Abstract
L’eccesso di potere caratterizza la nascita del diritto amministrativo e del giudice amministrativo. Esso è la tecnica con cui si è via via sottoposto il potere discrezionale al diritto senza con ciò sopprimere lo spazio di scelta attribuito all’amministrazione. A seguito dell’evoluzione dell’ordinamento, nazionale e supernazionale, ha subito un profondo mutamento. La comunicazione fra schemi del diritto comune e del diritto amministrativo permette, in atto e in prospettiva, soluzioni più semplici e appropriate.
La legge attribuisce all’amministrazione un potere unilaterale di scelta fra interessi (discrezionalità amministrativa) affinché essa possa in concreto, nelle più diverse situazioni di fatto, perseguire il fine in astratto indicato dalla legge o in base alla legge.
La finalità corrisponde a un interesse pubblico; il potere di solito incide unilateralmente su interessi giuridicamente rilevanti di altri soggetti (diritti soggettivi; interessi legittimi), il che è particolarmente evidente quando il potere è anche autoritativo, come nel caso in cui sia emesso un atto amministrativo o un provvedimento amministrativo (v. Atto amministrativo) definibile – appunto – di “natura” “autoritativa” (art. 1, co. 1-bis, l. 7.8.1990, n. 241). L’esigenza è intuitiva: occorre assicurarsi che l’esercizio del potere non oltrepassi l’area assegnata alla valutazione e alla scelta dell’amministrazione. Ciò garantisce, per un verso, l’interesse pubblico nei confronti della stessa amministrazione, che in fatto può agire bene o male, e, per un altro, garantisce gli altrui diritti e interessi legittimi. La possibilità di scegliere non deve poter occultare una decisione arbitraria o inadeguata.
La soluzione non è semplice. Si deve ridurre il rischio senza svuotare il potere, come si avrebbe se si eliminasse qualsiasi possibilità di scegliere (opportunità, merito della decisione). L’ordinamento vuole infatti, con il conferimento del potere, che sia l’amministrazione, cioè un’istituzione direttamente o indirettamente legittimata dal principio democratico, a stabilire quale sia in concreto il contenuto dell’interesse pubblico (se rilasciare o negare la concessione, se e quale fondo occupare, ecc.).
L’eccesso di potere è la tecnica inventata dal diritto per risolvere il problema. Costituisce un vizio di legittimità degli atti amministrativi e ne comporta l’annullabilità o la disapplicabilità (ipotesi più rara, e in un proprio contesto: disapplicazione).
Quanto all’ambito, il vizio riguarda gli atti amministrativi, ma non tutti. Esso è caratteristico (secondo le posizioni prevalenti) della “parte” discrezionale (o assimilata, v. infra, § 5.3) dell’atto e dunque non si riferisce all’attività vincolata e ai relativi atti.
L’immedesimazione fra eccesso di potere e l’altra faccia (quella cattiva) della discrezionalità amministrativa è il prodotto di premesse sistematiche e di un assetto risalente a una determinata epoca, in specie la seconda metà dell’ottocento, e non deve indurre a trascurare che l’eccesso di potere, nel suo nucleo di fondo, esprime una tecnica idonea (in ipotesi) a controllare un qualsiasi potere solo perché unilaterale (per l’analisi – e per una soluzione – dei rapporti fra unilateralità del potere, pubblico o privato, e sindacato giurisdizionale, Pioggia, A. Giudice e funzione amministrativa. Giudice ordinario e potere privato dell’amministrazione datore di lavoro, Milano, 2004, 89 ss., 243 ss.). Diviene perciò pensabile anche nei confronti di poteri privati (v. infra, § 6), a condizione che non siano, o non debbano rimanere, assolutamente liberi, si pensi alla vicenda dell’abuso del diritto.
L’evoluzione della figura va di pari passo con la progressiva emersione, ad opera delle leggi, dei giudici e dei giuristi, dei limiti ai poteri (principi generali, clausole generali, criteri), di cui proprio l’eccesso di potere è stato protagonista essenziale, almeno per quanto riguarda il diritto amministrativo. Peraltro, il suo successo suggerisce di dare evidenza a un’impostazione diversa, che ordini i risultati acquisiti, senza di che l’eccesso di potere potrebbe finire per rappresentare la sopravvivenza di premesse e di schemi oltre il loro tempo (per una riflessione sul punto, Cudia, C., Funzione amministrativa e soggettività della tutela. Dall’eccesso di potere alle regole del rapporto, Milano, 2008, 161 ss.).
L’eccesso di potere, insieme all’incompetenza e alla violazione di legge, costituisce un parametro della legittimità dell’atto amministrativo a suo tempo delineata dalla l. 31.3.1889, n. 5992, art. 3, legge destinata a rimediare, attraverso l’istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato, ai vuoti di tutela conseguenti alla giurisdizione unica derivante dalla l. 20.3.1865, n. 2248, All. E (v. Consiglio di Stato).
La l. n. 5992/1889 e le leggi successive non dicono che cosa sia l’eccesso di potere. Provvede a esplicarne i significati il Consiglio di Stato, alla luce dell’esperienza francese e dei principi affermati dallo stesso Consiglio, negli anni precedenti, in sede di ricorso straordinario al Re, nel cui ambito la «nozione di legittimità viene a combaciare con la pratica di una “savia” e “prudente” giurisprudenza amministrativa, in quanto tale assumendo un significato proprio, diverso da quello comune» (Corpaci, A., Consiglio di Stato e sistema di giustizia amministrativa. La giurisprudenza degli anni dal 1865 al 1889 in rapporto alla istituzione e agli sviluppi della giurisdizione amministrativa, Firenze, 1988, 103).
Un primo problema riguarda la distinzione del vizio dai suoi vicini, opera essenziale anche dal punto di vista pratico, poiché, fino alla Costituzione della Repubblica, art. 113, alcune disposizioni di specie, talora, restringevano la possibilità di impugnare l’atto a solo alcuni dei tre vizi. Il distacco dell’eccesso di potere dall’immagine di una sorta di «superincompetenza» (Cognetti, S., Legge Amministrazione Giudice. Potere amministrativo fra storia e attualità, Torino, 2014, 101), cioè dallo straripamento di potere, ipotesi in cui l’amministrazione esercita poteri ad essa non spettanti, e dall’incompetenza (relativa) risultò abbastanza agevole. L’eccesso di potere non consiste nell’esercizio della competenza di altri; si radica invece nell’esercizio di un potere che spetta, ma che è usato al di fuori dei limiti che giuridicamente lo inquadrano e lo indirizzano.
La separazione dalla violazione di legge è più complessa. L’eccesso di potere è un vizio di legittimità: è la violazione di un precetto giuridico. Ora, la violazione di un precetto giuridico è – per definizione – una “violazione di legge”. E dunque?
La nascita e la storia dell’eccesso di potere ruotano intorno a questo asse e si manifestano in un’ampia quantità di studi e in un ancor più ampio intervento del giudice amministrativo.
Nella prima fase l’eccesso di potere è individuato nella forma dello sviamento (come sottolinea Cons. St., 14.8.2013, n. 4174). Ciò si spiega con la considerazione che è l’ipotesi meno compromettente dal punto di vista della distinzione fra legittimità e merito. Infatti, se il potere è vincolato nel fine, allora il suo esercizio in concreto per una finalità diversa, sia essa pubblica o privata, non può essere ritenuto un accadimento conforme a diritto. Il difetto sta prima della valutazione in punto di opportunità; ci si ferma a un livello preliminare: il potere non poteva comunque essere esercitato per quel fine, e questo basta. Problemi vi possono essere, ma si riferiscono alla prova dello sviamento, che è un piano distinto da quello dell’opportunità; questa separazione, peraltro, alle origini, non è stata sufficientemente avvertita: è il tema dei poteri di cognizione del fatto da riconoscere al giudice amministrativo.
In una fase successiva lo sviamento si rivela una veste troppo stretta, anche per effetto del progressivo pluralismo sociale e istituzionale e del venir meno della «visione monolitica dell’interesse pubblico» (D’Alberti, M., La giurisprudenza amministrativa degli anni trenta, in AA.VV., Il diritto amministrativo degli anni trenta, Bologna, 1992, 41).
Al giudice si presenta una casistica in cui di frequente non vi è un contrasto diretto e inequivoco fra la decisione e il fine legale, ma in cui la sostanza della decisione è tale da urtare immediatamente la sensibilità giuridica. L’amministrazione nega il provvedimento, di carattere discrezionale, in base a un’errata conoscenza dei fatti, oppure senza motivazione o con una motivazione illogica. Ancora: l’interessato ha commesso una lieve infrazione, ma gli viene applicata la sanzione nella misura massima di legge.
Emergono così le “figure sintomatiche”, entità modellate sulle diverse evenienze della realtà, assunte quali segni della presenza dell’eccesso di potere, ognuna autonomamente rilevante. Sono una serie aperta, non tassativa (Cardi, E.-Cognetti S., Eccesso di potere (atto amministrativo), in Dig. Pubbl., V, Torino 1990, 346 ss.).
Un breve e non esaustivo elenco: il “travisamento dei fatti” – si decide in base a un’erronea rappresentazione della situazione di fatto –; la “contraddittorietà” fra motivazione e dispositivo, o fra un provvedimento ed un altro; la disparità di trattamento, che presuppone l’identità delle situazioni poste a confronto ed è però da escludere «allorquando comporterebbe la perequazione di una situazione di illegittimità in forza della sua parificazione a casi analoghi» (TAR Lazio, Roma, 10.4.2008, n. 3074); il difetto di istruttoria – non sono acquisiti elementi rilevanti per la decisione –; le carenze inerenti la motivazione – assenza materiale di una parte dell’atto qualificabile come motivazione, oppure l’illogicità o l’insufficienza o la perplessità di quanto enunciato –; l’irragionevolezza; l’ingiustizia manifesta; i vizi della volontà; il contrasto, se immotivato, con disposizioni di circolari (TAR Lazio, Roma, 30.8.2012, n. 7395), con norme interne o con la prassi.
L’estrema varietà è fonte di numerose questioni: quale sia l’elemento affetto dal vizio, se la causa, se la volontà, se la funzione; la unitarietà: se le figure sintomatiche stiano dentro un fenomeno di sviamento o se siano altra cosa; la ascrivibilità di alcune di quelle ipotesi alla violazione di legge anziché all’eccesso di potere. Temi tutti importanti, ma il centro rimane rappresentato dall’esistenza e dalla moltiplicazione delle figure sintomatiche.
Invero, con l’apparire del sintomo si lascia l’ancoraggio esclusivo allo sviamento e con ciò l’eccesso di potere si “detipicizza”. La situazione è nuova: si viene ad estendere rapidamente l’area coperta dal diritto a fronte dell’area del merito. L’idea, all’epoca diffusa, della legge che solo limita e non crea il potere dell’amministrazione, con la conseguenza che anche dove non vi è legge vi è (o vi può essere) potere, non è accantonata, ma è resa più accettabile da un significativo e benvenuto lavoro di riduzione di quel medesimo potere in favore della espansività del diritto e di una concezione di legittimità capace di incrementarsi attraverso l’interpretazione. Si afferma un principio di giustiziabilità, da intendere nel senso che a fronte di un potere discrezionale non è concepibile che non vi siano limiti. Implicazione: se il diritto positivo tace, si provvede in via interpretativa (Cons. St., A.P., 28.1.1961, n. 3, in Foro amm., 1961, I, 567).
Dal diritto nasce diritto. L’eccesso di potere, grazie alle figure sintomatiche, è oggetto di un ulteriore processo evolutivo.
La figura sintomatica è geniale, per il suo tempo. Al giudice si chiede di accertare il sintomo e non di spingersi fino ad accertare il male. Si può così ritenere che il giudice non entri in contatto con il merito. Ciò consente, in un’epoca in cui il timore di un’ingerenza del giudice nei poteri dell’esecutivo è forte, l’allargamento dell’ambito della legittimità, altrimenti improbabile. Contiene e propone, però, una finzione.
Secondo la giurisprudenza, la figura sintomatica (illogicità, difetto di istruttoria, manifesta ingiustizia, ecc.), che pure è un sintomo, un indizio, purché – naturalmente – la sua presenza e rilevanza siano provate, comporta l’annullamento (Cons. St., n. 4174/2013). A questo punto il sintomo è il male e si è costretti a riproporsi l’interrogativo di quale sia l’autentica identità del male, cioè dell’eccesso di potere (Clarich, M., Manuale di Diritto Amministrativo, Bologna, 2015, 218).
Altri e più generali fattori di revisione sono le novità derivanti dalla Costituzione e dall’influenza del diritto e delle istituzioni comunitarie. Cambiano, in parte significativa, le coordinate, i riferimenti, i valori del sistema che aveva dato fisionomia e nome alla tecnica dell’eccesso di potere. Di qui il dubbio e il problema del suo ruolo, in atto e in prospettiva (v. supra, § 2 e infra § 5 e 6). Alcuni elementi:
a) il nuovo diritto assume in termini positivi i principi desunti dall’applicazione dell’eccesso di potere o ne crea di nuovi, con disposizioni generali e con disposizioni di settore: «il buon andamento e l’imparzialità», art. 97 Cost., e il «buon andamento» attrae il profilo del risultato in termini di violazione di legge o di eccesso di potere (Romano Tassone, A., Amministrazione di “risultato” e provvedimento amministrativo, in Immordino, M.-Police, A., a cura di, Principio di legalità e amministrazione di risultati, Torino, 2004, 7 ss.); l’obbligo di perseguire «i fini determinati dalla legge» e di osservare «criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità…» e i «principi dell’ordinamento comunitario», art. 1, co. 1, 1. n. 241/1990; il «principio di tutela del legittimo affidamento», ricondotto al diritto comunitario (TAR Bari, 9.5.2011, n. 688); l’obbligo di accertare e adottare «ogni misura per l’adeguato e sollecito svolgimento dell’istruttoria», art. 6, l. n. 241/1990); l’obbligo di motivare, salvo alcune eccezioni, con determinazione degli elementi di riferimento, art. 3, l. n. 241/1990; l’obbligo di prevedere «criteri e modalità» per la concessione di vantaggi economici, art. 12, l. n. 241/1990; il «termine ragionevole» e l’obbligo di tener «conto», in sede di annullamento d’ufficio, di tutti gli interessi, art. 21 nonies, l. n. 241/1990; la « migliore attuazione possibile dello sviluppo sostenibile», art. 3 quater, d.lgs. 3.4.2006, n. 152; il principio di precauzione, art. 3 ter, d.lgs. n. 152/2006; il rispetto dei «principi di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità», art. 3, d.lgs. 12.4.2006, n. 163 (in tema di contratti pubblici); e altro;
b) si infittiscono le norme che parlano espressamente di diritti: il diritto alla buona amministrazione, art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea; le norme che si autodefiniscono «Principi generali» e attribuiscono «diritti», art. 2, l. 11.11.2011, n. 180 (in tema di libertà di impresa e di statuto delle imprese);
c) si consolida, anche per l’opera delle Alte Corti (nazionali e non), il convincimento della «priorità dei diritti rispetto al potere» (Silvestri, G., Relazione di sintesi, in Manganaro, F.-Romano Tassone, A.-Saitta, F., a cura di, Sindacato giurisdizionale e «sostituzione» della pubblica amministrazione, Milano, 2013, 184); dunque, il perimetro della scelta dell’amministrazione deve essere volta a volta individuato mediante la contestuale utilizzazione anche delle norme che conferiscono i diritti che quel potere può intersecare; può perciò avvenire che sia il possibile contenuto del diritto a circoscrivere il possibile ambito del potere, e non viceversa: si pensi ai diritti fondamentali, al diritto alla salute, ecc.;
d) il richiamo e l’applicazione anche di precetti caratteristici del diritto privato e dei privati, in specie buona fede e correttezza, un tempo ritenuti incompatibili con il perseguimento dell’interesse pubblico e tali, per la loro indeterminatezza, da comportare un inammissibile sindacato sul merito (Cudia, C., op. cit., in particolare 327 ss.; Sigismondi, G., Eccesso di potere e clausole generali. Modelli di sindacato sul potere pubblico e sui poteri privati a confronto, Napoli, 2012, 253 ss.);
e) l’inserimento dei tre vizi di legittimità, insieme a quelli di nullità, in una legge sostanziale, rispettivamente con gli artt. 21 octies e 21 quinquies, l. n. 241/1990, oltre che nel codice del processo amministrativo, art. 29, d.lgs. 2.7.2010, n. 104;
f) il nuovo rapporto fra giudice e amministrazione, grazie al citato d.lgs. n. 104/2010, quanto ai poteri di cognizione e di decisione, e previsione di poteri di particolare significatività, come quelli sulla sorte del contratto a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione, art. 121, co. 2 e 123, d.lgs. n. 104/2010.
La sottoposizione della scelta dell’amministrazione a precetti di carattere indeterminato è divenuta una normale vicenda del rapporto fra il diritto e il potere. Il fatto che il giudice, quando stabilisce che cosa significa “legittimità” in relazione al caso esaminato, tracci il confine con il merito non può giustificare l’idea di una legittimità impura, inautentica, speciale; cade il bisogno di artifici per soddisfare quelle esigenze per le quali è sorto l’eccesso di potere. Si può passare ad altra prospettiva, come preannunciato (v. supra, § 2): quella del precetto giuridico e di una sua diretta e non sintomatica violazione, di un precetto che è una violazione di legge, come tutte le altre. Vero è che si tratta di un precetto il cui contenuto è generale o indeterminato, ma con ciò siamo pur sempre in evenienze che solitamente riguardano ogni soggetto dell’ordinamento.
Lo sviamento è la violazione di legge in punto di fine legale del potere. Le figure sintomatiche sono violazione di legge in relazione a quei precetti che sono stati via via enucleati, e sempre più spesso scritti, o trascritti, in norme positive: «imparzialità, parità di trattamento, non discriminazione, ragionevolezza, proporzionalità» (TAR Lazio, Roma, 1.8.2011, n. 6885), buon andamento, affidamento, buona fede, correttezza, e gli altri prima ricordati. Del resto, delle conferme potrebbero anche trarsi dal diritto europeo; infatti, nell’art. 263 TFUE, a proposito della “legittimità”, non compare la formula “eccesso di potere”; lì si parla di “sviamento di potere” e di “violazione delle forme sostanziali, violazione dei trattati o di qualsiasi regola di diritto”.
Il mutamento del punto di vista non può realizzare l’aspirazione a impossibili certezze sul piano applicativo. I precetti di cui si tratta sono in gran parte indeterminati; lo spazio dell’interpretazione rimane l’aspetto significativo e caratteristico e, come osservato (Sala, G., Le clausole generali nell’età della codificazione del diritto amministrativo, in Giur. it., 2012, 1191 ss.), la positivizzazione di molti di quei precetti, in realtà, ne dilata i confini. Tuttavia, il nuovo è di sicuro rilievo, e utile, sotto numerosi profili, a cominciare dalla semplicità, perché più non occorre, almeno sul piano concettuale, l’intermediazione dello sviamento né della figura sintomatica.
Il percorso avviato dall’eccesso di potere ha consentito di richiamare, si è visto, precetti secondo molti di natura (o struttura) diversa, «principi» e «clausole generali» (Angeletti, A., L’eccesso di potere e la violazione delle clausole generali, in Giur. it., 2012, 1229 ss.).
Quanto alla natura e alla struttura, vi è un aspetto comunque comune, costituito dai margini di indeterminatezza, il che è il punto più importante. Detto aspetto, per la parte in cui ostacolava l’ammissione della predicabilità e praticabilità, in forma diretta, di precetti a contenuto indeterminato, è superato.
Merita invece attenzione il profilo relativo all’ambito di applicazione dei principi e delle clausole generali (Giani, L., Funzione amministrativa ed obblighi di correttezza. Profili di tutela del privato, Napoli, 2005, 98 ss.).
I precetti corrispondenti a clausole generali – il riferimento è a correttezza e buona fede –, siccome esse sono proprie di rapporti paritari, non potrebbero essere applicati all’amministrazione che si manifesta attraverso poteri di autorità (Angeletti, A., op. cit., in Giur. it., 2012, 1227-1228). Il potere autoritativo tutela un interesse superiore e non sarebbe compatibile con un precetto che risolve un conflitto fra interessi di pari livello. Altre prospettazioni ritengono invece che, dinanzi al precetto normativo, e nei limiti di ciò che si può trarne, gli interessi sono tutti – necessariamente – paritari (Orsi Battaglini, A., Alla ricerca dello Stato di diritto. Per una giustizia “non amministrativa”. Sonntagsgedanken, Milano, 2005, 115 ss., 154-155, 160 ss.).
In effetti, la superiorità dell’uno sull’altro è prodotta e si esaurisce in quel potere che il legislatore attribuisce a uno nei confronti dell’altro. Di conseguenza, quando si tratta di sapere che cosa è conforme o non conforme a legge, non vi sono spiragli per reintrodurre una qualsiasi supremazia dell’uno sull’altro, altrimenti avremmo una superiorità duplicata, e duplicata al di fuori, per definizione, di qualsiasi base legale. Dunque correttezza e buona fede si possono includere nel novero dei precetti riferibili all’atto amministrativo discrezionale e anche all’atto autoritativo. E qualche orientamento (Cudia, C., op. cit., 327 ss.) riporta le figure raccolte sotto la voce eccesso di potere alle clausole generali di buona fede e correttezza (salvo quelle coincidenti con disposizioni normative, come la necessità della motivazione, o come lo sviamento, ritenuto vizio dell’elemento causale e perciò, su tale premessa, comportante violazione dell’art. 21 septies, l. n. 241/1990).
La giurisprudenza non offre un quadro univoco (Angeletti, A., op. cit., 1225); certo è però che essa utilizza largamente correttezza e buona fede, quando vi è esercizio di potestà discrezionale.
Le valutazioni e le scelte dell’amministrazione, quando non siano qualificabili come esercizio di un potere giuridico di natura privata, sono considerate come discrezionali o tecnico discrezionali o, talora, ad altro titolo riservate (De Pretis, D., Valutazioni amministrative e discrezionalità tecnica, Padova, 1995, 297 ss.). La giurisprudenza, da sempre, non è di agevole interpretazione quanto al rapporto fra i precetti di cui si parla e la tipologia or ora menzionata: talora afferma che la valutazione tecnica è controllabile in modo da consentire un’approfondita verifica della sua attendibilità (Cons. St., n. 4174/2013; Cons. St., 13.9.2012, n. 4873), e il nuovo processo amministrativo prevede la consulenza tecnica d’ufficio (art. 67); altre volte, ad esempio in tema di schede valutative del personale militare, afferma che la sindacabilità è solo possibile «entro i limiti ristretti della manifesta abnormità, discriminatorietà o travisamento dei presupposti di fatto» (TAR Lazio, Roma, 3.5.2011, n. 3779).
Il riferimento al precetto anziché all’eccesso di potere dovrebbe promuovere un andamento più uniforme e prevedibile. Infatti, che si tratti di discrezionalità amministrativa o di discrezionalità tecnica o di altro genere di valutazione riservata, la differenza non potrà riguardare la natura del precetto, ma – ovviamente – la sua pertinenza rispetto all’atto che viene in discussione. Infatti, i precetti a cui rinvia l’eccesso di potere, come si è detto, sono tanti, e alcuni non sono applicabili a valutazioni ritenute di discrezionalità tecnica in conseguenza del loro contenuto: sembra essere il caso della manifesta ingiustizia, ad esempio. Ma ciò è altra cosa rispetto ai poteri di cognizione del fatto e alla qualità ed estensione del sindacato del giudice e non può giustificarne una limitazione.
Se i precetti sulla discrezionalità (e altre valutazioni assimilate) sono un normale diritto, non vi è ragione alcuna che il giudice ordinario, quando deve giudicare la legittimità di un provvedimento amministrativo, debba o possa ritenere di incontrare limiti ulteriori rispetto al giudice amministrativo. Naturalmente, questo non esclude che in certi casi il giudice ordinario debba utilizzare una legittimità “ridotta”. Ciò però può accadere alla luce della specifica struttura del fenomeno di cui il giudice deve occuparsi, e non alla luce dei principi del diritto amministrativo. Un esempio è il caso dell’abuso d’ufficio: la limitazione della legittimità a violazione di «norme» (art. 323 c.p.) non può essere dedotta da una differenziazione qualitativa fra i precetti da osservare, ma da un elemento letterale della norma penale e dalla sua ambientazione in un settore necessariamente dominato, per disposto costituzionale, da un principio di stretta legalità.
Lo spostamento dell’attenzione sul precetto può contribuire alla ricerca e alla condivisione di uno statuto giuridico proprio del potere, «indifferentemente pubblico o privato» (Giliberti, B., Il merito amministrativo, Padova, 2013, 238), o almeno alla composizione di un «panorama che è sempre più … quello del diritto comune … basti pensare che alcuni fra i più importanti standards … sono propri sia del diritto amministrativo che privato: raisonnabilité, faute, imprudence, négligence, diligence, bonne foi» (D’Alberti, M., Mutamenti e destini del recours pour excès de pouvoir, in Scritti in onore di M.S. Giannini, III, Milano, 1988, 306, a proposito dell’esperienza francese).
L’obiettivo appare particolarmente utile: un confronto e uno scambio ravvicinato fra metodi e categorie del pubblico e del privato – su cui si rinvia agli studi ormai disponibili – possono facilitare l’individuazione e l’ordinazione di una rete di assunti in grado di dare minore incertezza e maggiore prevedibilità, volta a volta, su ciò che spetta al potere o agli altri soggetti, ed è il modo migliore per mantenere ogni potere, sia quello dell’amministrazione sia quello del giudice, nel suo ruolo. Al tempo stesso la riconduzione dell’esperienza giuridica maturata con l’eccesso di potere a un diritto “normale” e non “speciale” induce a riprendere il capitolo del sistema di tutela. Se ciò che si usa è fatto di un normale diritto e di una normale legittimità, ritorna la questione del doppio giudice e della ricerca e della sperimentazione di ulteriori mezzi e strutture – azioni, poteri, garanzie dell’applicazione uniforme del diritto – in grado di ridurre al minimo gli inconvenienti di quanto vigente.
L. 7.8.1990, n. 241; d.lgs. 2.7.2010, n. 104.
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