegare le strutture ibride create in questo contesto dalle grandi majors discografiche e dalle piccole etichette indipendenti. I due studiosi argomentano come una reale comprensione delle forme organizzative osservate richieda la considerazione di importanti specificità sociali e situazionali caratteristiche dei processi di selezione, creazione e sviluppo della musica pop.
Nel campo culturale, la complessità informativa non può essere semplicemente ricondotta a un'asimmetria nella distribuzione dell'informazione tra i vari attori presenti sul mercato. Piuttosto, è ciascuna offerta culturale a creare o meno le condizioni per una sua significativa fruizione, e quindi ogni prodotto culturale definisce le condizioni di esistenza di un suo mercato. I consumatori reagiscono in modo relativamente lento all'offerta di nuovi prodotti culturali, così che, più che di superamento di un'asimmetria informativa, si può parlare di una costruzione di significato su una base informativa che viene selezionata e qualificata da una serie di operatori a vario titolo interessati al funzionamento di un mercato culturale. Il funzionamento dei mercati culturali dipende così in maniera eclatante dalla struttura small world delle reti relazionali che legano questi operatori nei loro vari ruoli, reti che hanno pertanto un peso decisivo nel controllare l'accesso alle opportunità di produzione culturale e alla distribuzione dei prodotti nei rispettivi mercati. Di conseguenza, le determinanti del successo artistico e culturale vanno a loro volta lette nel quadro di complessi modelli autopoietici nei quali diversi produttori culturali caratterizzati da simili condizioni iniziali possono avere accesso a opportunità marcatamente differenti per qualità e quantità a seconda della loro capacità di penetrazione delle barriere relazionali di accesso ai mercati (de Nooy 2002). La natura e l'entità di queste barriere sono però molto diverse a seconda degli specifici mercati culturali: per es., il ruolo della critica nella costruzione della reputazione artistica può essere sostanziale in mercati come quello dell'editoria di qualità o delle arti visive, ma relativamente irrilevante nel caso del cinema di cassetta, dove però contano in modo altrettanto significativo altre categorie di operatori, in primis i produttori. Per una reale comprensione del funzionamento dei mercati artistici, piuttosto che fornire una descrizione astratta valida per tutti i mercati, bisogna adottare una prospettiva di analisi comparata che spieghi quanto per ciascun singolo mercato siano rilevanti una serie piuttosto articolata e complessa di variabili: per es., il ruolo del parere esperto nella selezione degli artisti e nell'esito di mercato del prodotto culturale; l'incidenza relativa dei canali di finanziamento pubblici o privati; la distribuzione del rischio imprenditoriale tra i soggetti che contribuiscono alla produzione; la distribuzione dell'autorialità e dei diritti di proprietà fra i soggetti che contribuiscono alla produzione; la distribuzione del potere di veto tra i soggetti che contribuiscono alla produzione; l'esistenza o meno, e le dimensioni, dei mercati secondari per il prodotto culturale; il grado di complementarità strategica tra il prodotto culturale e i media; il grado di complementarità strategica con gli altri mercati culturali; il regime autografico piuttosto che allografico del prodotto artistico. Anche variabili tradizionali dell'analisi dei mercati quali la dimensione del mercato e la sua segmentazione, il livello dei costi medi, l'osservabilità e la trasparenza delle transazioni, assumono in questo contesto valenze particolarmente interessanti, soprattutto nella loro interazione con le altre variabili già ricordate: per es., il livello relativamente alto dei costi medi delle produzioni cinematografiche rispetto alla grande maggioranza degli altri prodotti culturali determina una peculiare distribuzione del potere di veto creativo, per cui, a differenza di quanto accade nelle arti visive, il regista, che in teoria è il garante creativo di ultima istanza del film, deve sopportare limitazioni molto forti alla sua autonomia creativa, sulle quali ha un potere di veto relativamente limitato anche quando gode di una notevole reputazione artistica e professionale.
Attraverso la griglia concettuale appena definita è possibile cogliere analogie e differenze di grande interesse fra i vari mercati culturali, che rendono molto più complessa e problematica la tradizionale distinzione per settori: beni culturali (come le arti visive), arti performative (come il teatro o il balletto) e industrie culturali (come la musica, il cinema o la letteratura). Per es., in termini della rilevanza del parere esperto, le arti visive, la musica classica, la letteratura di qualità e il teatro presentano notevoli analogie, pur appartenendo a tre classi diverse secondo la distinzione tradizionale, mentre musica, letteratura e cinema di largo consumo, ossia le tre più grandi industrie culturali, occupano il lato opposto dello spettro. In questo caso la discriminante fondamentale è rappresentata dal livello medio dei costi di attivazione che lo spettatore deve sostenere: quando questo è alto, il parere esperto assume un ruolo importante. Dal punto di vista dei mercati secondari, invece, il cinema e la musica si ricompattano: a differenza di quanto accade nel teatro, sia nella produzione di qualità sia in quella di largo consumo esiste una notevole varietà di mercati, spesso di grande dimensione. Dal punto di vista del mercato primario, tuttavia, valgono convenzioni opposte: nel caso della musica, il mercato primario è quello dei supporti magnetici per la fruizione privata (CD musicali), mentre nel caso del cinema è la proiezione in sala (ma la situazione potrebbe cambiare in futuro); DVD e videocassette sono quindi ancora un mercato secondario per il cinema, mentre le performances dal vivo lo sono per la musica (e contemporaneamente sono il mercato primario del teatro). Dal punto di vista della distribuzione dell'autorialità, invece, arti visive, musica e letteratura tendono ad assegnare forme di autorialità individuale, mentre nel caso del cinema e del teatro vi è una distribuzione dell'autorialità fra più soggetti creativi con ruoli diversi. Dal punto di vista della complementarità con i media, il cinema e la musica di largo consumo tendono a valorizzare soprattutto quella con la televisione, mentre arti visive, letteratura e teatro privilegiano l'interazione con la carta stampata; la musica e il cinema di qualità mostrano invece buone complementarità con tutti e due i tipi di media. Da notare infine come tutti i mercati culturali ne presentino di eccellenti con Internet. Particolarmente interessanti sono poi le forme di complementarità tra più mercati, come quella tra cinema e letteratura (per la quale i diritti cinematografici rappresentano il mercato secondario più importante), o tra cinema e musica.
L'analisi economica dei mercati culturali pone problemi inediti e affascinanti, che richiedono strumenti analitici adeguati costruiti su specifiche esigenze conoscitive e di policy. In un certo senso, l'e. della c. è ancora alla ricerca del proprio statuto metodologico. Il panorama delle ricerche in essere permette però di manifestare un cauto ottimismo circa la definitiva affermazione di questo campo di studi come una branca sempre più rilevante, autonoma e influente della ricerca economica dei prossimi decenni.
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