ECOLOGIA
(XIII, p. 424; App. III, I, p. 504; IV, I, p. 617)
Con il prosieguo degli studi su struttura e funzionalità degli ecosistemi, si è ancor più evidenziata la natura interdisciplinare dell'e. come scienza degli insiemi coordinati. È infatti grazie alle sempre più esatte conoscenze della chimica, fisica, climatologia, pedologia, che si è giunti a distinguere lo stato di variabilità naturale dell'ambiente dallo stato di stress; ed è grazie alle sempre più approfondite conoscenze della zoologia, botanica, fisiologia, genetica che si è giunti a comprendere fino a che punto gli organismi sono adattati alla variabilità naturale dell'ambiente, e che per ambiente si deve intendere, con assoluto rigore, sia la componente fisica, non vivente, sia la componente vivente (predatori, competitori, simbionti mutualistici, nutrimento, ecc.) dell'ecosistema. Inoltre gli studi sull'evoluzione (anche geologica), sommati alle conoscenze cibernetiche e paleoecologiche, hanno portato non solo a intraprendere approcci scientifici olistici degli ecosistemi, ma anche a creare la consapevolezza, in una larghissima fascia delle popolazioni umane, che la comunità biologica e l'area che essa occupa sono una singola unità funzionale: l'ecosistema (Tansley 1934, Odum 1988). È cioè ormai conoscenza comune il concetto che il danno arrecato alla parte si ripercuote sul tutto. Secondo gran parte degli ecologi, cioè, gli organismi e l'ambiente che essi occupano sono altamente organizzati e la comunità viene definita ''integrata'' (Brewer 1986). Secondo altri, però (Gleason 1939), l'organizzazione interna della comunità è scarsa. Essi definiscono la comunità ''individualistica'' in quanto le singole specie occuperebbero, indipendentemente dalle altre, quelle zone che sono adatte al loro range di tolleranza.
La vasta diffusione culturale che l'e. ha avuto negli ultimi anni ha reso indispensabile l'uso più attento di alcuni termini − tratti dal linguaggio comune − che vengono usati con significato specifico in ecologia. Il termine ''comunità'' è stato usato fino a pochissimo tempo fa dagli ecologi con significato esclusivo dell'e., come sinonimo di comunità biotica, ossia della componente vivente (biotica) che occupa permanentemente la componente non vivente (abiotica) di una data area. L'intenso, accuratissimo studio di questi ultimi anni sulla struttura e sul funzionamento degli ecosistemi ha portato a meglio definirne le proprietà funzionali. Oggi viene particolarmente evidenziato il concetto, già conosciuto nel passato, ma sovente ritenuto implicito nella definizione e nel discorso (e pertanto non da tutti percepito e assimilato), che l'organizzazione gerarchica dei subsistemi costituenti l'ecosistema porta alla comparsa di proprietà nuove, tipiche, esclusive dell'ecosistema. Queste proprietà sono totalmente differenti da quelle dei singoli subsistemi che lo costituiscono. Dette proprietà vengono definite ''emergenti'' oppure ''non riducibili''. L'esempio più semplice ed esplicativo è preso dal mondo inorganico: le proprietà dell'acqua (H2O), tipiche ed esclusive di essa, sono totalmente differenti da quelle dei due elementi che la compongono, idrogeno e ossigeno. Sono stati inoltre introdotti o reintrodotti nell'uso comune termini che indicano uno stato (o una funzione) sconosciuto o non classificato dell'ecosistema. Per es., con il termine disclimax viene indicato quello stato artificialmente duraturo di un ecosistema. L'uomo mantiene in disclimax, mediante superpascolo, taglio di boschi, incendi, stadi serali (dall'ingl. sere) dell'ecosistema che altrimenti evolverebbero verso lo stadio finale, maturo (climax).
Dinamica delle popolazioni. − In quest'ultimo ventennio quel grande capitolo dell'e. che analizza la dinamica di una singola popolazione (la quale insieme a tutte le altre costituisce la comunità biologica dell'ecosistema) non ha avuto grandi sviluppi per quanto riguarda le fondamentali proprietà che la caratterizzano (densità, natalità, mortalità, accrescimento). Particolare sviluppo invece ha avuto l'interpretazione genetica, evoluzionistica del controllo numerico delle popolazioni e del tipo di selezione che gli individui (di una certa popolazione) subiscono, a seconda che siano o meno in grado di ripartire l'energia introdotta fra le spese per il proprio mantenimento e il costo relativo a tutte le attività riproduttive che essi svolgono.
Illustriamo questi due punti nell'ordine citato: il numero di individui di una popolazione naturale può restare costante, può aumentare, diminuire. Tutte le popolazioni tenderebbero ad aumentare, in quanto ogni coppia produce nel corso della propria vita più di due figli. Talvolta i figli prodotti sono appena più di due, talvolta sono numerosi, talvolta numerosissimi. Se tutti i figli di tutte le coppie sopravvivessero, la popolazione in breve tempo raggiungerebbe valori enormi. In realtà fattori ambientali e fattori genetici (relativi al ciclo biologico della specie) pongono un limite superiore contenuto entro la ''capacità portante'' dell'ambiente. I fattori ambientali che concorrono a mantenere costante il numero di individui di una popolazione sono definiti ''stabilizzanti''. Altri, oppure gli stessi con altri valori, che portano ad aumento o decremento numerico, sono definiti ''destabilizzanti''.
In base al rapporto effetto/densità della popolazione, i fattori ambientali sono anche definiti ''densità dipendenti'' o ''densità indipendenti''. Sono densità indipendenti quei fattori il cui effetto sull'alterazione del numero degli individui (via diminuzione o aumento della natalità o della mortalità) è indipendente dalla densità. Di questo tipo, sono: valori abnormi della temperatura, della piovosità, del pH, come anche la caduta di valanghe, gli incendi, ecc., che portano a morte gli individui indipendentemente dalla densità. Questi stessi fattori possono − entro un certo periodo di tempo − raggiungere valori ottimali e favorire la natalità e la sopravvivenza, l'immigrazione, con conseguente aumento numerico della popolazione, con assoluta indipendenza dalla densità di popolazione. Altri fattori ambientali possono alterare la mortalità o la natalità, l'emigrazione/immigrazione, ma dipendentemente dalla densità di popolazione, e vengono perciò definiti densità dipendenti. Di questo tipo sono l'intensità della predazione, l'abbondanza o la scarsezza del nutrimento, dell'acqua, dei rifugi, dei competitori. È quasi superfluo puntualizzare che, se i predatori sono pochi (per es. perché decimati da una malattia), le vittime (preda) saranno poche, ma viceversa, se le prede sono poche (per qualsiasi ragione, per es. per morte da freddo o da sete o per emigrazione), il predatore sarà a sua volta destinato a morire di fame, ecc.
In realtà alcuni autori, fra i quali Ricklefs (1981), trovano troppo schematica questa suddivisione in quanto ipotizzano che anche i fattori densità indipendenti producano un diverso effetto a seconda della densità di popolazione. Per es., quelle specie che riescono a sottrarsi agli effetti dei fattori ambientali mediante utilizzo di ''rifugi'' saranno più o meno salvaguardate a seconda del numero e della capienza dei rifugi. Se i rifugi (come riparo dal freddo, dalle inondazioni, dal fuoco) sono insufficienti per tutti, diventa problematico asserire che l'effetto del fuoco, dell'inondazione, del freddo è indipendente dalla densità di popolazione. Può accadere infatti che in un'annata la popolazione subisca un forte aumento numerico, in quanto tutti i fattori ambientali sono stati favorevoli, mentre i rifugi sono rimasti gli stessi. Al sopravvenire di una delle succitate calamità, i rifugi si rivelano insufficienti, per cui − dipendentemente dalla densità − molti individui non trovano rifugio e muoiono. L'effetto (come numero di morti) è pertanto considerato densità dipendente.
Alcune specie producono pochi figli, altre molti, altre moltissimi, e questa proprietà risulta geneticamente programmata. La sopravvivenza, invece, è soltanto in parte determinata geneticamente (come adattamento o non adattamento all'ambiente) mentre in gran parte è dovuta all'imponderabilità delle variazioni ambientali. Tutte le specie sono state divise in due categorie: a selezione r oppure a selezione K.
La selezione r è tipica di quelle specie che producono numerosissimi figli in ambienti con bassa o bassissima densità di popolazione. La densità può essere bassa a causa di numerosi motivi: pochi individui (pionieri) hanno recentemente invaso un'intera area, la variabilità ambientale è pronunciatissima o l'ambiente è di nuova formazione. In tutti questi casi la selezione naturale favorisce gli individui con elevato tasso intrinseco d'incremento numerico. Infatti la competizione intraspecifica è molto bassa (la popolazione è molto lontana dal K, cioè dal limite massimo numerico che coincide con la capacità portante dell'ambiente): bassa competizione per il nutrimento, lo spazio, i rifugi. Per cui quelle femmine che sono geneticamente capaci di produrre molti figli, saranno rappresentate nella successiva generazione da molti individui che, a loro volta, per eredità genetica producono molti figli. Ciononostante la densità della popolazione si mantiene bassa perché la popolazione non è ancora adattata all'ambiente e moltissimi individui muoiono. Spesso, inoltre, vengono selezionati individui che si riproducono in età giovanile (prima cioè di correre il rischio di morire), che hanno una breve durata di vita, e che sono bravi nella ''dispersione'', che consente di occupare nuovi spazi.
La selezione K, invece, rappresenta uno stato di avanzatissimo adattamento a un dato ambiente (per raggiungere questo stato di adattamento occorrono numerosissime, ma proprio numerosissime generazioni). L'unico fattore ambientale negativo è rappresentato dalla competizione intraspecifica: cioè individui della stessa specie competono per lo spazio, per il cibo, per l'acqua, per tutto, perché la densità di popolazione è la massima possibile. In questa situazione sono favoriti dalla selezione naturale gli individui poco prolifici e che si riproducono in età tarda, in modo da abbassare la densità. Queste popolazioni non corrono pericoli quando la densità di popolazione si abbassa, in quanto la morte da calamità naturali è evitata mediante numerosi, diversissimi meccanismi di adattamento.
Dinamica degli ecosistemi. − Di tutte le caratteristiche degli ecosistemi, quelle recentemente sottoposte ad accurata indagine scientifica sono: la stabilità, la diversità di specie, la nicchia ecologica, le successioni ecologiche, che esamineremo partitamente qui di seguito.
Stabilità. − Rappresenta la capacità che hanno i sistemi biologici di assorbire le perturbazioni (sollecitazioni) e di tornare allo stato di equilibrio precedente la perturbazione. Se il recupero è totale, la stabilità è definita ''di resistenza'', se il recupero è parziale la stabilità è definita ''di resilienza'' (Holling 1973). Questi tipi di equilibrio dinamico sono mantenuti dai feedback negativi.
La differenza fra i feedback negativi che reggono la stabilità degli ecosistemi e quelli che mantengono in omeostasi gli organismi viventi è data essenzialmente dalla presenza negli organismi di un programma (genetico) di mantenimento in equilibrio e dall'assenza di un simile programma nella comunità biotica degli ecosistemi. Per es., gli organismi omeotermi sono geneticamente programmati per il controllo della temperatura corporea, che viene mantenuta costante indipendentemente dalle variazioni della temperatura dell'ambiente (purché tali variazioni siano compatibili con la vita). Il rapporto fra preda e predatore controlla la densità di entrambe le popolazioni, ma l'intensità della predazione non è controllata da un regolatore programmato. Infatti le perturbazioni ambientali che agiscono sul sistema preda-predatore sono svariate, differenziate e correlate secondo un'intricatissima rete d'interdipendenza i cui effetti sono sovente imprevedibili (Engelberg e Boyarsky 1979). Un programma con un regolatore sul tipo di quello inanimato e meccanico della temperatura o sul tipo di quello fisiologico degli omeotermi, sarebbe pericoloso per il controllo della comunità biologica perché risulterebbe troppo rigido, e potrebbe quindi portare a oscillazioni fortissime, tali da giungere a feedback positivi, cioè alla catastrofe.
La stabilità degli ecosistemi sembra essere il risultato di una lenta, incessante selezione naturale di organismi adatti alle variazioni di tutti i parametri ambientali e in grado di resistere agli effetti della competizione e della predazione. D'altra parte, così come un organismo è in grado di assorbire e resistere alle perturbazioni ambientali fino a che queste non raggiungono un livello di stress, altrettanto l'ecosistema − la cui stabilità non è né programmata, né preservata da un programma genetico − può assorbire perturbazioni molto forti e resistere totalmente o parzialmente a esse, purché le perturbazioni non superino un certo livello.
È però importante evidenziare che molti ecologi considerano irrilevanti le differenze fra i meccanismi di controllo a livello di organismo e a livello di ecosistema, viste le numerose analogie e simiglianze, e considerato che esiste, in definitiva, la stabilità di numerosi ecosistemi (Patten e Odum 1981). È stato proposto (Hill e Durham 1978) un modello di controllo diverso dal controllo a feedback, e cioè un controllo dovuto alla ''ridondanza''. Si parte dal presupposto che lo stesso ruolo funzionale sia svolto da specie diverse con diversa resistenza alle perturbazioni ambientali. Pertanto una situazione di stress per una specie può non esserlo per un'altra specie (con lo stesso ruolo funzionale). Quest'ultima, avvantaggiata dalla scomparsa (o dalla diminuzione numerica) della prima specie, potrebbe svilupparsi e compensare la diminuita (o cessata) attività della prima. Holling (1973) inoltre ha ipotizzato che gli ecosistemi possano avere più stati di equilibrio.
Quale che sia l'interpretazione giusta − e molto probabilmente tutte le ipotesi sulla stabilità degli ecosistemi danno giusta interpretazione di una delle numerose componenti che creano la stabilità −, il fattore tempo è certamente di primaria importanza nel creare catene, reti alimentari, suddivisioni di nicchie, coazioni e adattamenti a tutti i parametri fondamentali. Talché in un ecosistema maturo (in climax climatico) la specie dominante avrà acquisito con il passare del tempo una grossa variabilità genetica che le farà affrontare con resistenza o con resilienza qualsiasi variazione ambientale (eccezion fatta agli stress) e le altre specie (rare) avranno subìto lo stesso processo di selezione naturale rispetto al clima e ai predatori/competitori. Negli ecosistemi immaturi invece i membri delle comunità pioniere non hanno avuto il tempo di creare reti alimentari (le catene alimentari sono lineari), la specie dominante non si è ancora diversificata geneticamente (la variabilità genetica è molto bassa), molte nicchie non sono occupate, oppure il numero di nicchie ecologiche è basso in quanto è bassa la complessità.
Per creare tutti questi parametri ambientali biotici è chiaro che occorre molto tempo. Questa è la ragione per la quale tutti gli ecosistemi, ma specialmente quelli immaturi, risentono così fortemente dell'aggressione che l'uomo riversa continuamente sull'ambiente. Infatti nessuna variazione ambientale naturale insorge brusca, improvvisa, imprevedibile (eccezion fatta per le eruzioni vulcaniche, gli straripamenti fluviali limacciosi, gli incendi a corona, che eliminano ogni forma di vita), talché tutte le specie della comunità raggiungono lentamente la resilienza o la resistenza mediante selezione dei varianti, e se una specie non ha nel suo pool genetico individui adatti al nuovo ambiente, questa specie sarà gradualmente sostituita da altra specie competitrice (già presente nella comunità, o pronta a immigrare da ecosistemi vicini). L'uomo invece crea disturbi: a) imprevedibili, cioè immette nell'ambiente quantitativamente o qualitativamente sostanze contro le quali le specie non hanno avuto e non hanno il tempo di essere selezionate (nell'ipotesi ottimistica che la variabilità genetica comprenda anche mutazione di resistenza a una determinata sostanza); b) istantanei, cioè immette in poche ore/giorni/mesi/anni quantità (di sostanze) che non vengono normalmente raggiunte o, se sono raggiunte, lo sono in periodi multisecolari.
Diversità di specie. − Anche il concetto che la stabilità sia correlata con il tipo di ambiente o con l'elevato numero di specie (quest'ultimo quasi esclusivamente presente negli ecosistemi maturi o in climax) è stato ed è tuttora oggetto di controversie (Pielou 1966; Van Voris e altri 1980; per questo argomento v. anche oltre, Successioni ecologiche). Alcuni tipi di ambiente vengono classificati stressanti per periodiche o improvvise variazioni della temperatura/salinità/piovosità. Le comunità che occupano questi ambienti sono soggette a fluttuazioni numeriche violentissime (per es., nella tundra, la lepre bianca, la lince). Si era per molti anni abituati a considerare che: a) le fluttuazioni fossero indice d'instabilità e b) la scarsezza di specie, tipica di molti ambienti stressanti, fosse responsabile dell'instabilità. Si è contrapposta per molti anni l'instabilità degli ecosistemi delle latitudini temperate e polari alla grande stabilità di alcuni ecosistemi delle latitudini equatoriali e tropicali, attribuendo questa stabilità a favorevoli condizioni climatiche e al grande numero di specie presenti.
Oggi si sa che: a) ambienti fortemente stressanti sono molto stabili (per es. le sorgenti termali, gli estuari) anche se le specie presenti sono poche; b) le fluttuazioni numeriche possono essere una delle caratteristiche della comunità, se osservata in tempi storici; c) la variabilità genetica (come vantaggio dell'eterozigote, come polimorfismi cromosomici o genici e altri tipi di diversità genetica) può facilmente verificarsi (in tempi lunghi) in ambienti con scarsa competizione interspecifica e forte competizione intraspecifica, e può contribuire a diversificare in zonazioni, stratificazioni, periodismi, le nicchie ecologiche (particolarmente la nicchia trofica) di ecosistemi invece considerati ''con bassa diversità''.
S'ipotizza inoltre che l'enorme diversità di specie nelle comunità tropicali possa essere legata anche al fattore tempo, durante il quale le altre zone della terra erano ricoperte dai ghiacciai (nei periodi di glaciazione), mentre ai tropici l'evoluzione continuava a creare nuove forme. Basta ricordare che l'ultima glaciazione è terminata 11.000 anni fa, per capire come molte aree delle latitudini elevate, per es. intorno al 50° di latitudine, sono state ex novo occupate dalle varie comunità in successione ecologica, nella sequenza: tundra→ foresta boreale→foresta decidua umida→foresta decidua asciutta. È molto facile comprendere come in 11.000 anni le specie che sono riuscite a penetrare in queste zone siano relativamente poche, in quanto: a) non tutte le specie, presenti in zone non ricoperte dai ghiacci, avevano preadattamenti genetici o fenotipici in grado di farle penetrare e permanere in ambienti appena liberati dai ghiacci; b) le prime specie che sono riuscite a installarsi sono diventate ''dominanti'' e hanno opposto forte resistenza competitiva alle altre specie che hanno tentato di invadere le zone da esse precedentemente occupate.
Va inoltre puntualizzato che attribuire a un ambiente la qualifica, in assoluto, di favorevole o sfavorevole, è del tutto arbitrario. Per es., per un cammello la foresta pluviale tropicale non è certamente favorevole, per l'orso polare, che vive bene sui mari ghiacciati, il deserto e la foresta tropicale non sono favorevoli. Si è così man mano giunti a sminuire l'importanza del clima come fattore principale per un'elevata e/o bassa diversità di specie e − ferma restando l'importanza del fattore tempo − si è sempre più consapevoli del peso che hanno le nicchie trofiche, la competizione e la predazione nell'aumentare o diminuire il numero delle specie in un ecosistema.
Nicchia ecologica. − Un qualsiasi individuo, animale o vegetale, che vive in un dato ambiente, deve soddisfare numerose necessità vitali, deve sottrarsi ad alcune ostilità ambientali. Talvolta le necessità e le ostilità sono diverse nelle diverse classi di età. Detto in altre parole, ogni specie occupa all'interno della comunità un ruolo funzionale proprio. Ruolo di predatore, ma anche di preda, di occupante di quasi tutta l'area di un ambiente (ruolo di dominanza numerica), o di una piccola parte dell'area (il numero degli individui di quella specie è molto basso), e la specie ha il ruolo di specie rara, oppure la specie occupa una caratteristica parte dell'area (entro la quale nessuna o pochissime specie riescono a vivere), e allora ha il ruolo di specialista. Anche la ricerca di cibo particolare crea il ruolo di specialista nella nicchia trofica. Una specie vegetale, ma anche animale, diventa il ''rifugio'' per altre specie (il ruolo è di nascondiglio).
Molte specie modificano in misura imponente l'ambiente (ombreggiando il suolo, fissando l'azoto atmosferico, sottraendo l'acqua o i nutrienti dal suolo in quantità rilevanti, ecc.) e assumono perciò il ruolo di specie che impoveriscono o arricchiscono il suolo. Di tutti i ruoli che una specie svolge, il più importante è quello relativo al ruolo di predatore e simultaneamente di preda: lo stesso individuo può predare con successo o con insuccesso e, in entrambi i casi, la sua azione ha effetto sul numero degli individui della sua stessa specie. Infatti un atto di predazione con successo porta a diminuire la competizione intraspecifica di entrambe le specie: nella specie predata perché esiste un individuo in meno, nella specie predatrice perché esiste un predatore ''sazio'' che lascia spazio agli altri individui della sua specie. Il contrario avviene se l'atto di predazione non ha successo: per entrambe le specie, infatti, aumenta la competizione intraspecifica. Il successo di una specie nella competizione con individui di altra specie, ma che in quella stessa area debbono soddisfare gli stessi fabbisogni (che hanno cioè la stessa nicchia ecologica), crea inoltre il ruolo di specie competitrice.
In questo tipo di competizione una delle due specie può escludere l'altra eliminandola fisicamente (portando cioè a morte tutti gli individui della seconda specie, oppure costringendoli a emigrare). In questo caso tutti i tipi di ruolo svolti precedentemente alla competizione interspecifica vengono mantenuti dalla specie più forte nella competizione. Talvolta però nessuna delle due specie riesce a escludere l'altra, ed entrambe restano nello stesso ambiente, ma i loro ruoli vengono a modificarsi. Con terminologia tecnica si dice che entrambe le specie divergono. Il verbo ''divergere'' è molto appropriato, in quanto chiarisce il concetto che le specie non si allontanano totalmente dai ruoli svolti prima della competizione. Pur modificando i ruoli, la base resta la stessa, anzi in alcuni casi parte dei ruoli di entrambe le specie viene a sovrapporsi. Per es., nel ruolo di predatrice una specie X può utilizzare prevalentemente, ma non esclusivamente, un certo cibo che viene usato anche dalla seconda specie. Prevalentemente in quanto non tutti gli individui si nutrono di quel cibo, oppure perché tutti gli individui utilizzano anche altro cibo. Se le due specie entrano in competizione (in quanto una delle due cerca d'invadere l'area occupata dall'altra), il cibo non sarà più sufficiente per entrambe e pertanto una parte degli individui dovrà modificare le proprie esigenze alimentari, pena la morte per fame, oppure dovrà occupare aree marginali di quell'ambiente, oppure dovrà emigrare. Questo ragionamento si può estendere a tutti i ruoli di una specie, e allora diventa chiaro il concetto della divergenza cui vanno incontro le specie competitrici.
La totalità dei ruoli che ogni specie svolge in una certa area costituisce la sua nicchia ecologica. Le specifiche funzioni (i singoli ruoli) prendono il nome di nicchia trofica, nicchia spaziale (Grinnel 1917, 1928; Elton 1958). La necessità di esprimere graficamente e numericamente tutte le suddivisioni della nicchia ha portato Hutchinson (1957, 1959) a unificare graficamente la nicchia in uno spazio a più dimensioni, da lui definito ipervolume.
Per es., se sull'asse delle ascisse si porta l'ambito di tolleranza di una specie rispetto alla temperatura, sulle ordinate quello rispetto all'umidità, gli altri parametri (predazione, competizione, tipo di ambiente, ecc.) possono essere inseriti nello stesso grafico ricorrendo a tre, quattro e più dimensioni.
L'importanza dell'identificazione della nicchia ecologica di una specie è legata all'uso comparativo fra le varie specie che nella comunità biologica di un certo ecosistema hanno ruolo funzionale molto simile. Mediante questi studi comparati si è giunti a ridurre (Hughes 1986) di molto l'importanza della teoria dell'esclusione competitiva (Gause 1932, 1934) e del modello a ''bastoncino spezzato'' (Mac Arthur 1968). Si è così giunti a formulare l'ipotesi che in ecosistemi con grande diversità di specie, con intensa competizione inter e intraspecifica, la nicchia ecologica di ogni singola specie diventa più ''stretta'' con svantaggio per il numero degli individui delle singole specie, ma con aumento del numero di specie. Tutte le specie con ruoli simili possono parzialmente sovrapporre le proprie nicchie sulla nicchia ''fondamentale'' della prima specie. Questa pertanto realizza solo parzialmente il suo ipervolume (Hutchinson 1957). Tutte insieme queste specie in ''corporazione'' svolgono il ruolo funzionale che, con bassa densità di specie, avrebbe potuto svolgere una di esse.
Successioni ecologiche. − Le comunità biotiche che per prime s'installano in ambienti senza vita (resi tali da eruzioni vulcaniche, alluvioni, prosciugamenti totali, esaurimento dell'humus) sono sempre sostituite (in tempi più o meno brevi) da un'altra comunità biotica. Questa seconda è diversa, vuoi per il tipo di organismi che la compongono, vuoi per diversa frequenza delle varie specie. Le comunità si succedono una dopo l'altra, in un dato ambiente, secondo un ordine temporale relativamente prevedibile.
Il termine prevedibile sta a indicare che numerose comunità, caratteristiche di un dato ambiente, e dominate inizialmente da una specie tipica, sono frequentemente ma non obbligatoriamente sostituite da un certo tipo di comunità. Si usa perciò parlare dello ''sviluppo'' delle comunità, e viene da molti ecologi sottolineata la simiglianza con lo sviluppo in un individuo (embrionale, giovanile, di senescenza, di vecchiaia). Ciononostante, a differenza degli stadi attraverso i quali passa un individuo, caratterizzati da una successione morfologica, fisiologica e temporale assolutamente prevedibile, le successioni ecologiche non possono ancora ritenersi progressioni automatiche e inevitabili di stadi geneticamente programmati. Per es., lo sviluppo dell'individuo è irreversibile, mentre gli stadi serali degli ecosistemi possono essere diversi dall'atteso e possono essere reversibili. Posta questa premessa, è d'obbligo però stabilire che tutte le comunità hanno un inizio, si sviluppano in una successione di stadi detti serali e giungono a uno stadio molto duraturo, maturo, detto climax. Gli stadi serali (precedenti il climax) sono relativamente poco duraturi in quanto male reagiscono ai disturbi esterni all'ecosistema detti allogeni (alluvioni, fuoco, vento, ecc.) e ai cambiamenti intrinseci alla comunità stessa, detti autogeni, o meglio detti ''reazioni'' (Clements 1928, 1936).
Con reazione ecologica s'intende la reazione degli individui alla trasformazione che subisce un ambiente quando è occupato da una comunità biotica, che in vari modi lo ha modificato chimicamente e fisicamente (per es. creando l'humus mediante la catena di detrito, ombreggiando, trattenendo l'acqua con le radici, ecc.). La somma dei cambiamenti fa sì che molti o tutti i membri di una comunità che avevano occupato quell'ambiente non trovano più le caratteristiche per le quali vi si erano installati e pertanto lo abbandonano, oppure muoiono. Questo ambiente lasciato libero sarà subito occupato da un'altra comunità, che a sua volta avrà reazioni all'ambiente da essa trasformato e lascerà il posto ad altra comunità, fino a che una certa comunità non avrà reazioni verso l'ambiente e vi potrà permanere per tempi lunghissimi. Questa comunità climax ha molte caratteristiche che la differenziano dai precedenti stadi serali; alcuni sono importanti: a) tutti i membri della comunità sono adattati al clima (alle variazioni stagionali, annuali, secolari) di quell'area e pertanto alcuni definiscono la comunità climax ''climatica'', mentre molti considerano pleonastico questo aggettivo; b) tutte o quasi le specie sono state selezionate per una strategia K; c) il K di ogni singola popolazione è però molto basso, perché numerose specie hanno nicchie ecologiche simili e parzialmente sovrapposte. Le comunità climax sono molto complesse, ma molto ben organizzate (i feedback negativi sono numerosi). Di tutte le caratteristiche che distinguono una comunità climax da una in stadio serale, la più importante è il rapporto fra la biomassa totale presente e il flusso di energia che occorre per mantenerla stabile. In uno stadio serale il rapporto fra produzione (P) e respirazione (R) può essere P>R oppure P〈R, mentre nel climax il rapporto è sempre P=R.
Considerazioni conclusive. − Acquista sempre maggiore importanza e notorietà quella parte dell'e. che si occupa delle varie alterazioni che l'uomo reca all'ambiente e che nei vari testi si può trovare sotto vari titoli: inquinamento, impatto ambientale, e. applicata. Qui basti dire che tali studi riguardano l'inquinamento dell'aria, dell'acqua (dolce o salata), del suolo analizzando l'effetto che l'inquinamento (per es. dei pesticidi) provoca su: gli organismi non bersaglio, la persistenza e accumulo, gli effetti sinergici, l'amplificazione biologica, l'eutrofizzazione, le piogge acide, l'effetto serra e le ripercussioni dell'inquinamento locale sull'intero ecosistema. A causa del continuo, irrefrenabile impatto ambientale da parte delle popolazioni con tecnologia avanzata si è reso inoltre necessario creare leggi per la conservazione delle più importanti aree e dei parchi naturali. La gestione del territorio ha avuto (e ha tuttora) fasi successive: inventario delle risorse ambientali, riconoscimento dei valori (naturali e di sfruttamento); in seguito alla stesura di mappe molto dettagliate che indicano i punti più importanti da proteggere, si è passati a legiferare. La legge è diversa da nazione a nazione, non è ancora buona, ma molto si è fatto: meno agevole è farla rispettare. Il criterio più difficile da far accettare è che quasi sempre i benefici immediati (sotto qualsiasi forma: di reddito personale, dell'industria, delle tasse, di salari) saranno superati dai costi (individuali e della collettività) provocati dall'inquinamento; costi che vanno calcolati sia in termini di salute sia in termini strettamente economici come aumento della spesa pubblica nazionale. Impossibile trattare in dettaglio anche uno solo di questi argomenti, per due fondamentali ragioni: a) ogni forma d'inquinamento è altrettanto importante quanto le altre, per cui parlare di una sola è troppo riduttivo; b) parlare di tutti i tipi d'inquinamento è correre un rischio di superficialità e poca chiarezza (v. anche inquinamento, in questa Appendice).
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Ecologia ed economia. − Data la loro importanza, verranno qui brevemente descritti i rapporti tra una scienza naturale come l'e., che studia le influenze reciproche tra ambiente ed esseri viventi, e una scienza sociale, come l'economia, che studia le forme assunte dal comportamento di un particolare essere vivente, l'uomo, nell'utilizzo di limitate risorse. Le due scienze trattano i rapporti degli esseri viventi − gli uomini specificamente − col loro ambiente, con particolare riguardo all'obiettivo della sopravvivenza. La denominazione delle due discipline ha infatti la medesima radice greca: e. significa scienza dello habitat (da oikos, "casa", e logos, "discorso"); economia significa amministrazione dell'habitat (oikos, "casa"; nomos, "amministrazione"). L'analisi delle due discipline porta a notare che, tanto in e. come in economia, si trovano un certo numero di funzioni fondamentali quali la produzione, il consumo, l'interdipendenza, l'equilibrio e lo sviluppo. Tuttavia le nozioni chiave d'interdipendenza ed equilibrio, in particolare, assumono nei due casi significati differenti e talora opposti. L'equilibrio in e. comprende le interrelazioni fra l'insieme delle differenti specie considerate, animali e vegetali. L'equilibrio economico dipende, invece, dalle relazioni economiche fra gli uomini, e soltanto fra essi. Non vi può essere armonia fra i due settori, dunque, se non quando l'uomo sia integrato nella biocenosi, in modo simile a quanto accade per le altre specie animali.
Questa integrazione non è tuttavia impossibile. Occorre ricordare, infatti, che l'economia studia le forme razionali per l'utilizzo di tutte le risorse scarse, e non soltanto di quelle razionate dai prezzi di mercato. L'aria pura, l'acqua pulita, il suolo in molti suoi aspetti ambientali, non essendo generalmente oggetto di diritti di proprietà, non hanno infatti un prezzo, e vengono perciò ''sovraconsumati'', ossia inquinati, degradati, ecc., se abbandonati al mercato. Trattandosi di risorse limitate, questo spreco risulta incompatibile con i principi di ottimizzazione economica. E infatti proprio la moderna teoria economica suggerisce azioni di razionamento per queste risorse solo apparentemente ''libere'', sostituendo l'intervento pubblico − ispirato anche all'obiettivo dell'equilibrio ecologico − ai meccanismi di mercato.
Bibl.: J. Ph. Barde, E. Gerelli, Economia e politica nell'ambiente, Bologna 1980; P.H. Dasgupta, Environment as a commodity, Helsinki 1990; Sustainable development, economics and environment in the Third World, a cura di D. Pierce, E. Barbier, A. Markanda, Cheltenham 1990.