classica, economia
Scuola che ha dominato il pensiero economico a partire, convenzionalmente, dalla pubblicazione dell’opera La ricchezza delle nazioni (An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations, 1776) di A. Smith (➔) fino agli anni 1870. Essa pone al centro della propria analisi la crescita e la libertà economica, assicurate dal sistema capitalistico sviluppatosi con la rivoluzione industriale. Sua caratteristica principale è il ruolo predominante assegnato al libero mercato, come istituzione in grado di assicurare l’allocazione efficiente delle risorse del sistema economico (➔ allocazione) e il pieno utilizzo dei fattori di produzione (➔ fattore di produzione). Alla visione classica del funzionamento del sistema economico, rimasta ben viva durante tutta l’evoluzione del pensiero economico, fanno esplicito riferimento la scuola neoclassica (➔ neoclassica, economia; new neoclassical synthesis) e la nuova macroeconomia classica (➔ macroeconomia p).
L’economia c. è considerata la prima scuola economica in senso moderno. Il suo primo e principale esponente, A. Smith, è anche ritenuto il fondatore dell’economia come disciplina scientifica. Smith riprese dai fisiocratici (➔ fisiocrazia) la visione circolare del processo economico e l’obiettivo di studiare la ricchezza prodotta all’interno di una nazione, ma spostò il baricentro dell’analisi dal solo settore agricolo all’operare di tutti i fattori produttivi: lavoro, capitale e terra, remunerati da salari, profitti e rendite, rispettivamente. Egli individuò nella divisione del lavoro il volano alla crescita della produttività e teorizzò la capacità di autoregolamentazione del libero mercato, secondo la celebre metafora della mano invisibile (➔), in polemica con le posizioni protezionistiche sostenute dai mercantilisti (➔ mercantilismo). La critica al protezionismo fu portata avanti da D. Ricardo (➔), altra colonna della scuola economica c., che dimostrò l’efficienza del sistema di libero commercio, sulla base della teoria dei vantaggi comparati (➔ vantaggio). Egli sviluppò, tra l’altro, la teoria del valore di Smith, fondando la determinazione del prezzo relativo naturale delle merci sulla quantità di lavoro necessaria alla loro produzione. K. Marx (➔) apportò ulteriori cambiamenti a questa teoria, in particolare riguardo alla distinzione tra valore e plusvalore, in ciò inserendosi pienamente nella tradizione classica. J.B. Say è invece ricordato soprattutto per la legge che porta il suo nome (➔ Say, legge di), anche detta legge degli sbocchi, la quale afferma che «l’offerta crea la propria domanda», secondo la definizione di J.M. Keynes (➔), che ne era profondamente critico, e quindi identifica nel potenziale di produzione il fattore determinante del livello di attività economica di una nazione. Secondo Say, questo risultato è assicurato dal fatto che il produttore ha interesse a impiegare immediatamente il guadagno percepito dalla vendita; più in generale, la validità dell’argomento presuppone l’esistenza di mercati finanziari perfettamente flessibili, che assicurino l’uguaglianza di risparmi e investimenti. Altri esponenti importanti dell’e. c. furono T.R. Malthus (➔), famoso soprattutto per la teoria sui limiti allo sviluppo economico imposti dalla crescita della popolazione (➔ malthusianismo), e successivamente J.S. Mill (➔), che riunificò sistematicamente il pensiero dei suoi predecessori e sviluppò il principio della libertà degli individui e la teoria utilitaristica (➔ utilitarismo) che ne governa le azioni. La fine della scuola dell’e. c. è generalmente datata a partire dal 1870, con l’avvento della teoria marginalista (➔ marginalismo) di W.S. Jevons e C. Menger (➔), che ricondusse la determinazione del valore di un bene all’utilità marginale del consumatore e fu incorporata nella teoria neoclassica da A. Marshall (➔) e M.E.L. Walras (➔), tra gli altri. Tuttavia, il suo messaggio principale, ossia l’efficienza e la capacità di autoregolamentazione dei mercati, e la conseguente inefficacia di politiche economiche attive, è stato riproposto nella sua interezza dalla nuova macroeconomia classica, a partire dagli anni 1870.
La fiducia nel mercato degli economisti classici si può riassumere nell’asserzione del primo teorema del benessere (➔ benessere, teoremi dell’economia del), pur formulato successivamente: in condizioni di concorrenza perfetta (➔ p), l’allocazione associata all’equilibrio competitivo è efficiente nel senso di Pareto (➔ Pareto, ottimo di p). Il meccanismo che assicura questo risultato, dato dalla perfetta flessibilità dei prezzi nei teoremi del benessere, non è pienamente sviluppato dagli economisti classici, i quali non escludono, in generale, l’esistenza di fluttuazioni cicliche economiche, ma non assegnano alcun ruolo di stabilizzazione a interventi di politica economica, fiscale o monetaria. In particolare, nell’e. c. la moneta non ha alcun effetto sul livello di produzione e occupazione, tesi che va sotto il nome di dicotomia classica (➔) tra economia reale e finanziaria. Variazioni della quantità di moneta determinano semplicemente variazioni del livello dei prezzi, come dettato dalla teoria quantitativa della moneta (➔ moneta, neutralità della). Tale teoria fu successivamente sviluppata dalla scuola monetarista (➔ monetarismo), che mantenne l’assunto classico della neutralità della moneta nel lungo periodo, ma non nel breve.