"E per tutto il cielo". Dinamiche religiose di uno Stato nascente
La religione cristiana - secondo un'opinione corrente - non cessò mai, fin dalle origini della città e a maggior ragione dopo che avvenne l'incontro con l'evangelista Marco, di connotare nel profondo la storia della Repubblica. E anzi, si può aggiungere, la connotò più di quanto le stesse fonti lagunari - tutte intente a porre in ombra l'apporto delle istituzioni religiose e a celebrare per contro la sola comunità civile - non abbiano lasciato trapelare: non per nulla qualcuno ha parlato di una "variante negata", ossia dell'altra faccia, quella religioso-ecclesiastica - troppo a lungo rimasta inespressa -, della storia veneziana (1); e qualche altro ha voluto rivendicare con forza l'esistenza di un'altra Venezia: quella "eroica non meno di santità che di valor marinaro", "perduta in Dio"; ossia l'esistenza di una Venezia "spirituale" (2). Non che sia sempre mancata, in passato, una riflessione sul ruolo importante della religione nel quadro della città e dello Stato: la imponeva la stessa ideologia ufficiale della Repubblica allorché, a partire dal Trecento, ma già nel solco di una consolidata tradizione, proclamava che Dio e Venezia erano tutt'uno, sicché chi si opponeva a Venezia si opponeva a Dio, ed era destinato a sicuro fallimento (durum est contra stimulum, idest contra divinam potentiam calcitrare, ammoniva, in avanzato Trecento, il cronista Raffaino Caresini); che Venezia era come la Chiesa di Roma (difatti la navicula di Marco, esattamente come quella di Pietro, fluctuare potest, sed non mergi) (3); e che quindi era compito dello Stato comportarsi anche "da Chiesa" (ad esempio provvedendo a "educare" il clero, a "infervorare" i vescovi, a difendere la "religione" e la "verecondia", insomma a custodire a vantaggio di tutti "le leggi di Dio" non meno di "quelle del Principe") (4). Nessuna sorpresa, pertanto, che fin dal tardo Medioevo il cattolicesimo veneziano fosse considerato, oltre che "un complesso di dogmi e tradizioni", soprattutto una realtà costitutiva dello Stato, "un elemento fondamentale per la società dei patrizi" (5). Ciò che è mancato, piuttosto, è stato lo sforzo di storicizzare più a fondo il ruolo della religione, che non può essere considerato uguale a se stesso in tutte le epoche, neppure per i secoli del pieno Stato lagunare. Già in una prima indagine dedicata all'età medievale si è potuto appurare che una cosa fu la religione privata e domestica delle grandi famiglie ducali anteriori al Mille, e un'altra la religione scaturita dalla società, anzi dal ceto mercantile in ascesa (quello che ispirò, verso il 976, la primitiva Translatio sancti Marci, e poi "inventò" un suo santo autonomo, Nicola); che una cosa fu la religione di un'aristocrazia fondiaria in declino (quella che si riconobbe nel culto del protomartire Stefano ai primi del XII secolo), e un'altra quella del vincente comune che rilanciò s. Marco come patrono, accanto ad altri santi importati dall'Oriente, dell'intera comunità cittadina (6).
Resta ora da chiedersi che cosa ne fu, appunto, del ruolo della religione alla fine del Duecento, nel periodo in cui, convulsamente se non traumaticamente, l'istituto comunale andò declinando per lasciar posto al nascente Stato patrizio, ossia come si trasformò la cosiddetta "religione civica" intesa come "complesso di fenomeni religiosi - cultuali, devozionali o istituzionali - condizionato dai pubblici poteri". Forse anche Venezia - un centro che più di altri amò rivendicare tanto la sua autonomia dalla Chiesa quanto il monopolio della gestion du sacré - può essere assunta come caso emblematico per saggiare uno dei problemi oggi più discussi per l'Occidente del tardo Medioevo, vale a dire se il crescente affermarsi delle istituzioni civili al di sopra e a scapito di quelle religiose comportò un fatale processo di secolarizzazione (un primo passo verso l'affrancamento dello Stato, del "mondo moderno", dalla Chiesa), o non piuttosto, come già si è prospettato per la nascente nazione francese, un eccesso di sacralizzazione (7).
In ogni caso occorre riflettere meglio sulla sempre asserita peculiarità di Venezia, l'unica città di cui sia stato scritto che ha "per pavimento il mare e per tetto il cielo" (8). "Cielo" - si può chiosare - nel senso astronomico di "volta celeste", o nel senso metaforico di "luogo di Dio" (9)? Certo, se Boncompagno da Signa avesse voluto dire che Venezia non aveva altro o altri al di sopra di sé se non il "luogo di Dio", e che quindi era usa a confrontarsi direttamente, senza mediazioni di sorta, con lo stesso Dio, anche il tema della religione civica assumerebbe risvolti nuovi. Ci si potrebbe chiedere, ad esempio, chi poteva arrogarsi, in Venezia, la funzione di portavoce o di interprete autentico di Dio: un gruppo di devoti - volendo fare un solo esempio - che liberamente e solidalmente si riuniva in fraternita (come accadde soprattutto a partire dal 1258), o il pubblico potere che sulla fraternita vigilava come su una potenziale forza eversiva e che a partire dal 1310 la affidava al controllo del consiglio dei dieci (il quale nel 1360 vietò l'erezione di qualsiasi nuovo sodalizio senza sua espressa licenza) (10)?
Religione civica può dunque voler dire anche un Dio diviso: da un lato la religione del potere e dall'altro la religione della società, o di frange consistenti della società. Una ragione in più per guardare con occhio diverso, più problematico, al dinamismo religioso, o almeno a certi aspetti di questo dinamismo, del primo secolo dello Stato veneziano.
Si può assumere, come punto di partenza, il fatto - già più volte segnalato ma non ancora abbastanza esplorato (11) - dell'apparizione quasi improvvisa - e coeva al moto dei Flagellanti che da Perugia si diffuse in varie città d'Italia e d'Europa - di un manipolo di fraternite laiche: il primo statuto, quello di S. Teodoro, è del maggio 1258; il secondo, di S. Maria della Carità, del dicembre 1260; il terzo, di S. Giovanni Evangelista, del marzo 1261; il quarto, di S. Maria della Val Verde, dello stesso anno. A parte gli aspetti più precisamente penitenziali che lo connotano - la coscienza del "mondo" vano e spregevole, del "misero homo" che pecca, dell'indigenza di fondo che attanaglia tutti gli esseri (12) - e la peculiarità del ricorso alla mediazione della Vergine - l'Ave Maria è la preghiera prediletta -, del resto normale in anni di forte presa mariologica per l'Occidente cristiano (13), ciò che più colpisce in esso è l'idea che la fraternita sia intesa come parte di un sistema unitario in cui tutto armonicamente si tiene: Dio, la Madonna, gli apostoli, il papa di Roma con i suoi fratres (dovrebbero essere i vescovi, più che i cardinali), il doge e il comune di Venezia; ossia l'intera corte celeste, la gerarchia ecclesiastica e quella civile (14). Tutto ciò fa pensare a una religione certamente turbata ma viva, e anche socialmente e politicamente condivisa, per nulla eco di fratture in atto tra ordines o partiti o tra governanti e governati. Del resto, un quadro analogo, e anzi ancora più roseo, dipingeva quasi negli stessi anni il cronista Martino da Canal quando celebrava i Veneziani in quanto parfit a la foi de Jesu Crist et obeissant a sainte ϒglise e pronti a sacrificarsi tanto au servise de sainte ϒglise quanto au servise de sa noble cité (15). Eppure, circa mezzo secolo dopo, qualcosa, anzi molto, sembra irrimediabilmente cambiato.
Alludo a uno scritto di Iacopo Bertaldo - un prete-notaio che fu cancelliere ducale a partire dal 1298 e dal 1313 vescovo di Veglia - in cui si parla sì di una Venezia religiosa, pia, popolata di infinite chiese secundum singulas devociones, tra cui quel gioiello unico al mondo che è S. Marco, insomma di una città dove tutti, puri ac caritate pleni, vivevano osservando scrupolosamente le sacre leges e amandosi a vicenda, ma in cui anche si fa nettamente intendere che tale città non esisteva più: ormai, a causa di più generali mutamenti intervenuti, la libertas ecclesiastica soccombeva all'invadenza laica; i più, dopo aver lasciato la via iusticie, lucis et veritatis, camminavano in tenebris et umbra mortis; e insomma la pietas solidale non era più che un mesto ricordo (16). Sfogo amaro ci si può chiedere - di un vecchio ecclesiastico, di un inguaribile laudator temporis acti? Si trattasse di una voce solitaria, la risposta sarebbe inequivoca; ma c'è il fatto che ancor prima di Iacopo Bertaldo ben altri avevano dato segni che il compatto sistema religione-città mostrava crepe o stava per cedere.
Nel 1292 compare un certo Marco - non si sa di lui altro che il nome - che vorrebbe narrare a sua volta, come i cronisti precedenti, specie Martino da Canal, le storie della città, ma poi finisce per approdare, nello stile degli autori mendicanti, alla storia santa: il primo libro della sua Cronica si apre con la creazione del mondo e un rapido accenno alle sei età (l'ultima delle quali, quella inaugurata da Cristo, dovrebbe durare usque in consumacionem seculi); continua dando molto più peso alle vicende ecclesiastiche di Venezia che a quelle civili, e si chiude con il dramma del regnum cristianitatis diviso tra il sommo pontefice e l'imperatore: un dramma che lo induce a denunciare la corruzione del clero, l'eclisse dello spirito del Vangelo, della ecclesie primitive forma, e a meditare sui tanti mali presenti: homicidia, adulteria, fornicaciones, furta, falsa testimonia, blasphemia; hec sunt que inquinant hominem. Era insomma venuto il momento dell'Anticristo, che si vedeva incarnato e operante in chiunque - chierico, laico o anche monaco - contra iusticiam vivit e contro ogni regola, e al quale sarebbe seguito fatalmente il dies iudicii (i segni che lo preannunziavano erano almeno quindici).
Ma allora se Marco, che era partito per scrivere la storia felice di Venezia, questa storia dimentica e quasi uccide nel quadro ossessivo di una tragedia universale dove tutto o quasi è negativo e dove nient'altro resta che attendere impotenti una liberazione che viene dall'alto, vuol dire che davvero s'era fatta strada l'idea che la salvezza del credente non coincideva più con quella del cittadino e che la religione s'era ormai estraniata dalla città (17). E si affacciava di conseguenza anche un sospetto tragico: che in conseguenza del male dilagante Dio avesse ritirato la sua speciale predilezione per Venezia abbandonandola al suo destino.
È quanto risulta da un testo di solito trascurato, la Consolacio Venetorum et tocius gentis desolate, che Raimondo Lullo, uno dei più fecondi autori dell'epoca, scrisse nel 1298, subito dopo la sconfitta subìta dai Veneziani a Curzola a opera dei Genovesi. In esso viene contestata l'idea di un aristocratico di Venezia, Pietro Zeno, secondo il quale la débâcle era da attribuirsi alla sfortuna, all'intervento diabolico, non certo alla volontà di Dio, per il semplice fatto che "Dio non vuole il male e anzi predilige gli uomini che sono buoni e umili" (cioè i Veneziani).
Invece, ribatte il Lullo, bisognava rassegnarsi: è sempre la voluntas di Dio a decidere tutto, qui permisit quod permisit, e quindi anche le disgrazie, quod Veneti essent devicti; e Dio decide in base ai meriti o ai demeriti di tutti, senza privilegiare alcuno. Come a dire: basta con la pretesa di Venezia di avere il monopolio di Dio, di incarnare Dio nel mondo; Dio non poteva trattare i Veneziani diversamente da tutte le sue creature: con il premio se operavano il bene, con i castighi se peccavano.
Ma qui non importa tanto l'opinione del Lullo quanto la reazione dello Zeno, ossia di un personaggio rappresentativo dell'establishment lagunare, che si ostina a rifiutare l'evidenza, non ammette "colpe" a carico della propria città, continua a pensare a un Dio partigiano, filoveneziano; e non trovandolo chiama in causa la fortuna, gli astri, il diavolo. Segno ulteriore di uno sbandamento, di uno sconcerto, che va al di là del caso individuale, e testimonia della sensazione di un Dio tutt'altro che presente e amico, bensì ormai lontano se non avverso alla città (18).
In effetti, negli stessi anni, un altro veneziano che proprio a seguito della sconfitta di Curzola si trovava recluso in un carcere di Genova, Marco Polo, dimostrava di pensarla proprio come il Lullo. Dettando un libro "dove si raccontano le meraviglie del mondo", così giustificava la sconfitta incontrata dal cristiano Najam ad opera del gran khan: Dio non protegge i malvagi, anche se cristiani (19). Detta da un veneziano, ossia dal figlio di una tradizione che si ostinava a ragionare in termini di appartenenza (l'essere o meno cristiani, anzi cristiani di Venezia) piuttosto che di merito (vivere o meno secondo Cristo), si tratta - bisogna convenirne - di una sentenza sorprendente, oltre che per niente purely mundane (20). E nello stesso libro c'è anche dell'altro: soprattutto l'idea che Dio non può guardare a una sola città perché la sua azione ha per teatro l'immenso mondo, e s'incarna in religioni, civiltà e regni talmente vari e grandiosi che di fronte ad essi Venezia, pur con tutta la sua identità "cattolica", scompariva come un punto trascurabile dell'universo (21).
I cristiani di Venezia dovevano insomma prender atto che non bastava essere Veneziani per trovarsi automaticamente Dio schierato dalla loro parte, e che esistevano anche gli altri, i non-Veneziani, cui Dio poteva talora concedere la sua predilezione.
A pochi anni dal libro di Marco Polo, un mendicante veneziano, il minorita Paolino, scrivendo una gigantesca opera - la Historia satyrica - che cominciava dalla creazione del mondo per giungere, attraverso tutte le aetates e gli imperi conosciuti, sino ai tempi recenti, ribadiva sul piano della narrazione storica la stessa idea: e cioè che l'azione di Dio nel mondo non aveva limitazioni o confini, e si poteva riconoscere ovunque, presso chiunque e in tutte le epoche, sicché Venezia finiva per apparire null'altro che una "tessera", e per nulla privilegiata, nel grande mosaico della storià universale (22).
Ma allora se Dio poteva operare anche fuori di Venezia, anche là dove stavano i nemici di Venezia, non era più vero che Dio, il papa, i vescovi, il doge, il comune di Venezia erano tutt'uno: le strade e i disegni di Dio potevano non coincidere - e di fatto talora già non coincidevano - con quelli di Venezia; anche il papa e gli stessi vescovi lagunari potevano entrare in urto - di fatto accadeva - con il doge e il comune di Venezia. Basti un solo esempio: in una lettera del 29 maggio 1307 Clemente V lamentava che il doge di Venezia avesse disposto di vescovadi di Creta in spregio della libertas Ecclesiae; e si appellava al patriarca di Grado e al vescovo di Castello perché dicessero ai governanti veneziani che se avevano buon senso, se davvero amavano Dio e la Mater Ecclesia da figli devoti, dovevano recedere nel giro di sei mesi (23).
Non conta qui tanto l'esito della vertenza quanto l'evidenza che agli occhi di tutti ne discendeva: ossia che gli interessi di Venezia da un lato e quelli di Dio e della Chiesa (papa e vescovi) dall'altro divergevano fino a scontrarsi. Ovvero, il rapporto con Dio, con la stessa Chiesa diventava arduo, problematico, fonte di disagio e d'incertezze, perfino di lacerazioni. Era in gioco la sopravvivenza, e comunque un adattamento radicale, della stessa religione civica.
Si dà per scontato che la costruzione dello Stato regionale non risparmiò la religione della città, nel senso che questa divenne tutt'uno con i dominatori dello Stato, con il "Principe" (riducendo o escludendo, come prima conseguenza, il raccordo con il papato) (24). Anche perché i pubblici poteri, trovandosi di fronte a una Chiesa locale fortemente radicata nella società, "alla forza delle sue istituzioni e delle sue ricchezze", e più ancora alla sua capacità di presa sulle coscienze, non potevano "fare a meno di cercare ora di disciplinarla e contenerla, ora di utilizzarla" (25).
Non sono sicuro che un'idea di Chiesa come precedente per molti versi anomalo rispetto allo Stato, come inciampo che lo Stato doveva comunque circoscrivere e possibilmente rimuovere, esaurisca del tutto la vicenda della religione civica: tanto meno per una città come Venezia, dove semmai lo Stato già più volte aveva dato prova, e anche in seguito la darà (come vedremo), di voler farsi a sua volta Chiesa, e comunque di voler convivere in pace con la Chiesa stessa. Epperò il problema si pose anche a Venezia: anche per i governanti lagunari si profilò l'alternativa se dare spazio al modello del principe-monaco (alla Pietro Orseolo), o del "re dei frati" (alla san Luigi), ossia a un potere in tutto ligio alla Chiesa (la Chiesa, si ricordi, dei tempi di Bonifacio VIII e dei papi di Avignone), oppure se farsi "moderni" - un termine che ricorre ormai di frequente nella cultura del tempo (26) - come Filippo il Bello o Ludovico il Bavaro e accedere, in nome dei diritti dello Stato, a una conception antisacerdotale, e insomma anti-Chiesa, della religione (quella presto teorizzata da contestatori radicali come Marsilio da Padova e Guglielmo d'Ockham) (27).
Fu quando, nel 1308, la Repubblica, volendo a tutti i costi impadronirsi di una città come Ferrara il cui controllo interessava al papa, affiancato per l'occasione da una quantità di forze dell'Alta Italia, si trovò colpita da scomunica, reiterata l'anno dopo con l'aggravante di una crociata bandita a suo danno (la rappresaglia colpì subito molti mercanti veneziani in viaggio, che furono sia privati dei loro beni sia venduti come schiavi) (28). Allora il dibattito che si accese rovente dentro i consigli - anche se non fu quello immaginato da troppo tardi cronisti (29) - divenne per forza un dibattito sulla religione civica: da un lato, i fautori della "patria", per i quali il controllo di Ferrara era irrinunciabile, e dall'altro i fautori della Chiesa, per i quali una "patria" schierata contro il papa era destinata a sicura rovina. In effetti era la prima volta che si poneva concretamente il problema se lo Stato potesse avere un suo futuro anche senza la Chiesa di Roma, con una religione gestita da un clero di Stato e comunque allo Stato totalmente ligio (30).
Il fatto di enorme rilievo fu che prevalse l'idea dello scontro diretto con il papato, ossia di un progetto di Stato che poteva anche prescindere dalla Chiesa, con tutti gli adattamenti per la religione civica che da subito s'imposero (ad esempio, il clero costretto ai riti nonostante l'interdetto) (31). Ma di pari rilievo fu quanto ne seguì: dapprima una sconfitta militare catastrofica, e poi la rivolta interna, la cosiddetta "congiura" di Baiamonte Tiepolo, cui aderirono parecchi membri del clero (almeno ventitré, tra cui un canonico e nove pievani) (32) e tanta parte del popolo (non s'era affatto logorata sulla laguna quell'alleanza Chiesa-popolo, che a partire dalla seconda metà del Duecento aveva cambiato la storia d'Italia) (33).
In altri termini, la scelta di fondare lo Stato in totale autonomia dalla Chiesa di Roma incontrava così aspre resistenze da mettere a rischio l'unità dello Stato stesso. E ne metteva a rischio anche la sicurezza, giacché mai come in questo periodo Venezia apparve così invisa agli occhi del mondo: un vescovo al seguito di Enrico VII notò che tutte le città italiane giurarono fedeltà all'imperatore allora in Italia; tutte, tranne Venezia (e Genova), e ironizzava: forse si ritengono al di sopra di tutti, de quinta essentia, e "non intendono riconoscere né Dio né la Chiesa né l'imperatore né il mare né la terra", nisi quantum volunt (34).
Il che convinse il governo a recedere gradualmente dalla sua scelta cercando un rapporto meno traumatico con le potenze di allora, specie con il papato, e con esso un ricupero di consensi tra il clero e i cattolici della laguna. Ne può essere segno il trattamento riservato al doge Pietro Gradenigo - l'artefice primo della "Serrata" e della rottura con la Chiesa - quando venne a morte, forse per avvelenamento, il 13 agosto 1311.
Di solito la morte di un doge, come dei grandi principi, si traduceva in una conferma solenne della religione civica, nel senso che l'intero apparato del pubblico potere si esibiva al cospetto del popolo per raccogliere, attraverso gli omaggi di rito resi al defunto, i dovuti consensi (35). Ma nel caso specifico tutto questo mancò: non ci furono pompe funebri e il corpo fu portato senza onori al monastero di S. Cipriano di Murano - dunque presso i monaci, come nei tempi antichi, non presso i frati Predicatori, come accadde ai Tiepolo nel corso del Duecento e come tornerà di moda per i dogi del tardo Trecento (36) - e colà sepolto dentro la chiesa, in disparte, in una tomba anonima. Si è detto: a causa della persistente scomunica papale che automaticamente sospendeva ogni liturgia; ma non è esatto: il governo imponeva i riti, quando voleva, anche in tempo di scomunica. Quindi si può pensare: a causa delle "deviazioni" del doge, reo di aver concepito uno Stato senza Chiesa (o solo con una Chiesa a lui prona) (37), certo avverso ai frati Predicatori, o comunque da loro non amato (sembra avessero, a causa dell'interdetto, lasciato la città) (38), e quindi chiamato a espiare per tutti (39). I funerali senza pompa si configuravano insomma come una specie di penitenza pubblica, una modalità per purificarsi da una colpa e insieme annunciare il ritorno a uno stato di grazia, quello che prevedeva una comunità benedetta dal papa, di nuovo in pace con Dio e con la sua Chiesa.
Sintomo di questo nuovo orientamento in atto mi sembra anche ciò che accadde all'indomani delle esequie del doge sconfessato: il successore regolarmente designato dal corpo degli elettori, Stefano Giustiniani - un personaggio illustre sia per famiglia sia per le tante cariche ricoperte - rifiutò la nomina e si fece monaco nel cenobio di S. Giorgio. Si tratta di una "fuga" che, oltre a richiamare a remoti precedenti (non era forse inattuale il modello di Pietro Orseolo il santo), testimonia di uno squilibrio in atto tra religione e politica, anzi di una rivincita della religione sulla politica, quasi che il dedicarsi al governo dello Stato fosse divenuto il "meno", o addirittura un inciampo, rispetto al "più" costituito dal collocarsi nel monastero, fuori del mondo e al cospetto di Dio.
Non sorprende più di tanto perciò che gli elettori, non poco turbati dal fatto, lo interpretassero come un invito a sanare lo squilibrio risacralizzando il vertice dello Stato: la loro scelta cadde su un uomo che era soprattutto noto per la sua pietas verso Dio, verso la Chiesa e verso i prediletti della Chiesa che sono i poveri e bisognosi - l'ideale per ricucire i rapporti con il papato -, insomma su un uomo che era l'opposto del Gradenigo, Marino Zorzi.
Il quale, nel corso dei non molti mesi in cui rimase in carica, confermò ampiamente la sua fama di uomo "devoto": si era convinto - se ben interpretiamo uno degli atti di governo da lui lasciati - che era possibile glorificare Dio in omni statu, quindi anche facendo il doge, e che perciò era suo compito fare la volontà di Dio con tutte le forze e i poteri di cui disponeva (viribus etpotentia nostra); anche se, confessava, non è facile, quando si è colpiti da disgrazie, capire i disegni di Dio: di un Dio che spesso permette alla fortuna (ancora la "fortuna"!) di premiare i malvagi, magari per poi castigarli di più (ut fortius eos ledat) (40). E dallo stesso atto risulta un altro aspetto che da solo serve, se non m'inganno, a cogliere le "intenzioni" di cui lo Zorzi non faceva mistero al momento di assumere - egli, uomo di Dio - il governo dello Stato: sarebbe stato il doge della pace, della concordia, della riconciliazione: semper, cum quibuscunque, quocunque modo facta procedant; perché quello era il mandato di Dio, ed egli era un servo fedele. Lo dichiarava, si noti, a pochi mesi dalla morte del Gradenigo, come per segnare un distacco netto dal suo dogado, che fu marcato, invece, come si sa, da troppe guerre esterne e da laceranti conflitti civili, e anche - è come se lo dicesse - da una specie di distacco da Dio, volendo far capire quello che viceversa egli sarebbe stato: un "padre che ama i suoi figli", uno che teneva le mani tese verso tutti (verso gli Stati per arrivare a una convivenza pacifica, verso i cittadini per ritrovare l'armonia perduta), un uomo di Dio la cui mente era sempre fissa in Lui, perché compito del doge è quello di glorificare Dio (lo Stato, dunque, attraverso il suo doge, ritornava a Dio) (41).
In effetti, al tempo dello Zorzi, Venezia lasciò da parte ogni superbia riavvicinandosi all'imperatore; cercò in tutti i modi, pur senza successo, una composizione con le città dalmate ribelli e con il re d'Ungheria che le proteggeva; ristabilì buoni rapporti con Padova (42), fece ritornare i Predicatori in S. Zanipolo (43). Ossia, il nuovo doge si era provato davvero a essere con tutti, ovunque, nonostante tutto, un uomo di pace: anche e soprattutto con la Chiesa.
Purtroppo, le memorie sullo Zorzi non hanno abbastanza evidenziato l'uomo politico, preferendo insistere soltanto sull'uomo pio, protagonista di importanti atti di pietà: la fondazione, nel 1311, della chiesa e convento di S. Domenico, che rinforzò la presenza dei Predicatori sulla laguna, e l'istituzione per testamento di un ospizio per bambini e fanciulli pauperes et indigentes di entrambi i sessi (una specie di asilo infantile) (44). E su questo piano, magari, avrebbero anche potuto dire di più: ad esempio, che con lui la vita religiosa cittadina ebbe forse un risveglio, come sembrano indicare le sortite notturne di compagnie di Battuti, che erano diventate un problema di ordine pubblico (45). Ma sarebbe più giusto, invece, guardare allo Zorzi totale, uomo di Dio e nel contempo uomo di Stato, che appunto, per intuizione propria o più facilmente (come sembra provare un documento iconografico) (46) perché influenzato dai "suoi" frati Predicatori e dalla loro ideologia del "buon principe", tentò di ricostituire l'antico nesso tra politica e religione, riportando lo Stato, dopo la scelta dirompente del Gradenigo, in pace con Dio e in sintonia con la Chiesa (anche se non riuscì a ottenere, come tanto sperava, la liberazione della città dalla scomunica).
In effetti, lo Zorzi, pur essendo stato doge per poco (morì il 3 luglio 1312), lasciò una traccia precisa dietro di sé: la sua linea di governo, antitetica a quella del Gradenigo, rimase immutata, e fu fatta propria dal successore. Non per nulla giunse ben presto, nel corso del 1313, la liberazione dalla scomunica. E il ritorno tra le braccia della Mater Ecclesia (è la formula che il papato usava rivolgendosi agli Stati-figli) è tanto più significativo se si osserva che avveniva in anni in cui non pochi Stati della cristianità, anche assecondati dalle rispettive Chiese, andavano a gara nel separarsi dallo stesso papato e nel delegittimarlo; e in cui perfino sulla laguna il vescovo di Castello Iacopo Albertini (un toscano di Prato) si ribellò alla Sede Apostolica aderendo all'imperatore Ludovico e al suo antipapa (47).
Ma Venezia, dopo la "deviazione" del Gradenigo, aveva scelto di nuovo di stare con la Chiesa di Roma, di esserne la figlia prediletta, di assumerne come propri gli obiettivi istituzionali: praesertim circa extirpationem haeresum et schismatum ac ampliationem catholicae fidei, come riconoscerà nel 1373 - in sintonia con lo stesso governo veneziano, allora più che mai convinto, come vedremo, del proprio ruolo di difesa fidei catholice et Matris Ecclesie - Gregorio XI (48). Anche se tutto ciò - in rapporto ai bisogni del nascente Stato patrizio, che erano ben diversi da quelli del vecchio comune - comportava scelte religiose e di politica ecclesiastica in gran parte nuove, o da elaborare in termini nuovi.
Andrea Dandolo, il doge-cronista, certo una delle figure più rappresentative del patriziato della prima metà del Trecento, così stigmatizzò nella Brevis, la prima cronaca da lui scritta nel 1342, il colpo di stato di Baiamonte Tiepolo e dei suoi complici: volevano "strappare l'inconsutile tunica del Signore" (Domini tunicam inconsutilem scindere) (49). Si tratta di un accostamento audace - la passione di Cristo e la passione di Venezia; i malvagi che offendono Cristo e i malvagi che offendono Venezia - che merita qualche riflessione nella misura in cui si può credere specchio non tanto dell'atteggiamento di un singolo individuo quanto della città, del suo stesso ceto dirigente. Sotto questo profilo già la Brevis presenta elementi significativi.
Ad esempio, fin dal proemio la nascita del ducato è attribuita non già al merito di uomini, bensì a un felice intervento di Dio (ex suis laudabilibus operacionibus noscitur processisse); e ciò nello stile e nei termini, che risultano addirittura più accentuati, delle vecchie cronache cittadine quali la Historia ducum, come se di mezzo nulla fosse cambiato nella riflessione politica in materia di Stati e di nazioni. Addirittura, tutta la storia di Venezia - principium, progressus et consumatio - è collocata sotto il segno di Cristo in quanto "re dei re e signore dei signori", "grande re" super omnes deos (50).
Il rinvio alla regalità di Cristo serve al Dandolo per fondare l'autorità dei duchi: era Dio stesso che li aveva costituiti quando promise ai Veneziani che avrebbe loro dato caput unum e che in mezzo a loro ci sarebbe stato princeps unus (51). In quanto "uomini di Dio", gli stessi duchi erano destinati a operare, a vantaggio del loro popolo, grandi cose, cose prodigiose, magnalia opera. E non importa che poi il Dandolo sia costretto a registrare un solo duca davvero degno di questo ruolo, Pietro Orseolo, il quale avendo saputo vivere e morire santamente fu protagonista di multa miracula (però la fonte di cui il Dandolo si serve, il diacono Giovanni, non parlava di miracoli), giacché non pochi duchi tradirono il loro mandato finendo puntualmente puniti dal popolo (interprete fedele della volontà di Dio).
Qui il vero dato significativo e anche sorprendente sembra essere che il Dandolo, in pieno Trecento, quando l'idea della "laicità" dello Stato aveva già fatto passi da gigante - lo stesso Cristo, aveva scritto Marsilio, rex regum et dominus dominancium, lungi dal volere per sé e per i suoi alcun potere, si sottomise principibus et seculi potestatibus (52) - continua a pensare in termini sacrali, e quindi a considerare Venezia come una creatura voluta da Dio e il doge come un principe direttamente da Dio costituito per la salvezza del suo popolo (53). Ma è solo apparenza, in quanto il doge-cronista, per la stessa forma in cui esprime il suo pensiero storico, risulta pienamente in linea con la riflessione politico-religiosa del suo tempo: il passo dell'Apocalisse da lui evocato - quello che mostra l'Agnello vittorioso "perché è signore dei signori e re dei re" (54) - era allora, appunto - come dimostra anche il sopracitato passo di Marsilio -, al centro del dibattito tra curialisti e regalisti quando si discuteva che senso avesse mai la regalità di Cristo, se era solo spirituale o anche temporale, e se a mediarla in questo mondo avesse titolo solo il papa in quanto unico vicario di Cristo o non anche ogni governante che della stessa regalità di Cristo partecipava in quanto designato dal popolo (55). È quindi su questo versante che si può meglio misurare, approfondendo l'analisi della Brevis, l'apporto del Dandolo.
In questa cronaca, dove pure forte è l'orgoglio patrio (il doge Giovanni Dandolo è lodato in quanto de patrie libertate et honore assidue recogitans), fortissima è anche l'idea del necessario collegamento con la Chiesa di Roma. Alla quale i dogi "cattolici" prestano qualificanti "servizi" in più occasioni: quando c'è da combattere il Barbarossa, quando c'è da strappare Ferrara al dominio di Salinguerra o Padova dal dominio di Ezzelino, quando c'è da organizzare una crociata contro i Turchi (in quest'ultimo caso si distinse, çelo fidei catholice, Francesco Dandolo) dalla quale ottengono grandi privilegi: ad esempio, lo sposalizio del mare in signum universalis dominij, l'uso della mitra e del baculum pastorale in favore del primicerio di S. Marco, la devoluzione in favore del comune dei beni degli eretici (56).
In altri termini il Dandolo non sembra concepire lo Stato se non in rapporto - un rapporto felice, pacifico, costruttivo nel reciproco vantaggio - con la Chiesa. Un rapporto che gli interessa al punto da filtrare abilmente le notizie ad esso relative: passa sotto silenzio, quando può, i dissidi con la Chiesa (come quando narra della quarta Crociata); e quando non può, ne fa quasi un dramma (del dogado di Marino Zorzi annota soltanto: "al suo tempo, a causa del possesso di Ferrara, la provincia dei Veneziani in excomunicatione permansit"), e non vede l'ora di darli per risolti (di Giovanni Soranzo successore dello Zorzi si affretta a dire: absolucionem excomunicationis a Clemente sumo pontifice obtinuit) (57).
Ecco, dunque, come si può ricostruire, sulla base della sola Brevis, la posizione del Dandolo in rapporto al dibattito sui poteri allora in corso: per lui la regalità di Cristo era certamente anche temporale oltre che spirituale; il papa di Roma, in quanto vicario di Cristo, ne era il mediatore primo, seppure non unico e solitario; anche il doge di Venezia, in quanto a sua volta costituito da Dio, partecipava della stessa regalità e la mediava - e doveva mediarla - in armonia con il papa, a vantaggio del suo popolo. In sostanza il Dandolo, che non sapeva staccarsi dalla Chiesa, che non riusciva a concepire il potere se non in termini sacrali e perfino sacerdotali, proponeva una soluzione media, compromissoria tra le posizioni estreme allora in antitesi: né curialista al punto da negare ogni autonomia allo Stato laico, né regalista al punto da negare ogni ruolo della Chiesa dentro lo Stato. E tutto ciò nell'intento di pacificamente comporre la tradizionale libertas di Venezia con l'altrettanto tradizionale fedeltà all'unica Chiesa cattolica.
Alla luce di tutto questo, l'accusa rivolta ai congiurati del 1310 - di aver voluto "strappare l'inconsutile tunica di Cristo" -, assume un significato più pregnante. Per l'esegesi medievale, specie per quella di Gregorio Magno da secoli universalmente recepita da clero e popolo, e di certo familiare anche a Venezia, la tunica di Cristo, in quanto inconsutile - ossia un panno unico, privo di cuciture (58) -, null'altro era che il corpo storico di Cristo, cioè la Chiesa, la cui unità e indivisibilità doveva essere preservata a ogni costo dall'assalto degli eretici che volevano appunto strapparla, lacerarla (59). Evocare la tunica voleva dire pertanto procedere a una doppia assimilazione: quella dei congiurati agli eretici e quella dello Stato alla Chiesa. Per il Dandolo, chiaramente, anche lo Stato veneziano era tunica inconsutile, corpo storico di Cristo, Chiesa. E l'accordo con la Chiesa di Roma - la vera tunica inconsutile, la vera custode della verità contro l'eresia - poteva essere fondato, si può pensare (il Dandolo non lo dice), sulla parità di natura e di fini (tanto la Chiesa quanto Venezia erano nate da Dio e vicarie di Cristo; entrambe erano al mondo per portare la stessa verità e per salvare la stessa umanità).
Incredibile: Dio, Venezia, Cristo, la Chiesa, la tunica inconsutile, lo Stato-Chiesa, la missione salvifica. Il Dandolo - un interprete quasi ufficiale dello Stato patrizio - esordiva con atteggiamenti religiosi che, lungi dal concedere qualcosa alla "modernità", ancora riflettevano, almeno in parte, un'ideologia di altri tempi, quelli di Martino da Canal, quelli dell'autore della Historia Ducum, con in più la novità della Venezia come altera Roma, tunica inconsutile non meno della Chiesa del papa. Ma come potevano teorie siffatte trovare spazio e incarnarsi nella normale pratica di governo di uno Stato, come quello veneziano, coinvolto nelle tante "crisi" del pieno Trecento?
Pochi mesi dopo che il Dandolo aveva scritto la Brevis, ai primi del 1343, le grandi famiglie patrizie, non riuscendo ad accordarsi sul nome di un candidato vecchissimo (annosus) da eleggere a doge, ripiegarono su di lui che era, al contrario, molto giovane per la carica cui era chiamato (meno di quarant'anni). Andrea Dandolo, colui che era solo noto come giurista (aveva anche composto una Summula statutorum floridorum), cronista (l'autore della Brevis, appunto), fors'anche biblista e teologo, insomma come "intellettuale", uomo di studio e di pietà, era il nuovo doge.
Che cosa si aspettassero, i grandi elettori, da un doge così, è difficile dirlo; ma un fatto sembra certo: egli si rivelò tutt'altro che grigio o arrendevole, o soltanto uomo di studio e pio; e anzi impresse una spinta tanto inaspettata quanto proterva per il rinnovamento dello Stato patrizio nel senso - non certo propizio per l'oligarchia dominante - di un ricupero del potere dogale, della capacità legiferante del maggior consiglio, e perfino di un raccordo con la base popolare, quasi volesse far rinascere l'antico binomio doge-popolo, con in più la mediazione dell'intero patriziato (60). Orbene, quale poteva essere, su questa base - una base che lo portò, sia detto subito, a scontrarsi con tutti, a scontentare tutti, finendo stremato, distrutto, pur con "la coscienza di avere bene agito" (61) -, il suo atteggiamento verso la Chiesa?
Nella nuova grande cronaca, la cosiddetta Extensa, composta durante gli anni del dogado, il Dandolo così chiosò, quasi trionfalmente, l'atto - che trovava già "depravato o interpolato", o che lui stesso fece "correggere" al momento di trascriverlo - con cui un vecchio doge trasferì a S. Ilario i monaci di S. Servolo: ecco la prova dell'esistenza ab antiquo di una ducalis iurisdictio super clericos (62). Che cosa intendeva dire il Dandolo, che la Chiesa, anche a Venezia, doveva essere soggetta in tutto e per tutto allo Stato, nei termini già ampiamente illustrati dalle dottrine regaliste del suo secolo?
L'interrogativo non è per nulla azzardato. Nel dicembre del 1352, un suo fidatissimo collaboratore e amico, il cancelliere Benintendi Ravignani, presentando ufficialmente la Cronaca al governo e alla cittadinanza, non trovò di meglio, per lodare l'Autore, che esporre a lungo, per circa un terzo della lettera, le accanite convinzioni regalistiche da lui dimostrate in servandis et ampliandis iuribus et honoribus patrie: messosi a indagare, racconta, su quando i duchi avevano cominciato a concedere l'investitura ai prelati del Dominio, trovò le prove che la consuetudine era non solo antichissima, ma anche molto più ampia giacché i duchi, oltre che investire, anche eleggevano e confermavano gli stessi prelati, esigendo per giunta da loro, come facevano con i laici, un giuramento di fedeltà. Solo ai tempi di Pietro Polani essa fu interrotta e sostituita, previo intervento della Romana Ecclesia, con un'altra - espressa in un rescriptum - che prevedeva la sola investitura (63).
Dunque - si può dedurre - il Dandolo non era soddisfatto dei rapporti Stato-Chiesa allora correnti; avrebbe voluto risuscitare quelli del tempo antico quando i dogi dominavano davvero sulle Chiese locali, al punto da imporre agli ecclesiastici un'obbedienza "giurata". E tutto ciò come se non avesse a sua volta giurato una Promissio che tassativamente vietava al doge in carica di intromettersi nelle nomine ecclesiastiche (64), e avesse potuto, egli, in quanto doge di Venezia, imitare principi quali Filippo IV di Francia o Ludovico il Bavaro divenuti celebri per la loro pretesa di giurisdizione super clericos (65).
Esiste inoltre anche una lettera inviata dal Dandolo ai cappellani di S. Marco e da essi registrata il 31 agosto del 1353, che mi sembra prova ulteriore di quanto il doge tenesse, con energia quasi proterva, ai propri iura sulla Chiesa, in questo caso a quelli relativi alla chiesa di S. Marco. Era successo che i cappellani di questa, dimenticando la loro vera identità di "uomini del doge", si chiamavano e si facevano chiamare "canonici", neanche fossero membri del Capitolo della Chiesa del vescovo. No, insorge il Dandolo, l'intera storia dei dogi lo vietava: era stato Giustiniano Partecipazio a ordinare che fosse costruita - in fundo ducali, iuxta palatium - la chiesa in onore di s. Marco; era stato il suo successore Giovanni a portarla a compimento e a istituirvi i cappellani; era stato Pietro Orseolo a ricostruirla dopo un incendio, e Domenico Contarini la restaurò e vi prepose un procuratore. Il doge aveva anche giurisdizione sulle "pertinenze" della chiesa di S. Marco, come la chiesa di S. Giorgio che Tribuno Memmo concesse propria auctoritate al monaco Giovanni Morosini, o come la chiesa di S. Cipriano che Vitale Michiel donò divina quadam liberalitate all'abate di S. Benedetto di Polirone. Pertanto non ci poteva essere dubbio alcuno che la chiesa di S. Marco apparteneva al doge - esse nostram - e che i suoi preti erano a tutti gli effetti cappellani del doge (dici debuisse et debere nostros proprios capellanos) (66).
Dunque, il Dandolo che scrive la Extensa, che rivendica nel 1353 il pieno possesso della cappella di S. Marco, che avrebbe voluto, a detta del suo fedele interprete Benintendi Ravignani, il possesso di tutte le Chiese lagunari e anche il controllo giurato su tutti gli ecclesiastici, sembra ben "altro" e decisamente cambiato rispetto agli anni precedenti quando, nella Brevis, insisteva su una Venezia come altera Roma, postulando felici rapporti tra Venezia e il papato. Questo Dandolo sconfessava largamente la vecchia immagine del doge di Venezia quale pilastro della Chiesa di Roma, per porsi piuttosto in linea con le posizioni "moderne" e regaliste dei grandi re transalpini. E la virata è tanto più significativa quanto più trova conferma anche nella normale prassi di governo, dove il Dandolo, almeno in certi ambiti, perseguì un'autentica svolta nei rapporti tra Stato e Chiesa.
Alludo all'ambito delicato e qualificante dell'amministrazione della giustizia. Fino ad allora i dogi erano sempre stati cautissimi quando si trattava di procedere, anche per reati comuni, contro membri della Chiesa: perché costoro, di per sé - come implicitamente riconosceva la stessa Promissio dogale -, non avevano mai giurato la fidelitas, come tutti gli homines Veneciarum, verso di loro (67); e dovevano rispondere a una "loro" giustizia. Ancora nel 1327, il doge in carica, pur potendo chiaramente gettare in carcere un frate, di nome Giacomo, del convento dei Servi di Maria, riconosciuto reo di un grave delitto (la falsificazione di lettere), preferì allontanarlo dalla città e farlo punire dal suo superiore (68). Ebbene, nel 1344, sotto il dogado del Dandolo, ci fu un giro di vite. Patriarca e vescovi della laguna si videro costretti a recepire una serie di provisiones et ordines, formulati da una commissione preparatoria la cui anima fu il Dandolo stesso, che prevedevano un più stretto controllo sulle persone in sacris: i signori di notte (la polizia di Stato) avevano il permesso di fermarle e perquisirle ogniqualvolta lo avessero ritenuto, anche di arrestarle in flagranza di reato, proprio come si faceva con i laici. L'unico privilegio riconosciuto è che, in caso di condanna alla detenzione, gli ecclesiastici dovevano scontare la pena non già nelle prigioni di Stato, ma in quelle del vescovo, che forse erano meno dure (69).
La ratio di questi provvedimenti è abbastanza intuibile: la popolazione clericale - troppo cresciuta per motivi estranei alla cura animarum (da tempo la crisi economica aveva scatenato la caccia ai benefici ecclesiastici) (70) - era diventata anche un problema di ordine pubblico (frequenti erano i conflitti - le rixae - con i laici), sicché lo Stato doveva per forza intervenire: nell'interesse proprio e anche della Chiesa stessa, che difatti non sembra abbia fatto opposizione. Ma intanto un fatto oggettivamente s'imponeva: che la dominatio laicalis - come viene chiamata nella nuova normativa - si ergeva al di sopra di quella clericalis intaccandone la tradizionale libertas. L'uomo di Chiesa finiva in prigione - per quanto prigione del vescovo - in base a una legge che era quella dello Stato non della Chiesa, dopo una sentenza che discendeva dalla iudiciaria potestas del doge non del vescovo (71), e quindi era prova lampante della sua potentia, e, nel caso specifico, della ducalis iurisdictio super clericos.
La quale iurisdictio, del resto, non mancò di farsi sentire anche in altri frangenti del dogado del Dandolo. Il 21 maggio 1347 il maggior consiglio - la grande assemblea che il doge aveva provveduto a rilanciare proprio in quegli anni come contrappeso ai gruppi oligarchici - richiamò un già esistente divieto di destinare immobili pro anima vel ad pias causas per proibire esplicitamente a sua volta la costruzione di nuove chiese e ospedali: di questi, si osserva, in Venezia già ce n'erano troppi, e anzi si doveva pensare a restaurarli invece di accrescerne il numero; ma soprattutto - ecco l'affermazione "civile", "laicale" - "era meglio" che, invece che agli ecclesiastici, domus et possessiones terre pervenirent ad nostros cives (72).
L'anno dopo, nel corso della terribile pestilenza che portò via più della metà della popolazione, e che vide fluire nelle mani del clero, non solo attraverso i lasciti testamentari ma anche sotto forma di decima sull'asse dei defunti, un fiume di beni, quel primato fu ribadito con forza: il 2 luglio del 1348 il senato sospese il versamento delle decime: perché - fu la motivazione, e se ne diede notizia anche al papa - per il ripetersi dei lutti esso si traduceva in un'autentica e intollerabile falcidia per il patrimonio delle famiglie. Con il vescovo di Castello, che era Niccolò Morosini, il governo venne poi a un compromesso; ma intanto il principio restava - e in futuro, anche con vescovi meno arrendevoli, sarebbe stato ancor più duramente applicato -: prima veniva lo Stato e poi la Chiesa; prima gli interessi dei "laici" e poi quelli del clero (73).
Dunque, davvero - lo testimonia a sufficienza anche la prassi di governo -, il Dandolo era cambiato, lasciandosi alle spalle, se mai ne ebbe, posizioni "modestamente conservatrici" (74). Nel corso di un regime che lo vide spesso sconfitto, come schiacciato da troppe sfide terribili, egli si assunse l'onere grave di rivendicare il primato dello Stato sulla Chiesa, la priorità dei laici rispetto agli ecclesiastici: proprio come succedeva in Terraferma dove i regimi forti si sprecavano ("l'Italia è piena di tiranni", scrisse Bartolo) (75), e da cui certamente giungevano influssi non solo di cultura artistica, ma anche di cultura storico-politica (76). Anzi, forse, fu proprio la scoperta di questo altro mondo, fatta con gli occhi del governante, del doge, a far definitivamente capire al Dandolo che Venezia non era più una semplice civitas - una civitas come quella dipinta nella Brevis - ma uno Stato, o meglio - per restare aderenti al lessico del tempo - un regimen, un principatus, e che perciò doveva avere una guida ben diversa: non più il "buon" doge della Brevis, ma un doge forte, potente, un vero dominator laicalis, capace di imporre il suo potere su tutti, anche super clericos.
Parecchi anni fa, leggendo la Extensa come una grande storia dei principi - principi laici e principi ecclesiastici, principi virtuosi e principi malvagi, dalle cui mani taumaturgiche dipendeva comunque il destino degli Stati e delle Chiese -, e più pregnantemente come una storia segnata dal tracollo dei massimi principi di Oriente e di Occidente di contro all'ascesa trionfale di un solo principe, il doge di Venezia, la interpretavo come l'opera cui il Dandolo consegnò il sogno ultimo della sua vita pubblica: quello di riformare lo Stato patrizio collocando al suo vertice, al posto di un pallido doge, la titanica figura di un principe (princeps in re publica). Aggiungevo poi che questo principe, dominatore in Europa e padrone della Romània, non poteva non essere - sul modello del grande Costantino, colui che amò e nel contempo governò la Chiesa - anche titolare della "sua" Chiesa, ossia princeps in Ecclesia (77). "Principe nella Chiesa" - è questo l'aspetto che ora interessa riprendere e approfondire -: significa che il Dandolo giunse a confermare e a giustificare, scrivendo la Extensa, attraverso la stringente "lezione" della storia, anche il suo acquisito "regalismo", coerente con la volontà di "possedere" e dominare la Chiesa lagunare?
Un passo che da questo punto di vista colpisce nella Cronaca - dall'Autore esplicitamente attribuito a Vincenzo di Beauvais - riguarda le origini e il fondamento dei grandi poteri. Quello del basileus di Costantinopoli nasce e si fonda solo in Dio (a solo Deo Grecorum dependet imperium). Quello dell'imperatore di Occidente ha invece un'origine e un fondamento ambigui: il papa sostiene che dipende solo da lui; in realtà l'imperatore viene eletto dai principi, e il papa lo conferma e lo consacra (nominatur ut dominus, consecratur ut non dominus) (78). Del tutto diverso il caso del doge di Venezia: viene creato dal basso, per iniziativa unanime dei Veneti incalzati dai Longobardi invasori (qua de re unanimiter decreverunt ducem sibi preesse); e dal basso, dagli stessi Veneti - ossia tribuni et omnes proceres et plebeij cum patriarcha et episcopis et cuncto clero -, riceve istruzioni vincolanti per l'esercizio del suo potere: governare il popolo, convocare la concio generale, nominare le cariche pubbliche, rendere giustizia a tutti, indire i concilia ecclesiastici e le elezioni dei prelati da parte del clero e del popolo (79).
Sia ben chiaro: nella Cronaca il confronto tra i diversi poteri è solo indiretto; ma ciò non toglie che un'origine del potere dogale così raffigurata suoni di per sé come conferma netta e inequivoca del già segnalato regalismo del Dandolo. Dirò di più: il fatto di privilegiare un potere elettivo, conferito da una universitas civium che lo controlla, richiama fuor di dubbio teorie come quelle di Marsilio che teneva all'electio di un governante non solo per costringerlo a comportarsi "conforme alle leggi" e non da tiranno, ma anche per dargli un'autorità assoluta nei confronti della Chiesa (80). Come dire: l'origine "laica", "popolare" del potere dogale addotta a fondamento della pretesa di iurisdictio super clericos.
Sennonché già un approccio anche solo cursorio ai contenuti della Extensa porta in direzione esattamente contraria: per tutta la loro storia i dogi di Venezia non fanno che apparire, e voler apparire per la loro docile dedizione nei confronti dei papi che "salvano" in più di un'occasione, - per la loro attitudine a difendere, anche a prezzo di eroici sacrifici, la causa fidei, ossia la "cattolicità" (sono sempre zelo fidei accensi) -, come i veri partners, l'autentico pilastro, della Chiesa di Roma (81). Marsilio da Padova, quando scrisse a sua volta una specie di cronaca dovendo servirsi, come del resto il Dandolo, delle approbatae historiae che trovava, non si sognò neppure di osannare il papato e i suoi alleati, e anzi, per non farlo, travestì più volte, e con una certa abilità, i fatti: ovviamente in funzione delle proprie idee (82). Dunque, il principe del Dandolo non sembra aver niente in comune con quello dei regalisti alla Marsilio. E allora di che figura di principe andava parlando?
Il fatto è che per capire più a fondo la posizione del doge-cronista bisogna affrontare, al di là dei contenuti, la questione della natura della Extensa: una grande, anonima enciclopedia del passato, priva di ratio, tranne quella, modesta, della rivendicazione del "buon diritto" di Venezia di fronte al mondo (83); oppure un mosaico di exempla scientemente costruito a illustrazione e presidio di una grande idea politico-religiosa?
Sia detto subito: la Extensa si presenta fuor di dubbio come una gigantesca storia della Chiesa dalle origini ai tempi recenti; la prima, se non erro, imponente storia della Chiesa scritta da un laico che si possa dire all'altezza di quelle lasciate dai Mendicanti. In effetti non c'è vicenda importante, o anche meno importante, della Chiesa che, a partire dai tempi di Pietro e dei primi apostoli, non venga riportata con tutto rilievo; non c'è papa che non sia diligentemente annotato, come in un nuovo, talora prolisso Liber Pontificalis (84). Non c'è vescovo celebre (come Ambrogio), o institutor di un ordine (come Benedetto o Francesco), o un predicatore, anche "negativo" (come Arnaldo da Brescia), di cui non si faccia memoria (85). Soprattutto, non c'è santo, traslazione di reliquie, miracolo famoso che non trovi puntuale, convinto e coinvolgente ricordo (86) (il Dandolo crede nei miracoli, nei corpi santi; è fiero di conoscere, in quanto doge, il luogo segreto in cui fu celato il corpo di s. Marco dopo l'inventio, e lo testimonia ai nescientes citando Giovanni: ut et vos credatis) (87). Da questo punto di vista, anzi, la Extensa sembra scritta da un agiografo piuttosto che da un cronista; e può essere presa come un immenso leggendario de tempore et de sanctis, non troppo diverso da quello coevo - finito di comporre attorno al 1340 - dal quale prende a piene mani, del domenicano di Chioggia Pietro Calo (88).
Ma non basta: a quei tempi nessuno, neppure Marsilio da Padova, poteva prescindere dalla storia della Chiesa (89). Quello che più conta è il fatto che il Dandolo, a differenza di Marsilio, non vede affatto, accanto alla storia della Chiesa, una storia "civile", "ghibellina" (90) pronta a spiccare il volo nonostante e a dispetto della stessa Chiesa. Al contrario, traveste anche la storia "civile" da storia sacra. Ne è prova la dipendenza, finora non abbastanza chiarita, della Extensa dalla Historia di Paolino, l'Hauptquelle (91) non a caso scelta e fedelmente seguita dal Dandolo.
In Paolino il Dandolo non trovava soltanto un utile magazzino di dati, ma molto, molto di più: il senso profondo degli stessi dati, cioè dell'intera storia umana, e la ragione per cui davvero meritava farsi scriptor ystoriarum. Il senso è che tutto dipende da Dio; e la ragione è che tocca quindi all'uomo scoprire i termini di questa dipendenza: con l'intervento dello stesso Dio (per revelationem) quando si trattava di spiegare, come facevano i teologi, le verità di fede; per inventionem, quando si doveva render conto, come facevano gli scienziati, dei fenomeni naturali; per eruditionem, quando c'era da narrare, come facevano gli storici, le vicende del passato: per eruditionem giacché l'accertamento dei fatti era lasciato, pur con l'aiuto di Dio, alla ricerca umana, che era pertanto impegnata ad accertare "bene", a documentare tutto, per dire solo il vero, perché di Dio, dell'azione di Dio nel mondo, non si può dire il falso (92).
Vale a dire: da Paolino, il Dandolo non imparava solo a scrivere di storia usando i documenti - quanti documenti, infatti, oltre trecento (93), riportati nella Extensa! -, ma anche, e soprattutto, a far coincidere la "verità della storia" con la "storia della Verità" (94): nella fattispecie, la storia dei dogi di Venezia con la storia sacra del mondo. I Mendicanti - ultimo tra di essi Paolino -, maestri di storia sacra e pedagoghi di principi, potevano essere fieri: mai avrebbero pensato di poter avere per allievo un cronista come il Dandolo, un principe laico, il doge di Venezia.
Ma l'allievo, per certi versi, superò i maestri: costoro, infatti, gli consegnavano una storia che era una specie di libro sacro, e quindi solo da ritrascrivere con venerazione, senza modifiche (95); ma nel quale protagonisti erano gli imperatori, i papi, i re (96), non certo i dogi di Venezia; mentr'egli aveva il problema di inserire, e di inserire con il dovuto rilievo - operazione da nessuno prima tentata -, proprio i dogi. In quale modo? Qui il Dandolo ebbe un colpo di genio: la sua storia dei dogi non sarebbe stata un'"aggiunta", un'"appendice" della storia universale, bensì il tessuto connettivo, l'orditura di base della stessa; sarebbe stata la storia dei dogi a scandire le tappe della storia universale, e non viceversa: dei dogi preceduti, prima dell'VIII secolo, dai pontifices lagunari (a partire da s. Marco compagno di Pietro). Con il che - grazie, cioè, alla peculiare tecnica compositiva - la Extensa, pur apparendo, nei contenuti, un gigantesco plagio da Paolino, si trasformava di colpo in un'originale creazione del Dandolo pensata al fine di raggiungere un duplice obiettivo: inserire la storia dei dogi di Venezia nella storia universale; ridurre la storia universale a storia dei dogi di Venezia. Davvero, un esito del genere - la storia di Dio nel mondo che diventa storia di Venezia; la storia degli uomini di Dio, imperatori e papi, che diventa storia dei dogi di Venezia - i maestri Mendicanti, e soprattutto Paolino, mai avrebbero potuto prevederlo.
Se è così, finalmente si può capire di quale princeps in Ecclesia il Dandolo andava parlando: un principe che dapprima neppure esisteva (sulla laguna, per i primi sette secoli dell'era cristiana, c'erano i pontifices), ma poi emerge e comincia a farsi strada (a servizio dei papi e della vera fede), a conquistare un suo spazio accanto agli altri principi di Oriente e di Occidente, finché, dopo molti secoli - i piani di Dio si disvelano gradualmente -, è lui l'unica roccia a sostenere la Chiesa e a salvarla (come nel 1177), e perfino a surrogarla quando necessario, come nella crociata che portò alla conquista dello "scismatico" Impero greco (Innocenzo III non viene neanche nominato in proposito) (97). Ma questo era il disegno, ormai non più misterioso, di Dio: affidare la causa fidei, la sorte della sua Chiesa nel mondo al doge di Venezia. Non per nulla una folla di corpi santi, buona parte della santità straniera di Occidente e di Oriente (soprattutto di Oriente) (98) era emigrata a Venezia: una gigantesca translatio sanctitatis che era la prova migliore della missione che Dio affidava ai dogi. Ormai la capitale della fede non era più Roma o Costantinopoli, bensì Venezia; e la guida della Chiesa non era più solo a Roma o ad Avignone - due centri che da soli denunciavano la decadenza in atto -, bensì a Venezia, dove stava, inviato da Dio, speranza e garanzia di una generalis reformatio, il vero princeps in Ecclesia.
A questo punto, con una storia di Venezia promossa a storia sacra e universale, le opzioni del Dandolo cominciano a chiarirsi. Ad esempio, l'asserita origine "laica" del potere dei dogi, la stessa pratica, da parte del Dandolo, di una dominatio connotata come laicalis non hanno nulla in comune con un certo esprit anti-Chiesa dell'epoca: si possono intendere come una variante della storia sacra (Dio opera anche attraverso i "laici"; sono la sua carta di riserva quando il clero latita); lo stesso "regalismo" del Dandolo perde, se mai l'aveva avuta, qualsiasi carica innovativa alla Marsilio per rivelarsi per quello che era: un ulteriore, e più efficace, supporto alla causa catholica (come poteva il princeps in Ecclesia non governare, e riformare, proprio la sua Chiesa?). E viene alla luce la concezione ultima, e più matura, che il Dandolo proponeva in tema di rapporti tra Stato e Chiesa: non due poteri tra loro divisi o in conflitto, non lo Stato al di sopra della Chiesa, e neppure la Chiesa sopra lo Stato, bensì lo Stato che si fa Chiesa e la Chiesa che si fa Stato; un tutto organico - una nuova versione, che includeva anche la Chiesa, della "tunica inconsutile" di Cristo - sublimato da un solo potere, quello del principe: princeps in re publica e princeps in Ecclesia. La via veneziana allo Stato moderno passava pertanto non attraverso un divorzio dalla Chiesa o una diminutio della stessa, bensì attraverso un vero e proprio trasferimento di sacralità dalla Chiesa allo Stato, e quindi in una totale sacralizzazione dello Stato stesso nella figura del suo doge (99).
Il Dandolo voleva, avrebbe voluto, essere proprio lui questo doge. E per esserlo non gli bastò più svolgere lo scialbo ruolo del doge - un doge che né regna né governa, alla mercé dell'aristocrazia o, peggio, di una oligarchia - che gli assegnava la tradizione lagunare: immaginò per sé un ruolo ben più alto, in tutto degno della sacra missione che Dio gli aveva assegnato nel contesto della storia universale. Chi ha fatto la storia delle insegne dogali non ha potuto non notare le peculiarità dei mosaici eseguiti su committenza del Dandolo verso il 1350 in S. Marco, nella cappella di S. Isidoro: il doge che vi è rappresentato - un doge del XII secolo, Domenico Michiel - ha non solo vesti regali, tra cui "in capo il corno ducale rosso fasciato d'oro con pietre preziose", ma anche insegne regali, come lo scettro nella mano destra e la spada nella sinistra (100). Come non vedere, in questi mosaici - ancor più che in quelli dell'abside del Battistero pur rappresentanti il Dandolo stesso -, non tanto la ripetizione stanca di moduli antichi quanto un attualissimo progetto di riforma del potere dogale, ossia, come in controluce, dietro al Michiel, un Dandolo re?
Al tempo del Dandolo, l'idea di un doge-re già circolava a Venezia e fuori Venezia, forse ad arte diffusa dalla cancelleria. Un ignoto personaggio - un membro della stessa cancelleria? -, scorrendo un codice della Satyrica di Paolino grondante imprese, come si diceva, di imperatori e re oltre che di papi, credette di vedervi raffigurato anche Andrea Dandolo: Andrea Dandolo re con lo scettro; e così lo rappresentò in una miniatura (101). Ma non credo fosse facile far capire che tipo di re potesse mai essere il Dandolo: non certo un re di tipo tradizionale, bensì un re sui generis. Basti notare che, a un certo punto, nel corso della Extensa, per dire che anche lui, in quanto doge, conosceva il luogo segreto in cui era stato collocato il corpo di s. Marco, così scrisse di suo pugno: nunc Christi gratia dux efectus (102). Dunque, "doge per grazia di Cristo", non "per grazia di Dio" come normalmente si intitolavano i principi stranieri, come anche s'intitolavano i dogi di Venezia (103).
"Per grazia di Cristo" voleva dire soggetto solo a Cristo, esattamente come il papa, che non per niente continuava a intitolarsi - il Dandolo non poteva non saperlo, e non sapere anche quant'era discussa, allora, questa formula - vicarius Christi. In sostanza, era come se il Dandolo, non contento di essere re Dei gratia, volesse proclamarsi, in quanto successore di s. Marco, se non papa-re, almeno re-pontefice (per Guglielmo d'Ockham, non solo Pietro ma anche tutti gli apostoli, e con essi i loro successori, erano vicari di Cristo) (104).
Per la pretesa di una regalità così speciale, così debordante rispetto alla tradizione lagunare, ma religiosamente pensosa ed alta, da vero "vicario di Cristo" (105), l'incomprensione e l'insuccesso erano scontati.
Gli stessi ultimi anni del dogado del Dandolo - segnati da guerre continue e dal prepotere di gruppi oligarchici - erano lì per negare in toto ogni sogno di Stato sacrale e di doge-monarca. E allora il Dandolo, che non poteva farsi re trionfante, lungi dal cedere, dal ritirarsi - il suo ideale, a ben guardare, era il sanguigno Enrico Dandolo, colui che era "degno" di diventare imperatore d'Oriente, non certo il remissivo e tormentato Pietro Orseolo (106) -, si atteggiò, restando al suo posto nonostante tutto, a re paziente e sofferente - il re souffre-passion, il re-martire -, perduto dietro al modello di Cristo "re dei re, signore dei signori", ma crocifisso (107). Lo dimostra proprio il mosaico del battistero di S. Marco (108).
Poi quel sogno cominciò a dissolversi, non senza contraccolpi, come vedremo; mentre lo Stato veneziano, attraverso aspre prove e interni adattamenti, andava assumendo, nei confronti della religione e della Chiesa, atteggiamenti nuovi.
Si racconta che Marino Falier, colui che fu successore del Dandolo, quand'era, nel 1346, podestà e capitano in Treviso, esplose in pubblico, anzi dentro il duomo, mentre partecipava alle cerimonie della solennità del Corpus Domini, in un gesto di rabbia che fece scalpore: al vescovo che lo aveva fatto attendere tardando a uscire con la processione rifilò uno schiaffo così forte che fu sentito per tutta la chiesa (109). L'episodio, di solito inquadrato nella storia personale del doge traditore, potrebbe anche esser letto come segno di una crescente coscienza della dignità dello Stato, che non tollerava diminuzioni o mancanze di riguardo da parte della Chiesa.
Questo, in effetti, accadde dopo il Dandolo: lo Stato, dallo stesso Dandolo concepito tutt'uno con la Chiesa, vera tunica inconsutile di Cristo, cominciò a muoversi per vie autonome, destinate a infrangere l'unità con la stessa Chiesa, e comunque a forzarla a un ruolo interno e a sé del tutto omogeneo: affinché, finito il tempo in cui lo Stato esisteva per la Chiesa (come aveva teorizzato anche il Dandolo), cominciasse l'epoca in cui la Chiesa doveva esistere per lo Stato. Il cambiamento, di importanza capitale per la genesi degli Stati moderni, maturò in Venezia con modalità sue proprie, testimoniate da una cultura che, per quanto vasta anche per l'apporto nuovo dei testi in volgare (110), appare nel suo complesso specchio fedele della mentalità e degli orientamenti del ceto di governo (111).
Restiamo, in proposito, all'interno della cancelleria, dove, anche dopo la scomparsa del Dandolo, teoria e pratica di governo continuavano a esaltarsi a vicenda. Qui, per cogliere le novità emergenti, sarà utile non tanto interrogare Benintendi Ravignani, che ricoprì la carica fino al 1365 - lo si può supporre (ma ancora manca uno studio esauriente dei suoi scritti) geloso e discreto custode dei grandi pensieri del Dandolo (112) -, quanto colui che gli subentrò, Raffaino Caresini, che come cronista volle farsi continuatore del Dandolo stesso, innestandosi sulla sua Brevis per prolungarne il racconto fino al 1388 (113).
È noto che, dal punto di vista della tecnica espositiva, il Caresini non rispettò affatto, anzi tradì, il modello di partenza (114). Ma dal punto di vista delle concezioni religioso-politiche di cui è interprete, ben altro è il "tradimento" che gli si può addebitare: in primo luogo, quello di preferire la Brevis alla Extensa, ritornando, senza neppure accorgersi dei grandi orizzonti del doge-cronista, al localismo; e poi quello di non aver più saputo vedere il nesso profondo, sognato dal Dandolo, tra storia civile e storia religiosa, fra Stato e Chiesa.
In effetti, anche come storia locale, la Cronaca del Caresini si discosta parecchio dalla Brevis del Dandolo. Ad esempio, per il cancelliere, Venezia non ha affatto bisogno, come pensava il doge-cronista, di un rapporto quasi simbiotico con la Sede Apostolica: perché è già di per se stessa Chiesa, anzi è "come" la Chiesa di Roma (la navicula Marci collocata sullo stesso piano della navicula Petri) (115). Così il doge, all'occorrenza - ad esempio, ove non gradisse una nomina ecclesiastica -, poteva anche opporsi al papa, e indurlo a cambiarla (116).
Il fatto è che, nella prospettiva del Caresini, Venezia non ha affatto bisogno della Chiesa di Roma perché ha già un suo proprio fondamento: non in se stessa, ma in Dio. La civitas è nel cuore di Dio fin dalle sue origini; i suoi cives passano indenni attraverso le tempeste della storia (l'ultima, la più tragica, nel 1379, quando fu in gioco la sua stessa esistenza) (117) perché hanno Dio dalla loro parte (assistente divina gratia); i dogi si conformano direttamente a Dio, non al papa, sicché hanno le stesse reazioni di Dio: s'indignano quando Dio si adira (Dei ira et ducalis indignatio), premiano i buoni (i cittadini che si sacrificano per la patria) come fa Dio, che appunto bonos abunde remunerat. Nessuna meraviglia se questi dogi sono anche, tutti, perfetti "cattolici" e, in qualche caso, perfino "teologi", esperti nella divina pagina (erano i più adatti a intendere la parola di Dio) (118).
La deduzione è ovvia: il Caresini, continua sì, come già il Dandolo, a pensare allo Stato in termini sacrali; ma questa sacralità non la vede conquistata sul campo, attraverso secoli di fedele servizio alla Chiesa, bensì calata automaticamente dall'alto, da Dio stesso, anche a prescindere dalla Chiesa, tant'è vero che lo Stato, sempre in nome di Dio, può anche prevaricare sulla Chiesa. Ancora una volta, non è questa la Venezia, non è questo lo Stato, non sono questi i dogi che si trovano nella Brevis del Dandolo (per non parlare della Extensa).
Ma il distacco del Caresini dal Dandolo diventa abissale allorché si scopre che per il cronista-cancelliere la stessa idea di Stato sacrale comincia a impallidire e a non bastare più. Lo Stato, per stare in piedi, per sopravvivere ai tanti nemici, non poteva contare soltanto su Dio e sui santi (è del tutto assente, nel Caresini, l'idea del miracolo risolutore, della santità taumaturgica): ci voleva anche un forte esercito, la potentia felicis armatae; ci volevano cittadini disposti a combattere e a dare tutto, anche la vita, per la loro patria (119).
È, questa, una riflessione talmente laica e civile che potrebbe benissimo appartenere a un Machiavelli; e invece appartiene a un cancelliere veneziano di fine Trecento, sedicente continuatore del Dandolo. Come gli appartiene un'altra riflessione, altrettanto civile e laica, ancora alla Machiavelli: l'utilità di rifarsi ai modelli antichi, all'exemplurn Romanorum, alla Roma dei tempi migliori alla quale l'urbs nostra, Venezia, in regimine et moribus simillima esse dignoscitur (120); una utilità che invece sfuggiva al Ravignani quando opponeva il gusto per le lettere (pueriles ineptiae) al dovere preminente di servire lo Stato (hanc mihi non servitutem sed summam arbitror libertatem) (121).
Dopo di che, più che insistere nel raffronto tra il Dandolo e il suo continuatore, si può prender atto che a oltre trent'anni dalla morte del doge-cronista, anche all'interno della cancelleria l'idea dell'unità della storia santa, di uno Stato e di una Chiesa insieme congiunti in ordine a un fine religioso appare chiaramente superata. Avanzavano idee diverse, che nel Caresini, ancora diviso tra il vecchio e il nuovo (con quel suo spartirsi tra sacralità e secolarismo, tra la potenza di Dio e quella dell'esercito, tra la Bibbia e gli autori pagani) (122), risultano appena emergenti, ma che nella cultura dell'epoca già da tempo - in fondo il Caresini era un superato - s'andavano imponendo.
Se n'era già accorto, a suo modo, anche il Petrarca, quando, pur ospite entusiasta di Venezia e del suo governo dal 1362 al 1367, venne a scontrarsi con alcuni Veneziani (nobili, professionisti) innamorati non già delle umane litterae, non già della philosophia moralis, bensì delle scienze, del sapere che riguardava la natura: se ne indignò al punto da decidersi di lasciare la città e scrivere una celebre invettiva (De sui ipsius et multorum ignorantia) (123). Per il poeta il gusto per le scienze - il voler saper tutto "sugli animali feroci, sugli uccelli, sui pesci, quanti peli ha il leone sulla testa, quante piume l'avvoltoio nella coda, con quante spire il polipo abbraccia il naufrago, come gli elefanti si accoppino voltandosi le terga", e così via - era un qualcosa di tragicamente errato, intollerabile: portava a "ignorare lo scopo della nostra vita, donde veniamo, dove andiamo", a "trascurare come la cosa più stupida di questo mondo la pietas", perfino a "parlare contro la fede di Cristo".
Il Petrarca non riusciva insomma a capacitarsi che a Venezia - nella Venezia famosa per essere cattolica e santa - esistessero uomini così: non tanto eretici quanto miscredenti, irreligiosi, capaci di preferire Aristotele a Dio; e ne traeva subito le conseguenze: con cittadini che ignoravano il primato di Dio "signore delle scienze", il primato della religione (pietas est sapientia), e il primato di una cultura che ha senso solo se fa diventare "buoni", lo Stato veneziano non poteva più essere quello che lui amava esaltare (e che, sia detto per inciso, presenta non poche affinità con quello del Dandolo): vale a dire, "la casa della libertà" che salva dai tiranni; della pace, che è "migliore e più santa di una vittoria sicura" (come già aveva scritto in una lettera ad Andrea Dandolo); della giustizia (Venezia non vinceva mai per sé ma per la giustizia); e quindi la casa di Dio, che nunc etiam, ancora oggi, curat atque aspicit res humanas.
Appunto, anche il Petrarca aveva colto il cambiamento in atto. E non importa ora osservare come anche lui, che nel contempo celebrava il valor militare e l'appetitus glorie presenti inter maritimos etiam viros, ossia anche tra i mercanti di Venezia di per sé attratti solo dall'oro o dal guadagno, in fondo, con tipica contraddizione, fosse lì a incoraggiarlo (124). Resta il fatto che Venezia stava diventando irreversibilmente diversa, davvero un mundus alter, con una fisionomia opposta a quella esaltata dal Petrarca: non perché andasse perdendo ogni "virtù", il gusto per la libertà, per la pace, per la giustizia, il senso stesso della religione e di Dio, ma perché, a fronte delle tante sfide e crisi in cui si trovò immersa, si ridusse non si sa come - sono cambiamenti spesso quasi inavvertiti
nella storia delle civiltà - a volar basso, a concentrarsi sul qui e ora: gli intellettuali sulle scienze, "sugli animali feroci, sugli uccelli, sui pesci" (come accusava, fraintendendo, il Petrarca); i politici sull'angoscia delle cose da fare a seguito delle guerre continue, delle finanze stremate, delle pesti ricorrenti, dei malesseri interni, del rischio stesso di sparire come Stato. Contava, insomma, concentrare gli sforzi per puntellare il "pavimento" della casa che stava per crollare (giusta l'immagine di Boncompagno da Signa), piuttosto che occuparsi del "tetto" e del "cielo", che sembravano lontani (nel giro di pochi decenni, non a caso, sarà questo "pavimento" - di cui si noterà ch'era miracolosamente librato in aquis et paludibus e privo di mura -, a essere celebrato, a diventare "mito") (125).
E difatti il problema del "pavimento", ossia delle basi materiali dello Stato, venne a essere al centro anche per la riflessione storico-politica. Si prenda ad esempio un'altra cronaca, la cosiddetta "giustiniana", uscita dal clima culturale di quegli anni. Gli studi su di essa ne mettono giustamente in luce sia la parentela formale con il Dandolo (è pur sempre una cronaca per duces), sia il suo distacco da lui per quel suo pronunciato localismo che l'ha fatta apparire "angusta", quasi "ottusa" (126). Peraltro sono proprio questi limiti a connotare il senso dello Stato che è tipico del suo Autore. Gli interessano infatti soprattutto le istituzioni pubbliche, le magistrature (offre elenchi dettagliati dei procuratori di S. Marco e dei titolari dei vari regimina), le finanze nutrite di imprestiti, le guerre, gli eserciti, le ambascerie, i trattati, le carovane dei mercanti, le monete, le carestie, i terremoti, le acque alte; anche le traslazioni di reliquie, ma sempre come "cose" dello Stato (127). E soprattutto gli interessano le famiglie veneziane, le Proles Venetorum - non tutte le famiglie, ma solo quelle nobili, che fin dalle origini hanno fatto grande Venezia, e che al suo tempo più che mai erano al vertice dello Stato e anzi "erano" lo Stato -, di cui traccia, una dopo l'altra, per la prima volta la storia, e una storia che veniva da lontano (nella "giustiniana" acquista più nitido rilievo - già si era profilata nel Dandolo - l'origine troiana di Venezia) (128). Ecco, dunque, dove stava il fondamento dello Stato veneziano: in un nucleo di grandi famiglie, nella loro nobiltà e antichità, nei loro profani titoli di onore, che sono la prova della sua grandezza passata e la speranza per l'avvenire.
Ma se questo era lo Stato che stava sbocciando sulla laguna: uno Stato sempre meno fondato in alto, nella Provvidenza, in Dio, e sempre più conscio dei suoi fondamenti terreni, delle sue risorse materiali, della sua potenza militare, dell'onore delle sue famiglie dominanti, perfino dell'apporto del suo popolo (come risulta da un altro cronista, Daniele da Chinazzo, ben noto per la sua "aderenza alle cose") (129), ormai le premesse per inquadrarne l'atteggiamento nei confronti della religione e della Chiesa ci sono tutte.
Si prenda il tema della dominatio laicalis sul clero, a suo tempo caro al Dandolo. Orbene, con questo nuovo Stato, esso non poteva essere recepito che come una prassi normale, irrinunciabile: non tanto perché il controllo del potere civile sulle persone in sacris diventasse semplicemente più esteso, quanto perché era fatto dipendere da un principio nuovo: che a Venezia esisteva una sola giustizia sovrana, quella dello Stato; non già due, per la presenza della Chiesa (il fatto di far intervenire per la condanna dei chierici il vescovo o il patriarca non è segno di rispetto per l'ordinamento della Chiesa, ma di un sottile uso dello stesso) (130).
Quanto poi alla iurisdictio super clericos, cioè alla pretesa, che fu del Dandolo, di "possedere" la sua Chiesa, si deve dire come prima cosa che essa venne recepita in toto, con una normativa intesa a ottenere il pieno controllo sui benefici ecclesiastici maggiori (vescovadi e abbazie), di per sé riservati, con competenza esclusiva, alla Sede Apostolica. Si cominciò quasi in sordina: il 4 febbraio 1363, colpito dai troppi aspiranti alla sede vescovile di Modone, il senato decise di sottoporre a proba (una specie di concorso per titoli) i candidati e di approvarne per votazione soltanto uno, quello ritenuto più adatto, che poi sarebbe stato presentato alla Curia papale per la nomina di sua spettanza. Ma poi il meccanismo fu applicato in ogni occasione, su larga scala: nessun beneficio della laguna o delle Chiese veneziane d'Oriente sfuggì più alla proba. Con l'ovvio risultato di sottrarre tutte le nomine al papato e di ridurle a un affare interno dello Stato, anzi del patriziato; per non parlare dei contraccolpi sul piano della pietas (quella che stava a cuore al Petrarca): il senato sceglieva vescovi e abati in base a titoli "civili" (parentela, grado di nobiltà, benemerenze politiche) prima che religiosi (131). Quello che più conta peraltro rilevare è la mentalità nuova - agli antipodi di quella del Dandolo - con cui un sistema siffatto veniva applicato: era come affermare il principio che anche la Chiesa apparteneva allo Stato, era parte dello Stato, e che perciò lo Stato non poteva non governarla attraverso uomini propri, da esso scelti: come se i vescovi e gli abati fossero altrettanti podestà o capitani da inviare nei regimina e ai quali poi chiedere conto del loro operato (non per nulla si è parlato, in casi del genere, di "Chiesa burocratizzata") (132).
E quali le relazioni del nuovo Stato con Roma, con la Sede Apostolica? Basti in merito un solo episodio: quando papa Gregorio XI, nel 1377, chiese a Venezia di sospendere ogni commercio con i Fiorentini sotto interdetto, non solo fu del tutto ignorato (Veneti processus nostros publicari et exequi non curarunt), ma neppure trovò un solo ecclesiastico, a partire dal patriarca, disposto a sfidare il governo, esponendo di notte, in gran segreto, la sua bolla sulle porte di S. Marco (133). Prova, fra l'altro, non solo di quanto lo Stato guardasse alla Chiesa di Roma come a un corpo estraneo, ma anche di quanto gli ecclesiastici veneziani fossero ormai appiattiti sullo Stato stesso, in una condizione di sudditanza totale, anche psicologica.
Dove tuttavia lo Stato più platealmente mostrò sia la sua superiorità nei confronti della Chiesa sia la sua nuova, pressoché secolarizzata, percezione del sacro fu in occasione dei grandi riti di celebrazione collettiva. Un tempo, per ringraziare Dio di un trionfo, per impetrare un aiuto, tutta la città, con alla testa il suo doge e l'intero ceto di governo, si recava nelle chiese, soprattutto in S. Marco, disponendosi trepida o festante attorno ai suoi santi protettori o alle loro reliquie solennemente traslate, che erano al centro del rito e da cui tutto dipendeva. Ma ora le cerimonie si trasformano: cominciano in chiesa, giacché niente - lo si sapeva - poteva essere fatto rite et feliciter se non partendo dalla "religione"; contemplano anche una processione davanti e attorno alla chiesa; ma poi esplodono nello spettacolo vero e più atteso, che era quello profano: giochi e gare cavalleresche (134). E al centro di tutto, dentro come fuori la Chiesa, si staglia l'"eroe" del momento non meno profano: il condottiero vittorioso, lo stesso doge, al quale sono tributati - come ad Andrea Contarini trionfatore a Chioggia nel 1380 - tutti i possibili omaggi "spirituali e temporali", e di fronte al quale tutti, compresi i prelati e il clero, sono solo contorno (135): come fosse lui il vero e unico salvatore e protettore dello Stato.
Del resto, mai come in questo periodo, i dogi, non per se stessi ma come suprema incarnazione dello Stato, continuarono a essere celebrati anche oltre la morte. Quelli - quasi tutti - sepolti in S. Zanipolo, la chiesa eletta a sacrario di Stato, ebbero monumenti funebri di una solennità mai vista: "come neppure le tombe dei papi", esclamò un visitatore meravigliato circa un secolo dopo (136).
Non è necessario addurre altre prove, del resto in gran parte già note (137), a conferma del processo in atto di ascesa dello Stato al di sopra della Chiesa e della cattura, ancora da parte dello Stato, della stessa ritualità religiosa. Gli esiti di questo processo sono evidenti e tali da segnare, più che un cambiamento, un vero rovesciamento di prospettiva rispetto ai tempi del Dandolo: là uno Stato ancora religioso, organico se non "interno" alla religione e alla Chiesa; qui uno Stato secolarizzato che sulla religione e sulla Chiesa si innalza in ordine ai propri fini.
Per la Chiesa locale, si noti, siffatto rovesciamento poteva anche comportare effetti utili, religiosamente positivi: perché uno Stato così tendeva a occuparsi della sua Chiesa, come un padre della sua creatura; e l'avrebbe anzi voluta visibilmente ancor più devota e funzionante - non per nulla si "comandano" sempre nuove feste religiose (138) -, "bella" agli occhi di tutti anche per moralità e strutture: per esserne fiero e averne onore (139). Ma ci furono anche gli effetti perversi, addirittura devastanti: il doge, per quanto cattolico e santo, non poteva, agli occhi dei credenti, sostituirsi a Dio, ai suoi santi, e neppure mediarli; lo Stato, per quanto "patria" di tutti e casa dei migliori (i nobili), non poteva "comprendere" tutta la Chiesa. Prendeva corpo la sensazione di un vuoto, dell'assenza o della sottrazione di qualcosa, di una unità e armonia perdute, su cui potevano innestarsi le reazioni più diverse.
Per lo Stato veneziano di fine Trecento - già in se stesso diviso e dall'incerto futuro (solo e sempre Stato "da mar", o anche Stato "da terra"?) - quello della religione e della Chiesa fu un problema in più.
Quando si vuol cogliere il polso della vita religiosa, sarà opportuno guardare, sulla traccia ormai di non poche ricerche, non solo al clero o ai vertici del clero, ma anche alle comunità locali (140), ai credenti che più o meno regolarmente andavano in chiesa, nella loro chiesa, dove erano nati a Cristo nel battesimo, dove la loro vita veniva scandita dai sacramenti e dai riti, dove trovavano il loro prete-padrino, e dove alla fine sarebbero stati sepolti in attesa del giorno glorioso della risurrezione: sarà opportuno guardare insomma alla "storia vissuta del popolo cristiano" (141). E da questo punto di vista, guai a voler scoprire subito e solo impennate improvvise, lacerazioni e contrasti: non solo perché l'esperienza religiosa in genere è fatta ben più di tradizioni che di reazioni, ma anche perché quella veneziana in specie dà sempre un'impressione di immobilità solenne, come la superficie calma di un lago.
In effetti, anche nel secondo Trecento, Venezia continua a essere la civitas sacratissima di cui parlano i documenti pubblici (142); e i Veneziani restano i magni ecclesiarum cultores e i divini honoris amatores di sempre; vale a dire, gente che andava in chiesa, che metteva Dio per primo, che mai avrebbe tradito la sua fede, che neppure sapeva cos'era l'eresia (143). Il clero, in particolare - non solo i vescovi ma anche i preti delle parrocchie -, sembra più che mai a suo agio come mediatore e interprete della religione ufficiale: si può anzi parlare di un clero naturalmente integrato nelle istituzioni pubbliche (del resto solo a Venezia il prete-notaio poté sopravvivere fino al tardo Quattrocento) (144), perfino di un clero "patriottico": per come sapeva connettere il culto a Dio con il servizio allo Stato, e trainare il consenso dei fedeli. Ne può essere esempio Pietro de Natali, prima pievano dei SS. Apostoli e poi, dopo qualche proba, vescovo di Iesolo. Nel 1380 fu lui a scrivere un poemetto in versi a ricordo della famosa pace del 1177, che vide il doge di Venezia trionfalmente assiso tra papa e imperatore. Lo dedicò, con i dovuti incensamenti, ad Andrea Contarini, l'"eroe" di Chioggia: il prelato che, invece del papa, osannava il suo principe (145)!
Di sicuro non tutti i preti furono come lui. Qualcuno, più o meno apertamente, diede anche segni di disagio, se non d'intolleranza verso uno Stato che volentieri si faceva e religione e Chiesa. Non credo, ad esempio, che Francesco de Grazia, priore di S. Salvadore, scrivendo verso il 1380 un Chronicon del suo monastero, rievocasse a caso, o per puro gusto archeologico, le vicende, accadute oltre due secoli prima, che videro un patriarca di Grado, Enrico Dandolo, qui erat vir sanctus et bonus, scontrarsi aspramente, in nome della libertas Ecclesiae o comunque del diritto del clero a vivere canonice, secundum Deum et beati patris Augustini regulam, con il vescovo di Castello, che era un Polani, dietro cui c'era il fratello, il doge Pietro, e che costarono un "martire": quel prete, Bonfilio Michiel, esule in Dalmazia e colà assassinato, il cui corpo fu poi portato a Venezia dallo stesso patriarca perché trovasse sepoltura nella sua chiesa (146). Con il suo Chronicon voleva forse far capire che Chiesa e Stato non sempre potevano coincidere, che la Chiesa aveva esigenze sue proprie, insopprimibili (ad esempio, avere preti come nuovi apostoli), per le quali si poteva anche morire. Prova di una "resistenza" diffusa tra il clero, quasi di una "fronda" serpeggiante contro lo Stato?
La mancanza di dati sicuri lo fa escludere; anche se tra il clero qualche malcontento ci fu: ma non al punto da incrinare la più generale adesione allo Stato-Chiesa. Colpisce in proposito la vicenda relativa a Leonardo Lion, prima pievano di S. Giovanni in Bragora e poi vicario del vescovo di Castello, certamente uno dei prelati più in vista a Venezia: fu trovato eretico e condannato nella solennità di un rito pubblico. Il primo giorno di ottobre del 1363 - era di domenica -, in S. Bartolomeo, durante la Messa, anzi tra l'Epistola e il Vangelo (quando la chiesa era più affollata), il prete Niccolò Foscolo, che agiva per incarico dei giudici inquisitori e per mandato del patriarca di Grado, lo colpì con la scomunica. Subito suonarono le campane e le candele furono accese e spente: la comunità, liberata dal "reprobo", celebrava la sua ortodossia (147).
L'eresia a Venezia? A Creta, semmai, dove aveva "contaminato" nobiles et maiores, e dove, pare, non fu affatto repressa, con la consueta durezza, dal governo veneziano, tant'è vero che il papa minacciò di sottrarre l'isola al suo dominio per darla a un "altro" (148). Ma a Venezia no; come, ormai, neppure in altre parti d'Italia, se non per casi isolati, e anche non del tutto connessi con il patrimonium fidei. Sulla laguna mai avrebbe potuto nascere un John Wiclif o un Jan Hus; e forse neppure c'era il sospetto che potesse nascere: certa peinture anti-hérétique intravista per quest'epoca potrebbe essere, a ben riflettere, tutt'altro che tale (149).
Dunque, né rivolte di preti, né eresie di preti nella Venezia del tardo Trecento: la superficie del lago, a dispetto di qualche lieve increspatura, rimase nel suo insieme calma e compatta. Qualcuno inventò anzi strumenti nuovi per renderla, se possibile, più armonica e bella; ossia, fuor di metafora, per meglio adattare l'esperienza religiosa al quadro dello Stato cui veniva ad aderire. Parlo del tentativo di riformare l'agiografia lagunare.
Sappiamo che in Venezia, dopo secoli di translatio sanctitatis, le reliquie da venerare, le chiese costruite in loro onore, i santi cui affidarsi erano fin troppi: ne è prova, come s'è visto, l'Extensa del Dandolo, e ancor prima il Leggendario di Pietro Calo con i suoi 863 santi. Eppure, attorno al 1370, ci fu qualcuno che sentì il bisogno di lamentarsi perché in Venezia i santi erano pochi (sanctorum exiguitas), perché nessuno li conosceva (beatorum nobis ignota infinita multitudo), e quindi nessuno li onorava nel modo dovuto. Questo qualcuno è un prete-vescovo di regime, che abbiamo già incontrato, Pietro de Natali (150). Come spiegare una sortita del genere? Forse in questo modo: il Dandolo aveva celebrato la santità politica utile al doge-principe del mondo; Pietro Calo - da buon mendicante - la santità dotta e universale valida per tutta la Chiesa; e difatti le loro opere erano enormi. Ma nessuno aveva pensato a una santità locale, narrata in breve, adatta per i preti di Venezia che dovevano predicare e per i loro fedeli. Questo vuoto volle riempirlo lui, il de Natali, componendo, appunto, un "breve opuscolo", dove tornavano ancora i santi di Stato (specie i quattro "fratelli": Marco, Stefano, Niccolò, Donato) e i santi dotti e universali cari ai Mendicanti (come Girolamo, celebrato come "esimio dottore"), ma rivisitati ad exercitium legentium et predicatorum, e ad utilitatem filiorum militantis Ecclesiae. E forse, anche se non era proprio adatto al popolo di Venezia, il Catalogus ebbe successo; e ne avrà ancora più in seguito, nel Cinquecento, nel contesto, significativamente, della Riforma cattolica (151). In ogni caso, il suo sforzo per rendere migliore il quadro della religione veneziana, il de Natali l'aveva compiuto.
Ma se in superficie, nel grande lago della religione locale, tutto, o quasi tutto, salvo poche increspature, appariva liscio e levigato, che accadeva nelle profondità? Qui il discorso comincia a cambiare, perché - sia detto subito - compaiono, e non poteva essere diversamente, movimenti strani, correnti in contrasto, segni di una vita poco tranquilla. Ad esempio, chi ha studiato gli spazi urbani di quest'epoca, anche con riguardo alle parrocchie, non ha potuto non notare sintomi chiari di un allentamento dei vincoli comunitari, di un regresso della specificità delle parrocchie a tutto vantaggio dell'unità cittadina. Il che può anche apparire come un progresso - "le triomphe de la force unitaire de l'espace vénitien" (152) -, ma a patto di non trascurarne il "costo" in termini religiosi oltre che umani: soprattutto il lento disancoraggio - lo dimostra il variato flusso dei lasciti testamentari, la destinazione non più soltanto parrocchiale del proprio corpo dopo la morte - da una secolare casa comune, la chiesa con i suoi preti, che un tempo era tutto, anche luogo di affetti e di socialità oltre che di certezze e valori spirituali, per finire assorbiti dentro la città dei patrizi, ben più ampia e appariscente, dove però le distanze tra gli uomini ritornavano ferree, e altri erano i valori dominanti: i conforti "civili" non erano esattamente i conforti religiosi. E il cambiamento fu certamente percepito, se ben si valuta il coevo rifiorire delle fraternite.
Gli studiosi tendono a vedere in questo fatto un segno di crescita dell'istituto parrocchiale (153); ma non credo che per Venezia si possa dire altrettanto: qui infatti la geografia delle fraternite supera nettamente l'ambito parrocchiale per modellarsi su quello sociale (da una parte i nobili e dall'altra il popolo), e perfino "nazionale" (i trecento mercanti di Milano e Monza che nel 1361 ottengono di costituire una scola - così la fraternita si chiamava a Venezia - dedicata ai prediletti s. Giovanni Battista e s. Ambrogio) (154); sicché le fraternite si presentano come una risposta alla crisi della parrocchia, il tentativo di ricreare fuori di essa, e in termini più qualificati, vincoli associativi e di solidarietà in essa non più garantiti. Ecco un caso significativo: nel 1392 molti anziani poveri (senes et impotentes) - ex-artigiani ed ex-combattenti - fecero domanda ai dieci di costituire una fraternita al fine dichiarato di ricevere soccorsi per non morire di fame. Si sarebbero mossi se appena avessero potuto contare sull'aiuto delle rispettive parrocchie (155)?
E poi far parte di una fraternita non era proprio come far parte di una parrocchia: bisognava far domanda, ottenere il consenso pressoché unanime del consiglio dei dieci, e poi rimanere sempre nel mirino degli organi pubblici, che delle fraternite e della loro attività diffidavano e perciò controllavano tutto (elenchi dei soci, testo delle "mariegole", numero, giorno e ora delle riunioni), neanche fossero un pericolo grave per la sicurezza dello Stato (156).
Dunque, le fraternite come segno della crisi in atto delle parrocchie. E questa crisi, per quanto sia giusto reagire alla tendenza di dipingere panorami troppo negativi, c'era tutta, anche a Venezia. Chi ha confidenza con le carte dell'epoca sa quanto spesso sia documentato il fatto di chiese abbandonate e in rovina, di un clero assente e incapace, in ogni caso inadatto alla difficile "arte" - "arte delle arti" la chiamava a suo tempo Gregorio Magno - della cura animarum; e sa anche quanto spesso s'incontrino conventi e monasteri deserti o abitati soltanto da pochi membri. Con le ovvie conseguenze sul piano della vita religiosa, che risulta certamente in calo, con punte di disaffezione e perfino di irriverenza anche allarmanti da parte dei fedeli: insomma, un vero e proprio regresso nella vita di fede e di pietà (157).
Ma il bisogno del "cielo", nei più, restava, come si può cogliere, ad esempio, dai testamenti, dove anzi la persistente richiesta di una quantità enorme di messe in suffragio tradisce un affanno, o almeno una preoccupazione intensa, per la propria salvezza (158). Sennonché chi mai, in quel mondo religioso bloccato - il lago dalla superficie immota, anche se agitato nelle profondità, di cui si diceva -, era in grado di dare salvezza?
La salvezza, allora, cominciò a venire dal di fuori; fu salvezza "straniera". Verso gli anni Novanta del secolo confluirono sulla laguna, attratti dalla fama di libertà di cui si diceva qui godessero gli uomini di Chiesa, quasi tutti gli Spirituali che erano stati al seguito di Caterina da Siena, ma soprattutto due: Giovanni Dominici e Tommaso di Antonio Caffarini. Erano i leaders del movimento di riforma allora in ascesa: riforma del loro ordine, quello domenicano (e difatti subito ripristinarono la regolare osservanza nei due conventi lagunari di S. Zanipolo e di S. Domenico); riforma di tutta la Chiesa e dell'intera società cristiana. In Venezia legarono subito con ecclesiastici e fedeli fino allora rimasti nell'ombra: specie con Leonardo Pisani e Giovanni da Pozzo, che erano preti; e con Giovanni Soranzo, un penitente laico. Tutti insieme - cosa mai vista fin'allora sulla laguna - si misero a predicare nelle chiese e nelle piazze, ovunque il clero parrocchiale li invitasse, trattando di tutto: soprattutto de sanctis et de tempore, dei vizi e delle virtù, commentando il Pater noster e l'Ave Maria, soffermandosi sugli aspetti umani e tragici dell'incarnazione (Cristo in croce e la Mater dolorosa), avendo l'occhio ai problemi concreti della Chiesa in decadenza, della cristianità in pericolo, dell'ordine da riformare e da rendere prestigioso (anche con la canonizzazione di Caterina da Siena). Il Dominici, in particolare, diceva di imitare s. Paolo, il quale "non predicava una volta la settimana, ma una volta al dì: sei, otto e dieci ore per volta, senza altra misura che quella dello Spirito Santo"; ma anche gli altri non erano da meno. Avevano uno stile tutto speciale: non si accontentavano di esporre pianamente i rudimenti della fede; ma, come presi da raptus improvvisi, animavano il discorso cum actibus, fervoribus et gestibus ac cantibus, perfino con pianti e ruggiti, trascinando gli astanti sul terreno delle verità profonde (per immensas mysteriorum voragines).
Quali verità? Che la salvezza esige la spogliazione di sé e il rinnegamento di tutto (corpo, beni, famiglia, potere), affinché l'anima possa ascendere e unirsi, in mistiche nozze, con il suo Dio; che l'uomo non conta nulla di per sé, a meno che non accetti di farsi strumento docile, ardente d'amore, nelle mani di Dio; che in ogni caso è necessario obbedire a Dio prima che agli uomini. I modelli predicati furono soprattutto due, Caterina da Siena e Marcolino da Forlì: la prima - homo coelestis ben più che femina - in quanto capace di disprezzare se stessa e il mondo, di lasciarsi guidare solo dallo Spirito, e quindi di "comandare", in nome dello Spirito, i potenti della terra, a cominciare dai papi (come si legge nelle due Vitae scritte da Raimondo da Capua); il secondo - un laico ignorante morto a 80 anni e gridato santo dal popolo - in quanto dotato di una umiltà così grande da trasformarlo in magnus propheta, destinato, per la sua "scienza", a precedere i doctores nel regno di Dio (come lo esaltò lo stesso Dominici). Insomma, il Dominici e i suoi predicavano una religione radicale, assoluta, che esigeva di "bruciare" tutto in nome dell'amore di Dio, "l'abisso senza fondo," (è questa l'epoca in cui fu scritto il Libro d'amore di carità) (159).
E gli atti furono conseguenti: ad esempio, nel 1395, invano il governo vietò al Dominici di fondare un monastero: nella "pienezza dei tempi" - fu la risposta - bisognava abbandonarsi a Dio ("tutto a Dio lasciatomi") senza curarsi degli uomini ("non per uomo alcuno resterò della detta impresa"); e perciò il monastero fu fondato (160). Appunto: Dio prima degli uomini, la religione prima dello Stato.
Il che pare incredibile: non tanto di per sé - era normale, nella cristianità di allora, l'insorgere di poteri informali, anche femminili (161) -, quanto in rapporto al mondo veneziano, dove lo Stato era forte e "laico", e dove la religione già era stata circoscritta, se non assorbita, dallo Stato stesso. Ci si attenderebbe pertanto una reazione immediata da parte dello Stato, la cacciata del Dominici, la messa al bando di una religione tanto invadente. E invece accadde esattamente il contrario. Dopo un iniziale sconcerto, la gente si lasciò conquistare: non solo il popolo ma anche i nobili; e seguiva i predicatori nei loro spostamenti tra le chiese della città, mai sazia di ascoltarli; e affollava i conventi in cui stavano, chiedendo di parlare con loro, di confessarsi, di far penitenza. E i predicatori erano sempre lì a ricevere tutti e a confortare tutti, a fare i confessori, i confidenti, i direttori di coscienza: primo fra tutti il Dominici, con la sua speciale capacità di soggiogare le anime, specie quelle dei giovani e delle donne (Iste pravus homo - scrisse più tardi di sé con oscuro compiacimento - vocabatur raptor puellarum, puerorum seductor, predo viduarum, maritatarum deceptor). "Tutto il mondo gli andava drieto", compresi i poveri, che si sentivano da lui prediletti quando tuonava dal pulpito che nel giorno del giudizio Dio si dimenticherà di tutto - dell'infedeltà, delle bestemmie, delle violenze, della lussuria - ma non della "crudeltà mostrata verso i suoi poveri" (162).
Nel giro di due anni, più di settanta donne andarono a chiudersi nel monastero del Corpus Christi, e le sessantaquattro celle predisposte non bastarono più. Ma anche chi restava nel secolo, uomo o donna che fosse, sentendo che si può "fare la volontà divina" (come osservava il Dominici) in ogni stato, decise in non pochi casi di convertirsi e cambiar vita (163). Parecchi mercanti si pentirono più del solito dei mala ablata, ossia di tutte le ruberie commesse, dirottando somme enormi verso le chiese: nel 1397 uno di questi, Tommaso Talenti, del "confinio" o parrocchia di S. Maria Formosa, lasciò ai poveri per testamento oltre 600 ducati, e altri 7.000 (una vera fortuna) ne destinò per istituire sulla laguna una comunità di monaci olivetani (164).
Sembra che anche la politica del governo restasse condizionata. Non per nulla il Dominici divenne intimo del doge Venier e di altri grandi dello Stato (consiliorum corruptor, amicus divitum et potentatum, fu detto), al punto che molti "non averiano fatto niuna cosa senza el suo conselio" (165). Si può persino pensare che l'espulsione degli Ebrei dalla città, bruscamente decisa in senato nell'estate del 1394, fosse ispirata, più che da ragioni economiche o di sicurezza, da zelo religioso: non per nulla gli Ebrei furono accusati sia di rifiutare i piccoli prestiti ai poveri al tasso forzoso dell'8%, sia di accettare in pegno per le somme prestate oggetti sacri come calici e altro: in maximo contemptu Dei et contra honorem nostri Dominii (166).
Dunque, tanta parte della società, perfino settori del patriziato, in ogni caso una città che riscopriva e praticava a lungo, quasi per un decennio, una religione nuova, "assoluta", ben diversa da quella ufficiale. Merito del Dominici, certo, uno degli uomini di maggiore carisma che avesse la cristianità di allora; "colpa", se si vuole, della più ampia crisi di uno Stato che dopo Chioggia faticava a rinascere e ritrovare la sua strada; ma anche rivincita, si può credere, di esigenze religiose a lungo compresse - le correnti nascoste sotto la superficie immobile del lago - che finalmente, in una congiuntura propizia, venivano a galla riuscendo a imporre la loro nuova legge: non più la religione dentro lo Stato, bensì lo Stato dentro la religione.
Il culmine di questo processo fu toccato, si può credere, nel 1397, con il ritorno della grande peste che fece oltre quindicimila vittime. Allora, mentre lo Stato più dimostrava la sua debolezza - nobili, magistrati e medici che fuggivano per evitare il contagio -, furono il Dominici e i suoi frati - che invece rimasero, "pronti a vivere come a morire" (e difatti in sedici persero la vita) - a prendere in mano la città, ad assistere i malati, a consolare i moribondi, a seppellire i morti. "L'Altissimo - scrisse il Caffarini, il predicatore più ascoltato durante la peste - mi diede la grazia di ottenere frutti così grandi che tanta parte del popolo si disponeva con gioia ad accogliere la morte" (167). Nella città in agonia solo la religione - la religione del Dominici, ormai con una sua cupa vena apocalittica - viveva, e anzi trionfava. Ma per quanto?
Il trionfo non durò troppo a lungo. Già da tempo infatti, nella misura in cui intaccava "l'assetto dello Stato e della società" (168) e divideva le stesse famiglie, il Dominici aveva suscitato allarmi e proteste anche furenti: "questo traditor [si diceva ad esempio> ne desvìa i nostri fiolli". E si passò alle vie di fatto: più di sette furono gli attentati contro di lui (i sicari lo aspettavano dopo la Messa, dopo le prediche), ai quali sfuggì per caso o, come lui diceva, per "miracolo" (169). Ma l'episodio dei Bianchi gli fu fatale.
Il governo aveva vietato il moto penitenziale, bloccandone l'avanzata a Chioggia, "perché, grazie a Dio [si legge nella motivazione ufficiale>, noi abbiamo già parecchie indulgenze e devozioni". Ma il Dominici non si piegò: il 18 novembre 1399, un giovedì, dopo aver celebrato una Messa solenne in S. Geremia, uscì in processione "con molti signori e done, religiosi e secular", cantando come facevano i Bianchi "misericordia, misericordia". Antonio Soranzo apriva il corteo portando la croce. Arrivati in campo S. Zanipolo, trovarono a sbarrare il passo il capo dei dieci con la guardia, che strappò la croce dalle mani del Soranzo e disperse la processione "con molti obproprii e villanie sì alli signori come alle done".
La notte stessa si riunì il consiglio dei dieci. Fu posta dapprima ai voti una pars generica, che si limitava a ordinare un'inchiesta: venne respinta. La stessa sorte ebbe una delibera successiva, che chiedeva una commissione d'indagine. Fino a quel momento nessuno aveva chiamato in causa il Dominici, ma i suoi avversari erano decisi a tutto pur di sbarazzarsi di lui. Ci riuscirono al terzo scrutinio: il Dominici, Leonardo Pisani e Antonio Soranzo furono confinati nelle loro case in attesa che fosse fatta un'inchiesta sul loro operato. In tre giorni il rapporto fu rimesso al consiglio, che a maggioranza si pronunciò per la responsabilità del Dominici e procedette a fissare la pena. A questo punto il dibattito si fece rovente: da un lato i protettori del Dominici (il doge Venier, Giovanni Contarini) che tentavano di salvarlo con un confino a domicilio di appena un mese; e dall'altro gli avversari, tra cui il capo dei dieci Giovanni Loredan, che ne reclamavano il bando perpetuo. Alla fine si venne a un compromesso: il bando al Dominici per cinque anni, e per un anno al Pisani e al Soranzo. Ossia, lo Stato aveva ripreso il sopravvento, e l'avventura veneziana del Dominici - l'epoca della religione in rivolta - era finita (170).
Finita? In anni passati, concludendo l'analisi di questo decennio, mi sembrò giusto da un lato rivalutare il Dominici e dall'altro dare per scontata la liquidazione rapida della sua eredità, nel senso che a Venezia, cacciato lui, tutto, sul piano religioso, si acquetò e tornò come prima (171). Ora, sul Dominici, non ho motivo di ricredermi: nei tempi difficili in cui si trovò a vivere - tempi di regimi senza giustizia e di Chiesa senza guida -, egli ebbe il merito indubbio, per molti versi "umanistico", di valorizzare l'uomo come "luogo" o "immagine" di Dio (in ceteris creaturis - scrisse - Deus reperitur per vestigium, in homine vero per imaginem), di difenderne la "dignità", perfino la "bellezza" (insegnava che si doveva essere "belli", formosi, non solo nell'anima ma anche nel corpo, che è specchio di Dio) (172).
Invece, circa la liquidazione della sua eredità, non ne sarei più tanto sicuro: perché egli non fu soltanto l'uomo dei carismi squilibrati, dell'abisso scavato tra Dio e il mondo, tra religione e Stato, ma anche l'uomo delle istituzioni di Chiesa (i suoi primi seguaci furono preti, la sua predicazione s'incentrò nelle parrocchie), e perfino delle istituzioni pubbliche, che voleva redimere e non distruggere (non per nulla fu protetto per più anni dai grandi dello Stato). Possibile - vien da chiederci - che nessuno in Venezia sentisse il bisogno di raccogliere il meglio dell'eredità del Dominici, vale a dire l'idea di una religione capace di influenzare dal di dentro, con i suoi valori autonomi, e Chiesa e Stato? In realtà, qualcuno ci fu; o almeno ci fu qualcuno che impedì che a Venezia tutto tornasse come prima (una religione, una Chiesa alla deriva dentro lo Stato); e in qualche modo continuò, anche dopo il Dominici, la rivolta religiosa: parlo dei canonici secolari di S. Giorgio in Alga.
Le origini, in parte oscure, di questo movimento - un piccolo gruppo di giovani nobili e ricchi (soprattutto Antonio Correr e Gabriele Condulmer), che, proprio quando il Dominici lasciava Venezia, spesso si riuniva in case private per "parlare di Dio", e poi trovò sede nell'isoletta di S. Giorgio in Alga - hanno indotto a interpretarlo come un'"iniziativa aristocratica e socialmente chiusa", oppure come un piccolo "cenacolo" di "anime di eccezione" che cercavano il ritiro monastico, senza nessi importanti con le grandi realtà della Chiesa e dello Stato (173).
Nulla di più inesatto. Se non altro perché quei giovani furono preti, e non monaci: preti che scelsero di vivere dentro il mondo, da "secolari", in mezzo alla gente, tutti dediti alla cura delle anime. L'Institutio canonicorum del 30 ottobre 1404 - il primo vero documento che qualifichi la nascente congregazione - non lascia dubbi circa il carattere "clericale" del movimento: vi sono nominati sette preti (tra i quali il Correr e il Condulmer), sei diaconi (tra cui colui che diventerà in breve la guida e il maestro di tutti, Lorenzo Giustiniani), e quattro suddiaconi (174).
Non solo preti, ma anche preti speciali, canonici. Difatti vollero vivere in comune e in perfetta povertà, come gli apostoli, secondo il modello della Chiesa primitiva: per essere appieno "servi di Dio" e pastori di anime. E sappiamo che lo furono davvero: andando nelle chiese e nelle parrocchie più disastrate, mostrando nei fatti come farle rinascere, tra lo stupore dei fedeli che spesso avevano perso il ricordo del buon prete (175).
Servi di Dio: voleva dire che non erano, né potevano essere, servi dello Stato? Per decisione della Sede Apostolica, i canonici di S. Giorgio in Alga furono sottoposti alla sola autorità del loro rector, non a quella dell'ordinario diocesano, o di un prelato protettore, e neppure a quella del papa (176). E poiché il rector poteva anche essere non veneziano, lo Stato ne risultava, almeno in prospettiva, doppiamente escluso: nel senso che non poteva agire sulla congregazione, come era solito fare, né attraverso il vescovo castellano né attraverso i parenti dello stesso rector.
Non si trattava di un'esclusione insignificante: innanzitutto, perché il governo, dopo il decennio del Dominici e nel pieno delle lotte per lo scisma, esigeva il controllo totale sulla sua Chiesa; e poi perché ben presto si verificò un fatto imprevisto: Angelo Correr, divenuto papa (uno dei papi del grande scisma) nel 1406, chiamò presso di sé i due iniziatori di S. Giorgio in Alga, ossia Antonio Correr e Gabriele Condulmer, e per giunta, insieme con loro, Giovanni Dominici (177). Come dire: il vertice della Chiesa condizionato dai religiosi "ribelli", perduti dietro l'utopia del Vangelo, insensibili agli interessi dello Stato, perfino del "loro" Stato.
Certo, molti furono i motivi che indussero il governo veneziano, pur tra dubbi e contrasti enormi (in senato "pareva li se tagiasse a pezi", e "tutto il popolo piangeva"), a sconfessare Gregorio XII, il papa veneziano, alla cui nomina aveva esultato (178); ma tra essi si deve contare anche questo: stroncare forze spirituali oggettivamente in antitesi con l'idea di una Chiesa di Stato, prona al regime. E nel contempo, mi sembra di poter dire, ci fu un giro di vite anche a carico di S. Giorgio in Alga: dopo il 1407 molti canonici lasciarono la sede veneziana sciamando in chiese e monasteri della Terraferma; e la congregazione si fece più schiva, quasi monastica. Non per nulla ne divenne leader Lorenzo Giustiniani, che in quegli anni, pur non lasciando la cura animarum, manifestò - in una sua operetta, il Lignum vitae - tutto il suo disagio nei confronti del "mondo" e la tentazione di ritornare al chiostro come a un paradiso perduto (179). Ma sarebbe errato concludere la storia religiosa del primo secolo dello Stato veneziano sotto il segno di un divorzio irreparabile: da un lato, una religione-Chiesa ispirata solo a Dio e al Vangelo che viene sconfitta, costretta al silenzio, a una specie di esilio; dall'altro, uno Stato che di nuovo e con più forza, avendo in mente solo il proprio honor et proficuum, impone la sua religione-Chiesa. L'esito in verità fu ben più complesso. Si consideri l'itinerario di Giustiniani: rimase sempre se stesso, uomo di Dio e mai uomo di Stato; ma per questa via finì per ritrovare lo Stato e fare l'uomo di Dio dentro lo Stato e perfino - quando accettò, pur senza piegarsi alla proba, di essere vescovo di Castello e poi primo patriarca di Venezia - dentro la Chiesa di Stato. Capì, e non fu il solo, che per un uomo di Dio il ritirarsi è bello (porta alla visione di Dio), ma salva poche anime (pauciores filios Deo generat), mentre il vivere dentro lo Stato è tutt'altro che bello (comporta sacrifici, umiliazioni, compromessi), ma salva più anime (amplius parit) (180); ossia capì che la salvezza cristiana doveva per forza passare attraverso l'invincibile realtà dello Stato moderno.
Parallelamente, anche lo Stato veneziano rimase se stesso, ossia il padrone geloso della propria religione-Chiesa, cui negò una vera libertas, e che difese da intrusioni esterne; ma per questa via gli capitò spesso di ritrovare la religione-Chiesa senza aggettivi, e di puntare su di essa come su un fondamento prezioso per la sua stessa esistenza. Non per nulla la religione entrò a fondo nella formazione del perfetto patrizio, che doveva essere dedito non solo alla patria, ma anche alla Chiesa; accompagnò passo passo la crescita di Venezia nel mondo (in Italia per il primato tra gli Stati; in Oriente per la difesa contro i Turchi), che fu intesa nell'interesse non solo dello Stato ma anche della Chiesa. E l'idea della Venezia cattolica collocata in alto, al vertice della cristianità, come "altra Chiesa", ossia come partner ideale della Chiesa di Roma, si intrecciò con l'idea della Venezia civile come altera Roma (la Roma antica) (181).
Così, l'esito di un secolo di incontri-scontri tra religione e Stato fu non tanto la nascita di una "Chiesa di Stato" - una formula debole anche fuori Venezia (182) - quanto di una Chiesa vicina allo Stato, o di uno Stato che non sapeva vivere senza la Chiesa. Ne può essere emblema Lorenzo Giustiniani, il servo di Dio non dello Stato, che dopo la sua morte fu celebrato come "decoro" di Roma e insieme di Venezia, come ecclesiastico santo e insieme patrizio ideale; e per il quale lo Stato stesso, sul finire del Quattrocento, chiese al papato l'onore della canonizzazione: in nome di Dio e della patria('83). In fin dei conti, gli ideali di Andrea Dandolo non erano del tutto tramontati.
* Ho potuto stendere questo contributo solo grazie a un pur breve soggiorno (16 aprile-16 maggio 1997) presso l'Institute for Advanced Study di Princeton (N. J.), vero Paradisus studiorum, insieme con mia moglie Lellia: alla quale, con l'amore di sempre, lo dedico.
1. Giorgio Cracco, Nota preliminare, in Storia di Venezia, I, Origini - Età ducale, a cura di Lellia Cracco Ruggini - Massimiliano Pavan e Giorgio Cracco-Gherardo Ortalli, Roma 1992, pp. 1-6, in partic. p. 4 (a proposito di Gian Piero Bognetti); Id., L'età del comune, in Storia di Venezia, II, L'età del comune, a cura di Id.-Gherardo Ortalli, Roma 1995, pp. 1-30, in partic. pp. 3 ss.
2. Giuseppe De Luca, Pietà veneziana nel Seicento e d'un prete veneziano quietista, ora in Id., Letteratura di pietà a Venezia dal 300 al '500, a cura di Vittore Branca, Firenze 1963, pp. 61-82, in partic. p. 80; Giovanni XXIII in alcuni scritti di Giuseppe De Luca con un saggio di corrispondenza inedita, Premessa e note di Loris Capovilla, Brescia 1963, p. 85 (lettera del 31.VII.1958).
3. Raphayni de Caresinis Chronica a. 1343-1388, a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, 2, 1922, pp. 30 s.
4. Sono espressioni che si trovano in un testo ufficiale della fine della Repubblica: Giovanni Soranzo, Il decreto del Senato Veneto del 7 dicembre 1781 sull'educazione della gioventù, "Atti e Memorie della R. Accademia di Scienze Lettere ed Arti in Padova", n. ser., 55, 1938-1939, pp. 68-72 (pp. 63-72).
5. Gaetano Cozzi, Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano agli inizi del Seicento, Venezia-Roma 1958, p. 41. Cf. anche Pompeo G. Molmenti, La vie privée à Venise depuis les origines jusqu'a la chute de la Republique, II, Venise 1896, pp. 15-16.
6. Giorgio Cracco, I testi agiografici: religione e politica nella Venezia del Mille, in Storia di Venezia, I, Origini - Età ducale, a cura di Lellia Cracco Ruggini - Massimiliano Pavan e Giorgio Cracco-Gherardo Ortalli, Roma 1992, pp. 923-961.
7. Rinvio sul tema ad André Vauchez, Introduction a La religion civique à l'époque médiévale et moderne (Chrétienté et Islam), Actes du Colloque [...>, a cura di Id., Rome 1995, pp. 1-5; e a Colette Beaune, Prophétie et propagande: le sacre de Charles VII, in Idéologie et propagande en France, a cura di Myriam Yardeni, Haïfa-Paris 1987, pp. 63-73.
8. L'esatta espressione di Boncompagno da Signa è la seguente: Si vero queratur quomodo civitas Venetiarum sit constructa, responderi potest quod pavimentum eius est mare, celum est tectum et paries decursus aquarum (Francesco Novati, Il "De malo senectutis et senii" di Boncompagno da Signa, "Rendiconti della R. Accademia dei Lincei", cl. di Scienze morali storiche e filologiche, ser. V, 1, 1892, pp. 49-67, in partic. p. 57).
9. Il significato di "cielo" come "dimora di Dio" era, ovviamente, già nella Bibbia e nei Padri: cf. Albert Blaise, Dictionnaire latin-français des Auteurs chrétiens, s.l. 1993 [1954>, p. 122. Anche i vocabolari recenti - cf., ad esempio, il Vocabolario della lingua italiana edito dall'Istituto della Enciclopedia Italiana, I-IV, Roma 1986-1994: I, sub voce - riportano ancora questo significato.
10. Giorgio Cracco, Società e Stato nel Medioevo veneziano (secoli XII-XIV), Firenze 1967, pp. 226-228; Lia Sbriziolo, Per la storia delle confraternite veneziane: dalle deliberazioni miste (1310-1476) del Consiglio dei Dieci. Le scuole dei battuti, in AA.VV., Miscellanea Gilles Gérard Meersseman, II, Padova 1970, pp. 715-763, in partic. pp. 716-717; William B. Wurthmann, The Council of Ten and the ῾Scuole Grandi' in Early Renaissance Venice, "Studi Veneziani", n. ser., 18, 1989, pp. 15-66, in partic. pp. 16-24.
11. Ultimamente Giuseppina De Sandre Gasparini, La pietà laicale, in Storia di Venezia, II, L'età del comune, a cura di Giorgio Cracco-Gherardo Ortalli, Roma 1995, pp. 929-961, in partic. pp. 944 ss.
12. Cit. in G. Cracco, Società e Stato, p. 227 n. 1.
13. Nel corso del Duecento - dato significativo - sorsero nella sola Italia non meno di settanta santuari: Giuseppe Avarucci, Problemi ed ipotesi sull'origine del culto mariano. In margine ad alcuni studi recenti, "Rivista di Storia della Chiesa in Italia", 35, 1981, pp. 28-39, in partic. p. 39 n. 57.
14. Ad honorem omnipotentis Dei et beatissime Virginis Marie et sanctorum Apostolorum [..> et ad honorem et reverenciam domini page et suorum fratrum et tocius ecclesie romane et domini ducis et comunis Venecie si legge nella "Mariegola" di S. Maria della Carità (cit. in G. Cracco, Società e Stato, p. 227 n. 1).
15. Martin da Canal, Les Estoires de Venise. Cronaca veneziana in lingua francese dalle origini al 1275, a cura di Alberto Limentani, Firenze 1972, p. 2.
16. Jacopi Bertaldi Splendor Venetorum civitatis consuetudinum, a cura di Francesco Schupfer, Bononiae 1901 (Bibliotheca juridica Medii Aevi, III), pp. 100, 104; Giorgio Cracco, La cultura giuridico politica nella Venezia della "Serrata", in AA.VV., Storia della cultura veneta, 2, Il Trecento, Vicenza 1976, pp. 238-271, in partic. pp. 250-253.
17. Giorgio Cracco, Il pensiero storico di fronte ai problemi del Comune veneziano, "Memorie della Accademia Patavina di Scienze, Lettere ed Arti", cl. di Scienze morali, Lettere ed Arti, 79, 1966-1967, pp. 65-90, in partic. pp. 83 ss. L'edizione della parte introduttiva di Marco in Antonio Carile, Aspetti della cronachistica veneziana nei secoli XIII e XIV, in La storiografia veneziana fino al secolo XVI. Aspetti e problemi, a cura di Agostino Pertusi, Firenze 1970, pp. 75-126, in partic. pp. 121-126.
18. Giorgio Cracco, Mercanti in crisi: realtà economiche e riflessi emotivi nella Venezia del tardo Duecento, in AA.VV., Studi sul Medioevo Veneto, Torino 1981, pp. 7-24, in partic. pp. 17-20 (dove anche si giustifica l'identificazione del Pietro Veneziano con Pietro Zeno e non, come era stato proposto, con Pietro d'Abano). Cf. anche Erhard W. Platzeck, Raimund Lull, Sein Leben - Seine Werke, Die Grundlagen seines Denkens (Prinzipienlehre), I-II, Düsseldorf 1962-1964: I, pp. 22-23; II, pp. 33-34.
19. Il libro di Messer Marco Polo cittadino di Venezia dove si raccontano le meraviglie del mondo, a cura di Luigi Foscolo Benedetto, Milano-Roma 1932, p. 111.
20. Così giudica l'intera opera di Marco Polo Walter Ullmann, Medieval Foundations of Renaissance Humanism, Ithaca (N.Y.) 1977, p. 79.
21. G. Cracco, Mercanti in crisi, pp. 20-24.
22. Sull'opera di Paolino, che si spera sia criticamente edita, cf. Girolamo Arnaldi, Andrea Dandolo doge-cronista, in La storiografia veneziana fino al secolo XVI. Aspetti e problemi, a cura di Agostino Pertusi, Firenze 1970, pp. 127-268, in partic. pp. 180 ss.; G. Cracco, La cultura giuridico politica nella Venezia della "Serrata", pp. 255 ss. Su Paolino torneremo in seguito: v. testo corrispondente a nn. 91 ss.
23. Acta Clementis PP. V (1303-1314) [...>, a cura di Ferdinand M. Delorme - Aloisie L. Tàutu, Romae 1955, pp. 20-23, doc. 14.
24. Mauro Ronzani, Vescovi, capitoli e strategie famigliari nell'Italia comunale, in Storia d'Italia, Annali, 9, La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all'età contemporanea, a cura di Giorgio Chittolini - Giovanni Miccoli, Torino 1986, pp. 99-146, in partic. p. 146.
25. Giorgio Chittolini, Stati regionali e istituzioni ecclesiastiche nell'Italia centrosettentrionale del Quattrocento, ibid., pp. 147-193, in partic. p. 149.
26. Apud modernos, secundum modernum usum: Marsilii De Padua Defensor pacis, II, 2, 2-3, a cura di Richard Scholz, in M.G.H., Fontes iuris Germanici antiqui in usum scholarum, VII/2, 1933, p. 144.
27. Al modello di Pietro Orseolo accenneremo oltre. Per il modello di Luigi IX di Francia, cf. Jacques Le Goff, San Luigi, Torino 1996, in partic. p. 689; per le opposte ecclesiologie dell'epoca basterà il rinvio a André Vauchez, L'idée d'Église dans l'Occident Latin, in Un temps d'épreuves (1274-1449), a cura di Michel Mollat du Jourdin - André Vauchez, Paris 1990 (Histoire du Christianisme dès origines à nos jours, VI), pp. 271-298, in partic. pp. 279-284.
28. Tam nobiles quam populares ad mercatum vel alibi accedere terrore processus nullatenus presumebant, quoniam in multis detinebantur partibus nolentes Romane Ecclesie complacere. Sed potisime Paduani multas iniurias et gravamina Venetis intulerunt et eo tempore pro denariis multos Venetos vendiderunt (Venetiarum Historia vulgo Petro Iustiniano Iustiniani filio adiudicata, a cura di Roberto Cessi - Fanny Bennato, Venezia 1964, p. 207). Cf. inoltre Richard C. Trexler, The Spiritual Power. Republican Florence under Interdict, Leiden 1974, p. 12.
29. Cf. Samuele Romanin, Storia documentata di Venezia, I-X, Venezia 1972-19753 [1853-1861>: III, 1973, pp. 14-16
30. Bartolomeo Cecchetti, La Republica di Venezia e la corte di Roma nei rapporti della religione, I, Venezia 1874, pp. 281 ss.
31. S. Romanin, Storia documentata di Venezia, III, pp. 17-18.
32. G. Cracco, Società e Stato, p. 368 n. 3.
33. Cf. in proposito Id., Chiese locali e partito imperiale nell'Italia dei Comuni (1236-1254), in Federico Il e le città italiane, a cura di Pierre Toubert - Agostino Paravicini Bagliani, Palermo 1994, pp. 403-419; Id., Nato sul mezzogiorno. La storia di Ezzelino, Vicenza 1995, pp. 103-104.
34. Nicolai Episcopi Botrontinensis Relatio de itinere italico Henrici VII imperatoris ad Clementem V papam [...>, in Vitae paparum Avenionensium [...>, a cura di Guillaume Mollat, III, Paris 19212, pp. 503 ss.
35. Cf. ad es. Paul Binski, Medieval Death, Ritual and Representation, Ithaca (N.Y.) 1966, in partic. pp. 55 ss.
36. Debra Pincus, The Fourteenth-Century Venetian Ducal Tomb and Italian Mainland Traditions, in Skulptur und Grabmal des Spätmittelalters in Rom und Italien, Akten [...>, a cura di Jorg Garms - Angiola Maria Romanini, Wien 1960, pp. 393-400.
37. Non credo sia senza significato che i vescovi di Castello cari al Gradenigo fossero gli Albertini di Prato: Galasso, eletto il 31 maggio 1311, ma morto in giugno prima della consacrazione; Iacopo, il fratello, chiamato il 19 giugno a rimpiazzarlo (Raimondo Morozzo della Rocca, Cronologia veneziana del '300, in AA.VV., La civiltà veneziana del Trecento, Firenze 1956, pp. 235-263, in partic. p. 240). Ma Iacopo si rivelò in seguito un sostenitore di Ludovico il Bavaro e dell'antipapa: era già filoregalista quando piacque al Gradenigo? Cf. il testo corrispondente a n. 45.
38. Marino Soranzo, lasciando per testamento 50 libre di grossi ai Predicatori di Venezia nel luglio del 1311, precisa: "ma no voio che li frari ebia queste libr. L se lo fato no sé aconçado con lo Papa e tornado li frari a Venesia e far l'officio sì com'eli soleva" (Testi veneziani del Duecento e dei primi del Trecento, a cura di Alfredo Stussi, Pisa 1965, p. 78).
39. S. Romanin, Storia documentata di Venezia, III, p. 61; Andrea Da Mosto, I dogi di Venezia, con particolare riguardo alle loro tombe, Venezia 1939, pp. 73, 327; Id., I dogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Milano 1960, pp. 101-103. Nel corso del Trecento capiterà anche a Marino Falier, il doge traditore, di essere sepolto absque aliqua funebri pompa (R. de Caresinis Chronica, p. 10). Sul significato dei rituali funebri relativi ai dogi, peraltro per un'epoca più tarda, cf. Edward Muir, Civic Ritual in Renaissance Venice, Princeton (N.J.) 1981 (trad. it. Il rituale civico a Venezia nel Rinascimento, Roma 1984), in partic. pp. 263 ss.
40. Mi sono servito, per questo mini-profilo dello Zorzi, di una lettera della cancelleria dogale che non può essere datata al 17 ottobre 1312, come indica la Pastorello sulla traccia del Muratori, dato che lo Zorzi morì il 3 luglio 1312, ma che appartiene sicuramente al dogato dello stesso Zorzi; lettera inviata in risposta ai rettori di Zara, che contiene una digressione, a mio avviso, quasi "autobiografica" - forse del tutto autonoma dalla ratio politica della lettera stessa - sulla quale nessuno ha mai attirato l'attenzione, e che non è facile trovare in atti del genere: quod si ad Dominum intuitum mentis vestrae dirigitis, sapienter et provide agitis, et utinam iam diu oculos mentis convertissetis ad Eum Quem nos in omni statu glorificamus devote, et tanto propensius quanto nobis, licet aliquando sinistrum aliquod afferat vel permittat, vires et potentiam ad ipsius honorem et gloriam et reprimendas quorumcunque iniurias reservavit; et tamen de ipsis viribus et potentia nostra solum in tantum confidimus in quantum ipsius Domini Dei nostri beneplacitis credimus inherere; nec potest Eius incomprensibile iudicium facile concipi quod saepe causis latentibus permittit fortunam aliquos blandiri ut fortius eos laedat. Sed non expedit verbis huiusmodi diutius inmorari (edizione a cura di Ester Pastorello, in Appendice alle Cronache del Dandolo [in R.I.S.2, XII, 1, 1938-1958>, pp. 386-387; da confrontare con analoghe lettere, di tutt'altro "stile", sottoscritte dal doge Gradenigo subito dopo la congiura del 1310: ibid., pp. 375 ss.).
41. Ibid., pp. 386-387. Anche la formulazione di una specie di programma dogale, fondato sulla pace e sulla pacificazione, mi sembra vada al di là dello scopo per cui la lettera fu scritta, anche se non si può negare che potesse pure servire allo scopo stesso.
42. S. Romanin, Storia documentata di Venezia, III, pp. 66 s.
43. Per i Predicatori, anche a livello dei lasciti testamentari, cominciò un'epoca parecchio propizia: cf., anche se si tratta di una raccolta minima che non ha il compito di dare un'idea dei testamenti dell'epoca, Testi veneziani del Duecento e dei primi del Trecento, pp. 87 (testamento di Marino Davanzago del 20 giugno 1312: lascito di 20 libre ai frati di S. Zanipolo), 95, 158, 165, 170.
44. S. Romanin, Storia documentata di Venezia, III, p. 67, con n. 31, dove si riporta un brano del testamento.
45. R. Morozzo della Rocca, Cronologia veneziana del '300, p. 240: il 9 marzo 1312 le compagnie dei Battuti hanno la proibizione di riunirsi nottetempo.
46. Un Antifonario del Museo Correr di Venezia sembra presentare lo Zorzi "inginocchiato in atto di offrire il volume (forse lo stesso Antifonario) a s. Domenico e a un frate domenicano effigiati accanto": Agostino Pertusi, Quedam regalia insignia. Ricerche sulle insegne del potere ducale a Venezia durante il Medioevo, "Studi Veneziani", 7, 1965, pp. 3-123, in partic. pp. 50-51, con tav. XXI/1.
47. S. Romanin, Storia documentata di Venezia, III, p. 73. Il vescovo Albertini fu rimosso nel dicembre del 1328 (R. Morozzo Della Rocca, Cronologia veneziana del '300, p. 244).
48. Acta Gregorii P.P. XI (1370-1378) [...>, a cura di Aloisie L. Tãutu, Romae 1966, pp. 176-178, doc. 91 (lettera al doge Andrea Contarini del 27 ottobre 1373). La posizione ufficiale del governo di questi anni, su cui torneremo, si desume dalle scene che furono dipinte nella sala del maggior consiglio a partire dal 1365 in ricordo della pace del 1177: Elisabeth Crouzet-Pavan, Gênes et Venise: discours historiques et imaginaires de la cité, in Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, a cura di Paolo Cammarosano, Roma 1994, pp. 427-453, in partic. p. 449.
49. Andreae Danduli Chronica brevis, pubblicata al seguito della Chronica per extensum descripta a. 46-1280, a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, 1, 1938-1958, pp. 351-373, in partic. p. 371. L'allusione è al passo di Giov. 19, 23-24: Milites ergo cum crucifixissent eum, acceperunt vestimenta eius et fecerunt quatuor partes, unicuique militi partem, et tunicam. Erat autem tunica inconsutilis, desuper contexta per totum. Dixerunt ergo ad invicem: Non scindamus eam, sed sortiamur de illa cuius sit [...> Et milites quidem haec fecerunt.
50. A. Danduli Chronica brevis, p. 351, da confrontare con Historia Ducum Veneticorum, a cura di Henry Simonsfeld, in M.G.H., Scriptores, XIV, 1883, pp. 72 s.
51. Si noti, come osserva la Pastorello nell'apparato ad A. Danduli Chronica brevis, p. 353, questa citazione biblica - che non trovo identificata: ma si tratta, forse, di un ricordo di Osea, 1, 11 - manca in Giovanni diacono, Cronaca, in Cronache veneziane antichissime, a cura di Giovanni Monticolo, Roma 1890, pp. 90-91, ossia nel passo riportato dal Dandolo. Si tratta quindi di un'aggiunta personale del Dandolo stesso, il quale pertanto dimostra una confidenza con la Bibbia - in questo caso con i libri profetici - che finora non è stata rilevata.
52. M. de Padua Defensor pacis, II, 4, 13, pp. 176-177. Sulle novità di Marsilio valgono sempre le osservazioni di Alessandro Passerin D'Entrèves, The Medieval Contribution to Political Thought, Thomas Aquinas Marsilius of Padua Richard Hooker, New York 1959 [1939>, pp. 44-87, in partic. p. 46, cui si può aggiungere Cesare Vasoli, Marsilio da Padova, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 2, Il Trecento, Vicenza 1976, pp. 207-237, in partic. pp. 214-232; Carlo Dolcini, Crisi di poteri e politologia in crisi. Da Sinibaldo Fieschi a Guglielmo d'Ockham, Bologna 1988, in partic. pp. 223 ss.
53. Rinvio al mio Società e Stato, pp. 399-405.
54. Apoc., 17, 14.
55. Jean Leclercq, L'idée de la royauté de Christ au Moyen Âge, Paris 1959, pp. 171 ss., in partic. p. 178.
56. A. Danduli Chronica brevis, pp. 370, 366, 368 (fu il doge Giacomo Tiepolo a conquistare Ferrara per consegnarla a Gregorio da Montelongo legato della Sede Apostolica), 369 (Ranieri Zeno tolse Padova a Ezzelino ad Pastoris Ecclesie requisitionem); ancora 366 (per lo sposalizio del mare), 369 (per il privilegio concesso al primicerio di S. Marco) e 370 (per la destinazione dei beni degli eretici). Com'è ovvio, la peculiarità del Dandolo cronista non consiste certo nella novità delle notizie riportate (desunte dalla tradizione), bensì nel modo di selezionarle in ordine al contesto narrativo a lui congeniale.
57. A. Danduli Chronica brevis, pp. 367 (a proposito della quarta Crociata il Dandolo neppure annota le proteste del papa, mentre sottolinea il trionfo di Venezia: ex cuius ducis - Enrico Dandolo - mirifica operatione Venetorum status vehementer auctus fuit), 371 (a proposito dei dogi Zorzi e Soranzo).
58. Cf. il termine "inconsutile" in Vocabolario della lingua italiana, II.
59. Sull'identificazione tra tunica inconsutile e Chiesa basti rinviare a S. Gregorii Magni Registrum epistularum, a cura di Dag Norberg, Turnholti 1982 (Corpus Christianorum, Series Latina, CXL), VII, 5 (ottobre 596), p. 451: omnipotenti Deo gratias agimus qui inconsutilem tunicam desuper contextam, videlicet ecclesiam suam, vicaria confessione fidelium in unitate gratiae ab omni erroris scissione custodit; oppure anche a Sancti Fulgentii Episcopi Liber de Trinitate ad Felicem, 1, 5, in Id., Opera, a cura di Jean Fraipont, Turnholti 1968 (Corpus Christianorum, Series Latina, XCIA), p. 634: quid infelices dicant qui praecisi ab ecclesia Dei corde impaenitenti ipsi Ecclesiae contradicunt; et dum eamdem, quae tunica Domini est inconsutilis, scindere nituntur (parla degli eretici), ipsi facilius scissi sunt.
60. Giorgio Ravegnani, Dandolo, Andrea, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXII, Roma 1986, pp. 432-440; Giorgio Cracco, Un "altro mondo". Venezia nel Medioevo dal secolo XI al secolo XIV, Torino 1986, pp. 132-134; Id., Il Senato Veneziano, in corso di stampa per il volume Il Senato nella storia, II, Medioevo ed età moderna, a cura del Senato della Repubblica.
61. Per questa espressione, che risale a Benintendi Ravignani, cf. G. Cracco, Società e Stato, p. 439 n. 1.
62. A. Danduli Chronica extensa, p. 142: Dux ecciam [siamo nell'819> cum Iustiniano filio suo, consorcium monachorum degencium in Sancto Servulo, suplicante Ihoane abbate, ad ecclesiam Sancti ϒlarii, in finibus Rivoalti positam, per privilegium perpetuo transmutavit; per quod Venetorum confinia notorie demostrantur et ducalis iurisdictio super clericos evidentissime propalatur. A parlare di atto depravatum aut interpolatum fu Paul F. Kehr, Italia Pontificia [...>, VII, Venetiae et Histria, pt. II, Berolini 1961 [1925>, p. 170.
63. Cf. il documento pubblicato dalla Pastorello nella Introduzione ad A. Danduli Chronica extensa, p. CV.
64. Cf. la Promissio del Dandolo pubblicata dalla Pastorello nella stessa Introduzione ad A. Danduli Chronica extensa, pp. LXXIX-CII, in partic. p. LXXXVI, cap. XXIV; e v. anche, come precedente, la Promissio del doge della Serrata, ossia di Pietro Gradenigo in Le Promissioni del doge di Venezia dalle origini alla fine del Duecento, a cura di Gisella Graziato, Venezia 1986, pp. 132-163, in partic. pp. 134, 138-140.
65. Non si può in proposito non citare il contributo di Paolo Prodi, Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell'Occidente, Bologna 1992, in partic. pp. 258-259 (i testi relativi al Dandolo, in particolare la lettera di Benintendi Ravignani, rientrano perfettamente nel grande quadro tracciato dall'Autore).
66. Cf. il documento pubblicato dalla Pastorello nella Introduzione ad A. Danduli Chronica extensa, pp. CII-CIV: un documento che certamente il Ravignani presenta con un senso riduttivo, come è stato rilevato (G. Arnaldi, Andrea Dandolo doge-cronista, p. 197), ma che non per questo non deve essere collegato alla più ampia idea della ducalis iurisdictio super clericos (a mio giudizio il Ravignani "municipalizza" il Dandolo universale).
67. Si v. in merito anche la Promissio del Dandolo, in Appendice alle Cronache del Dandolo, cap. III, p. LXXXII.
68. Enrico Bacchetti, Clero e detenzione nella Venezia del XIV secolo, "Studi Veneziani", n. ser., 30, 1995, pp. 35-53, in partic. pp. 36-40.
69. Ibid., pp. 40-46.
70. Già nel 1293 Si era giunti a bloccare l'accesso ai benefici della chiesa di S. Moisè ne propter multitudinem presbyterorum et aliorum clericorum inferiorum ordinum et tenuitatem reddituum et oblationum compellerentur suae vitae necessaria turpiter mendicare (Nicolaus Coleti, Monumenta ecclesiae Venetae SanctiMoysis, Venetiis 1758, pp. 103 ss.).
71. Come già testimoniava, ai primi del Trecento, un esperto del sistema (J. Bertaldi Splendor Venetorum civitatis consuetudinum, pp. 103-104), per il quale il potere del doge si esprimeva soprattutto nelle tre curie: in consiliatoria, iudiciaria, que dicitur de proprio, et executoria, que ad solam potenciam principis, id est domini ducis, pertinet. Ma sul complesso funzionamento della giustizia penale nella Venezia del Trecento cf. Guido Ruggiero, Violence in Early Renaissance Venice, New Brunswick (N.J.) 1980 (trad. it. Patrizi e malfattori: la violenza a Venezia nel primo Rinascimento, Bologna 1982), pp. 18-39.
72. S. Romanin, Storia documentata di Venezia, III, pp. 119-120, con n. 72.
73. Ibid., con n. 74; ma soprattutto i contributi di Alberto Tenenti, di Mario Caravale (per l'"intreccio tra mondo ecclesiastico e mondo laico") e di Antonio Rigon in questo volume (il contributo di Rigon, in particolare, che riguarda le strutture della Chiesa veneziana per tutto il Trecento, va letto contestualmente a questo). È certo da inquadrare nella stessa linea di governo anche l'accresciuta vigilanza in materia di regolarità di testamenti: un prete-notaio che in questo periodo, a proposito del testamento di Francesca Lambardo, si era comportato contra Statuta et Capitulare Notarie, fu privato dell'ufficio per sempre e, pro exemplo aliorum, la sua colpa fu "gridata" nelle scale di Rialto (Le Deliberazioni del Consiglio dei XL della Repubblica di Venezia, a cura di Antonino Lombardo, II, 1347-1350, Venezia 1958, docc. 351-354, pp. 105-106). Sul tema della structure of piety in tempo di peste, non mi pare esista per Venezia, come esiste per alcune città dell'Italia centrale, una ricerca come quella di Samuel K. Cohn jr., The Cult of Remembrance and the Black Death, Six Renaissance Cities in Central Italy, Baltimore - London 1992, in partic. pt. 1, pp. 29 ss.
74. G. Arnaldi, Andrea Dandolo doge-cronista, p. 197.
75. Diego Quaglioni, Politica e diritto nel Trecento italiano. Il "De tyranno" di Bartolo da Sassoferrato (1314-1357), Firenze 1983, p. 170.
76. D. Pincus, The Fourteenth-Century Venetian Ducal Tomb, pp. 397-398; Enrico Artifoni, La consapevolezza di un nuovo assetto politico-sociale nella cronachistica italiana d'età avignonese: alcuni esempi fiorentini, in AA.VV., Aspetti culturali della società italiana nel periodo del papato avignonese, Todi 1981, pp. 77-100.
77. G. Cracco, Società e Stato, pp. 399-440. L'interpretazione, acutamente glossata da G. Arnaldi, Andrea Dandolo doge-cronista, pp. 127-252, è stata recepita anche da Gaetano Cozzi, Venezia regina, "Studi Veneziani", n. ser., 17, 1989, pp. 15-25, in partic. pp. 17-19, e da D. Pincus, The Fourteenth-Century Venetian Ducal Tomb, pp. 327 n. 25, 328 n. 27.
78. A. Danduli Chronica extensa, pp. 125-126. L'intero passo deriva - come ha cura di precisare lo stesso Dandolo: De hac divisione imperii sic ait Vicencius - da Vincenzo di Beauvais, non da Paolino. Qui pertanto si ha non solo un esempio di quello che il Dandolo "non ha preso da Paolino" (G. Arnaldi, Andrea Dandolo doge-cronista, p. 196), ma anche la prova che il Dandolo, quando riteneva il caso, sceglieva o faceva scegliere accuratamente le sue auctoritates. Il senso di questo passo - che suona critica implicita al papato in quanto responsabile della debolezza costituzionale dell'imperatore di Occidente - non può essere pertanto che quello che gli diede l'Autore originario, Vincenzo di Beauvais, un domenicano sui generis, "un enciclopedista al servizio del re", Luigi IX, che lo incaricò di scrivere lo Speculum historiale (da cui è tratto il passo della Extensa), dove la narrazione della storia universale ab origine mundi culmina con l'avvento di Luigi IX in quanto nuovo Davide, nuovo Salomone (J. Le Goff, San Luigi, pp. 468, 470, 488). Forse si può dire ancora di più: il senso di quel passo va inscritto nel contesto di un regno, quello di Luigi IX, che voleva onorare e proteggere la Chiesa, che metteva in primo piano gli amati preti e frati, ma nel contempo sapeva tener testa al papa di Roma con atteggiamenti che sono stati definiti più sacrali che "laici" ("un trasferimento di sacralità dalla Chiesa allo Stato": ibid., pp. 654-657). C'è più di un motivo, insomma, che poteva indurre il Dandolo a voler trascrivere proprio questo passo; anche se sarebbe troppo pensare a un doge-cronista che s'impersona in un colpo solo e con Luigi IX e con il suo cronista preferito. Certamente al Dandolo poteva suonare bene anche il modo, che è stato definito "protoumanistico", con cui Vincenzo sapeva "usare" la storia (cf. Joseph M. McCarthy, Humanistic Emphases in the Educational Thougth of Vincent of Beauvais, Leiden-Köln 1976, pp. 102-109, 152).
79. A. Danduli Chronica extensa, p. 106: è un passo preso di peso da Giovanni diacono, Cronaca, pp. 90-91.
80. C. Vasoli, Marsilio da Padova, pp. 224-226; Walter Ullmann, Principles of Government and Politics in the Middle Ages, London 19662 [1961>, pp. 231 ss.
81. Già il terzo doge, Orso, insieme con i suoi Veneti, accorre su ordine del papa a liberare Ravenna occupata dai Longobardi; e poi, sempre fervore fidei, resiste in nome dello stesso papa all'imperatore iconoclasta. Attorno alla metà del IX secolo, il doge con i suoi Veneti accoglie cum honore un papa esule, Benedetto III, che aveva scelto la città di Venezia come rifugio sicuro (quam sibi tuciorem credidit). Quando poi Urbano II predicò la crociata, fu ovvia la risposta del doge Vitale Michiel: i suoi Veneti presero subito la croce. Nei tempi successivi, con la potenza dei dogi crebbe anche il loro apporto alla Chiesa: durante il grande scontro tra Alessandro III e il Barbarossa i dogi stettero naturalmente dalla parte della Chiesa, in unitate catholica, accogliendo i vescovi perseguitati e fuggiaschi dalle loro sedi. E poi, nel 1177, ecco il loro capolavoro, destinato a entrare nella memoria collettiva della città e a essere celebrato da artisti ufficiali (anche nel corso del Trecento): la rinnovata concordia tra imperatore e papa raggiunta, per loro merito e nell'interesse della Chiesa (come riconobbe pubblicamente lo stesso papa), proprio a Venezia (A. Danduli Chronica extensa, pp. 111-113, 153-154, 221, 264-265, 267, e passim).
82. Bernard Guenée, Marsile de Padoue et l'histoire. Avant-propos, in Marsile de Padoue, 0euvres mineures: Defensor Minor De translatione Imperii, a cura di Colette Jeudy - Jeannine Quillet, Paris 1979, pp. 1-14, in partic. p. 11: "Le ῾De translatione' de Marsile de Padoue est un hommage maladroit rendu à l'histoire par la philosophie. Maladroit ou trop habile?".
83. G. Arnaldi, Andrea Dandolo doge-cronista, pp. 197-199; Id., La cancelleria ducale fra culto della "legalitas" e nuova cultura umanistica, in questo volume. È del resto corrente un giudizio di basso profilo sulla produzione cronachistica medievale: cf. Bernard Guenée, Histoires, annales, chroniques. Essai sur les genres historiques au Moyen Âge, "Annales E.S.C.", 28, 1973, pp. 997-1016, in partic. pp. 1008-1111.
84. Segno della vitalità, del resto nota, di questa tradizione: Giuseppe Billanovich, Gli umanisti e le cronache medioevali, il "Liber Pontificalis", le "Decadi" di Tito Livio e il primo umanesimo a Roma, "Italia Medioevale e Umanistica", 1, 1958, pp. 103-137, in partic. pp. 107 ss.; Il Liber Pontificalis nella recensione di Pietro Guglielmo OSB e del card. Pandolfo glossato da Pietro Bohier OSB vescovo di Orvieto, a cura di Ulderico Prerovscky, Roma 1978 (Studia Gratiana, 21), I, in partic. pp. 219 ss. (Pietro Boyer, canonista del Trecento, glossava in funzione della rinascita della Chiesa del suo tempo). Il Dandolo peraltro si serve, per la storia dei papi, della sua Hauptquelle, ossia di Paolino, che a sua volta rifletteva tradizioni più ampie di quelle contenute nel Liber Pontificalis. Così, di Gregorio Magno racconta persino la punizione postuma che i suoi avversari volevano infliggergli - bruciare tutte le sue opere - se non fosse intervenuto il diacono Pietro a rivelare che, quando scriveva, lo Spirito Santo direttamente lo ispirava posato sul suo capo in specie columbe: una tradizione che, appunto, manca nel Liber Pontificalis (cf. Le Liber Pontificalis, a cura di Louis Duchesne, I, Paris 1955, p. 312) e che deriva dai biografi di Gregorio.
85. A. Danduli Chronica extensa, pp. 43-44 (per Ambrogio), 68 (per Benedetto), 283 (per Francesco), 241-242 (per Arnaldo, che digno patibulo iudicatus est).
86. A parte lo spazio, ovvio, dedicato ai santi più celebri per Venezia (s. Marco, s. Nicola, s. Stefano: ibid., pp. 146-147, 222, 227), colpisce l'interesse che il Dandolo dimostra per s. Donato (usque in hodiernum diem miraculis coruscantem: ibid., p. 236), per s. Taraso, le cui reliquie si mettono a parlare (Tolle me, quia tecum venire praesto sum) a un antenato del Dandolo, Domenico Dandolo (a quo degradando duo duces, videlicet Henricus Dandulo, et nos qui loquimur originem duximus, ibid., pp. 264-265), per non parlare di molti altri.
87. Il luogo in cui il corpo di s. Marco era stato collocato secrete era noto solo a tre persone: il doge, il primicerio e il procuratore, per cui locus igitur omnibus usque in hodiernum, preter eorum sucessoribus, extat incognitus. Nec propterea nesciencium fides vacilet, cum ego, qui loquor, primo procuratoris gerens officium, nunc Christi gratia dux efectus, possim dicere verba Iohanis, capitulo XVIIII: Et qui vidit testimonium perhibuit, et verum est testimonium eius, et ille scit quia vera dicit ut et vos credatis [19,35>; et Iohanis penultimo capitulo: Ut credentes, eius meritis, vitam habeatis [20,31>. Dies enim illa singulis annis celeberime celebratur (ibid., p. 219).
88. Su Pietro Calo, e sul suo Leggendario, scritto di certo prima del dogado del Dandolo (almeno 863 Legende desunte da testi precedenti, sicut in libris monasteriorum vel ecclesiarum et diversis Historiis potui perfectius invenire, nil de sententiis abbrevians vel detruncans preter prologos et superfluitatem verborum, come scrive l'Autore nel Prologo), e che ancora aspetta un'edizione, a parte i repertori - Livario Oliger, Calò, Pietro, in Enciclopedia Cattolica, III, Roma 1949, p. 398; Bibliotheca Hagiographica Latina, Novum Supplementum, a cura di Henri Fros, Bruxelles 1986 (Subsidia Hagiographica, 70), p. 950 -, non resta che rinviare a Albert Poncelet, Le Légendier de Pierre Calo, "Analecta Bollandiana", 29, 1910, pp. 5-116, in partic. pp. 30 ss., nonché al dibattito relativo alla leggenda di s. Tommaso d'Aquino: Pierre Mandonnet, Pierre Calo et la légende de saint Thomas, "Revue Thomiste", 20, 1912, pp. 508-516; Dominicus Prümmer, A propos de la légende de saint Thomas par Pierre Calo, ibid., pp. 517-523. Il Dandolo cita due volte, esplicitamente, Pietro Calo: Chronica extensa, pp. 236 (a proposito dei miracoli di s. Donato, tra cui l'uccisione di un grande drago con un semplice sputo), 263 (a proposito della venuta in incognito di Alessandro III a Venezia nel 1177: Venetorum autem ystorie narant et frater Petrus de Clugia in legendis suis idem confirmat), e una quantità di volte senza nominarlo: cf. ibid., pp. 9, 10, 13 ss. (l'apparato della Pastorello).
89. Alludo al De translatione Imperii, in M. De Padoue, 0euvres mineures, pp. 372 ss., con l'Introduzione di Colette Jeudy-Jeannine Quillet, in partic. pp. 339 ss.
90. "Panegirico ghibellino" è stato definito il De translatione di Marsilio desunto dal Tractatus de statu et mutatione Imperii di Landolfo Colonna: Giuseppe Billanovich, I primi umanisti italiani nello scontro tra papa Giovanni XXII e Ludovico il Bavaro, "Italia Medioevale e Umanistica", 37, 1994, pp. 179-186, in partic. pp. 184-185.
91. Fu la Pastorello, sulla traccia di Henry Simonsfeld, a dimostrare la dipendenza della Extensa dalla Historia satyrica di Paolino: cf. la sua Introduzione ad A. Danduli Chronica extensa, pp. XXXII-XXXIII.
92. G. Cracco, La cultura giuridico politica nella Venezia della "Serrata", pp. 268-269, con il passo del Proemio di Paolino desunto dal ms. Vat. lat. 1960, c. 49.
93. G. Arnaldi, Andrea Dandolo doge-cronista, p. 174 n. 2.
94. L'idea di una "verità della storia" distinta dalla "storia della Verità" si farà strada lentamente solo in epoca successiva: cf. ad esempio - si tratta di un testo prodotto attorno al 1470, significativo perché vuol distinguersi da un altro testo chiaramente agiografico - Giacomo Ricci, Virginis Mariae Loretae Historia, a cura di Giuseppe Santarelli, Loreto 1987, pp. 106-107 (historiae veritatem pro viribus sequi; prius enim servanda est historiae veritas); cf. Giorgio Cracco, Alle origini dei santuari mariani: il caso di Loreto, in Loreto crocevia religioso. Tra Italia, Europa e Oriente, a cura di Ferdinando Citterio-Luciano Vaccaro, Brescia 1997, pp. 97-164, in partic. pp. 139-140.
95. Bernard Guenée, "Authentique et approuvé". Recherches sur les principes de la critique historique au Moyen Âge, in Id., Politique et histoire au Moyen Âge. Recueil d'articles sur l'histoire politique et l'historiographie médiévale (1956-1981), Paris 1981, pp. 265-278.
96. Gestarum rerum Regum atque Regnorum et Summorum Pontificum Historia a mundi creatione usque ad Henricum VII. Romanorum Augustum: ecco il contenuto della Satyrica di Paolino ben presentato, sulla base degli Excerpta pubblicati dal Muratori nelle sue Antiquitates Italicae Medii Aevi, Mediolani 1741, IV, coll. 951 ss., da G. Arnaldi, Andrea Dandolo doge-cronista, pp. 183-185.
97. Nel lungo resoconto della quarta Crociata si allude a Innocenzo III solo a cose fatte: Clerus postea catolicus Venetorum canonicos in ecclesia sancte Sophie prefecit, qui venerabilem virum Thomam Mauroceno, genere nobilem et moribus circumspectum, patriarcham constantinopolitanum concorditer elegerunt; electus quoque, elecioni consenciens, cum imperialibus et ducis nunciis, pro obtinenda confirmacione, Romam perexit (A. Danduli Chronica extensa, pp. 276-280, in partic. p. 280).
98. Giorgio Cracco, Santità straniera in terra veneta (secc. XI-XII), in Les fonctions des Saints dans le monde occidental (IIIe--XIIIe siècles), Roma 1991, pp. 447-475; Id., I testi agiografici: religione e politica nella Venezia del Mille, p. 954.
99. Ho fatto tesoro, per questa formulazione, di un giudizio relativo alla presunta "laicità" di Luigi IX di Francia (J. Le Goff, San Luigi, pp. 656-657), nonché di un interessante dibattito: État et Église dans la genèse de l'État moderne, Actes [...>, Madrid 1986, in partic. Jean-Claude Schmitt, Problèmes religieux de la genèse de l'État moderne, pp. 55-62; Giorgio Chittolini, Note sulla politica ecclesiastica degli Stati italiani nel sec. XV (Milano, Firenze, Venezia), pp. 195-208, in partic. p. 207.
100. A. Pertusi, Quedam regalia insignia, pp. 47-48.
101. Cf. la c. 12 del già citato Vat. Lat. 1960 nella riproduzione del Pertusi (ibid., tav. XXI/2). Questa miniatura, che gemella fantasticamente Paolino e il Dandolo sotto il segno della regalità, può far pensare che lo stesso Vat. lat. 1960 fosse a disposizione del Dandolo e dei suoi collaboratori della cancelleria: un altro "punto in comune" tra questo codice e il cosiddetto "codice di lavoro" (non ancora identificato), oltre a quello indicato in G. Arnaldi, Andrea Dandolo doge-cronista, pp. 182 - 183?
102. A. Danduli Chronica extensa, p. 219.
103. Cf. la voce Re in Gaetano Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica [...>, LV, Venezia 1852, pp. 257 - 264, in partic. p. 260 (per l'accusa di lesa maestà a un conte che al tempo di Carlo VII aveva assunto il titolo di Comes Dei gratia); e, per i dogi di Venezia, A. Pertusi, Quedam regalia insigniti, p. 95.
104. Cf. Michele Maccarrone, Vicarius Christi. Storia del titolo papale, Roma 1952, pp. 155-209, in partic. p. 203; Walter Ullmann, A Medieval Document on Papal Theories of Government, "English Historical Review", 61, 1946, pp. 180-201, in partic. p. 185.
105. È una dimensione, questa, che gli studiosi, intenti a presentare il Dandolo giurista, il Dandolo politico, perfino il Dandolo "umanista", non hanno finora considerato (cf. G. Arnaldi, Andrea Dandolo doge-cronista, pp. 231-232).
106. Le lodi riservate al doge della quarta Crociata, ritenuto dignus imperio, non sono comparabili con le "cautele", così bene illustrate dall'Arnaldi (Andrea Dandolo doge-cronista, pp. 262-268), messe in atto per presentare Pietro Orseolo (A. Danduli Chronica extensa, pp. 272-281, in partic. p. 279; pp. 179-184). Si può anche dire che l'Orseolo è importante, agli occhi del doge-cronista, per la storia della "santità" dei dogi, mentre Enrico Dandolo è importante per la storia della "regalità" dei dogi.
107. Rinvio solo, per il tema del re sofferente, del re Cristo, a J. Le Goff, San Luigi, pp. 719-742, in partic. pp. 719 n. 1, 739 n. 70. Il Dandolo re paziente è comunque ben diverso da san Luigi.
108. G. Cracco, Società e Stato, pp. 437-439.
109. Vittorio Lazzarini, Marino Faliero, Firenze 1963, pp. 116-117.
110. Silvana Collodo, Temi e caratteri della cronachistica veneziana in volgare del Tre - Quattrocento (Enrico Dandolo), "Studi Veneziani", 9, 1967, pp. 127-151. Sulla complessità di questa cultura e sulla difficoltà di "ordinarla" almeno secondo criteri formali, cf. Girolamo Arnaldi - Lidia Capo, I cronisti di Venezia e della Marca Trevigiana, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 2, Il Trecento, Vicenza 1976, pp. 272-337, in partic. pp. 290-291, 302-307.
111. A. Carile, La cronachistica veneziana nei secoli XIII e XIV, p. 118.
112. Il Ravignani avviò sia "un rifacimento dell'Estesa", sia "una vera e propria continuazione della Breve" (G. Arnaldi, Andrea Dandolo doge - cronista, p. 246, nn. 2-3).
113. La Brevis del Dandolo si chiudeva con il dogado di Bartolomeo Gradenigo nel 1342; la Cronaca del Caresini comincia con l'inizio del dogado del Dandolo stesso: 4 gennaio 1343.
114. G. Arnaldi - L. Capo, I cronisti di Venezia e della Marca Trevigiana, p. 292.
115. R. de Caresinis Chronica, pp. 30 - 31.
116. Ibid., p. 63 (a proposito dell'elezione, poi ritirata, del cardinale Filippo d'Alençon al patriarcato d'Aquileia). Cf. Heinrich Kretschmayr, Geschichte von Venedig, II, Aalen 1964 [Gotha 1920>, pp. 244- 245.
117. John Law, Venice and the Problem of Sovereignty in the ῾Patria del Friuli', 1421, in Florence and Italy, Renaissance Studies in Honour of Nicolai Rubinstein, a cura di Peter Denley - Caroline Elam, London 1988, pp. 135 - 147, in partic. p. 135. Com'è noto, in quest'anno, Ludovico d'Ungheria pretendeva che Venezia lo riconoscesse come suo signore e gli pagasse un tributo di 100.000 ducati.
118. Ecco l'elogio di Andrea Contarini (1368 - 1382): Hic valde catholicus et divinae paginae peritus, iustitiae et reipublicae amator eximius, pacis et hubertatis zelator assiduus esse dignoscitur (R. de Caresinis Chronica, p. 18).
119. Ibid., p. 56: considerans statum patriae notanter consistere in potentia felicis armatae, ut hostes aut forti pugna aut constanti obsidione vincantur (con l'ovvia ricaduta sul piano delle spese militari e della riorganizzazione dell'esercito).
120. Ibid., p. 49.
121. Cf., anche per le citazioni, Nicholas Mann, Petrarca e la cancelleria veneziana, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 2, Il Trecento, Vicenza 1976, pp. 517 - 535, in partic. pp. 528 - 529.
122. Nell'apparato dell'edizione del Caresini le fonti classiche - Valerio Massimo, Seneca, Boezio - sono di solito evidenziate; meno quelle bibliche: ad esempio il passo di p. 17: Insidiis suis capiuntur iniqui, è in Prov., 11, 6.
123. Paul O. Kristeller, Il Petrarca, l'Umanesimo e la Scolastica a Venezia, in AA.VV., La civiltà veneziana del Trecento, Firenze 1956, pp. 147-178, in partic. p. 167; Bruno Nardi, Letteratura e cultura veneziana del Quattrocento, in AA.VV., La civiltà veneziana del Quattrocento, Firenze 1957, pp. 101-145, in partic. pp. 101-104.
124. Mi riferisco a ben noti testi del Petrarca - al De sui ipsius et multorum ignorantia, ai Familiarium rerum Libri, XI, 8 (lettera ad Andrea Dandolo), ai Senilium rerum Libri, IV, 3 (lettera a Pietro da Bologna) -, che cito da Francesco Petrarca, Prose, a cura di Guido Martellotti - Pier Giorgio Ricci - Enrico Carrara - Enrico Bianchi, Milano-Napoli 1955, pp. 710-767, in partic. pp. 712-718, 726; 940-954, in partic. p. 944; 1076-1088, in partic. pp. 1076-1078.
125. Margaret L. King, Venetian Humanism in an Age of Patrician Dominante, Princeton (N. J.) 1986 (trad. it. Umanesimo e patriziato a Venezia nel Quattrocento, I-II, Roma 1989), pp. XVII-XXI, con i testi indicati nelle note.
126. G. Arnaldi-L. Capo, I cronisti di Venezia e della Marca Trevigiana, pp. 297-300; A. Carile, La cronachistica veneziana nei secoli XIII e XIV, pp. 107-108.
127. Venetiarum Historia, passim.
128. Ibid., pp. 255-276 (per le proles), 7-13 (per le origini troiane). Per quest'ultimo tema, cf. Hugo Buchthal, Historia troiana. Studies in the History of Medieval Secular Illustration, London - Leiden 1971, pp. 20 ss. e 53 ss., in partic. pp. 59-60.
129. Daniele da Chinazzo, Cronica de la guerra da Veniciani a Zenovesi, a cura di Vittorio Lazzarini, Venezia 1958, con la bella caratterizzazione del cronista che si trova in G. Arnaldi - L. Capo, I cronisti di Venezia e della Marca Trevigiana, pp. 307 - 310, in partic. pp. 308, 310.
130. E. Bacchetti, Clero e detenzione nella Venezia del XIV secolo, pp. 46 - 53.
131. Senato Veneto "Probae" ai benefizi ecclesiastici, a cura di Cesare Cenci, in Celestino Piana - Cesare Cenci, Promozioni agli ordini sacri a Bologna e alle dignità ecclesiastiche nel Veneto nei secoli XIV - XV, Quaracchi 1968, pp. 313 - 454, in partic. pp. 315 - 319.
132. Robert Brentano, Vescovi e vicari generali nel basso Medioevo, in Vescovi e diocesi in Italia dal XIV alla metà del XVI secolo, Atti [...>, I, Roma 1990, pp. 547 - 567, in partic. p. 567. Per i clerici veneziani in terraferma, cf. il contributo di Gian Maria Varanini in questo volume.
133. R.C. Trexler, The Spiritual Power, pp. 78 - 79; Ludwig von Pastor, Geschichte der Päpste im Zeitalter der Renaissance bis zur Wahl Pius' II. Martin V. Eugen IV. Nikolaus V. Calixtus III, I, Freiburg im Breisgau 1926 [1885> (trad. it. Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, I, Roma 1931), p. 803.
134. Si v. la descrizione della festa indetta a Venezia al tempo di Lorenzo Celsi (1361 - 1365) per celebrare una vittoria militare in F. Petrarca, Prose, pp. 1077-1089 (Senili, IV, 3).
135. Il doge compie il suo viaggio da Chioggia a Venezia cum omnibus iubilationiibus et reverentiis spiritualibus et temporalibus quae fieri potuerunt. Nam omnes praelati ac clerus regularis et saecularis, cum crucibus et devotionibus, potestates quoque et populi contratarum et subsequenter cives Venetiarum in multa letitia concurrerunt (R. de Caresinis Chronica, p. 50). È un tema, questo della ritualità pubblica, su cui già è stato scritto, ma su cui, almeno per questo periodo, ci sarebbe ancora da dire specie alla luce di ricerche stimolanti come quelle di Richard C. Trexler, Public Life in Renaissance Florence, New York-London 1980.
136. D. Pincus, The Fourteenth - Century Venetian Ducal Tomb, p. 400.
137. V. il contributo di A. Rigon in questo volume.
138. Tra il 1355 e il 1359 furono "comandati" come festivi tre nuovi giorni: nel 1355, il 16 aprile, s. Isidoro; nel 1358, il 22 luglio, s. Maria Maddalena; nel 1359, il 29 agosto, s. Giovanni Decollato (R. Morozzo della Rocca, Cronologia veneziana del 300, pp. 252-253).
139. Sul significato degli interventi dello Stato in favore della sua Chiesa cf. Giorgio Cracco, Aspetti della religiosità italiana del Tre - Quattrocento: costanti e mutamenti, in Italia 1350 - 1450: tra crisi, trasformazione, sviluppo, Atti [..>, Pistoia 1991, pp. 365 - 385, in partic. pp. 376 - 377.
140. Si v., ad esempio, Pievi e parrocchie in Italia nel Basso Medioevo (sec. XIII- XV), Atti [...>, Roma 1984.
141. È il titolo di un noto volume Histoire vécue du peuple chrétien, a cura di Jean Delumeau, Paris 1979.
142. Consiglio dei Dieci, Deliberazioni miste, Registro V (1348-1363), a cura di Ferruccio Zago, Venezia 1993, doc. 692, p. 267 (14 aprile 1361).
143. Catholici sunt et ab omni labe heresum sunt prorsus immunes: David Robey - John Law, The Venetian Myth and the "De Republica Veneta" of Pier Paolo Vergerio, "Rinascimento", 25, 1975, pp. 3 - 59, in partic. p. 55.
144. Giorgio Cracco, "Relinquere laicis que laicorum sunt". Un intervento di Eugenio IV contro i preti - notai di Venezia, "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", 3, 1961, pp. 179 - 189.
145. Oddone Zenatti, Il poemetto di Pietro de' Natale sulla pace di Venezia, "Bullettino dell'Istituto Storico Italiano del Medio Evo", 26, 1905, pp. 105 - 198; J. Law, Venice and the Problem of Sovereignty, pp. 135 - 136.
146. Francisco de Gratia, Chronicon Monasterii S. Salvatoris Venetiarum, a cura di Angelo M. Duse, Venetiis 1766. Per le vicende accennate cf. anche G. Cracco, L'età del comune, pp. 6 - 7.
147. Per l'episodio cf. G. Cracco, Un "altro mondo". Venezia nel Medioevo, p. 142.
148. The Life of Sannt Peter Thomas by Philippe de Mézières, a cura di Joachim Smet, Rome 1974, pp. 87 - 89, 208, 212; Antonio Fabris, Il legato Pierre Thomas inquisitore a Candia: storia di un rogo (1359-1360), "Le Venezie Francescane", 6, 1989, pp. 345-363, in partic. pp. 350 ss.
149. Galienne Francastel, Une peinture anti-hérétique à Venise?, "Annales E.S.C.", 20, 1965, pp. 1 - 17.
150. L'opera scritta da Pietro de Natali tra il 1369 e il 1372 s'intitola Catalogus sanctorum et eorum gestorum ex diversis et multis voluminibus collectus: cf. A. Poncelet, Le Légendier de Pierre Calo, pp. 34-36. Per il Prologo, cf. Acta Sanctorum, Parisiis 1863, I, p. XXI. Gli studi sulle raccolte di vite di santi non hanno ancora inquadrato questo catalogo: cf. Raccolte di vite di Santi dal XIII al XVIII secolo. Strutture, messaggi, fruizioni, a cura di Sofia Boesch Gajano, Fasano di Brindisi 1990.
151. Il Catalogus edito - editio princeps - a Vicenza nel 1493, fu ristampato una decina di volte nella prima metà del Cinquecento: cf. Livario Oliger, De Natalibus, Pietro, in Enciclopedia Cattolica, IV, Roma 1950, coll. 1429-1430.
152. Elisabeth Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse". Espaces, pouvoir et société à Venise à la fin du Moyen Âge, I, Rome 1992, pp. 593-594, 616.
153. Cf. Catherine Vincent, La confrérie comme structure d'intégration: l'exemple de la Normandie, in Le mouvement confraternel au Moyen Âge. France, Italie, Suisse, Actes [...>, Rome 1987, pp. 111 - 131.
154. Consiglio dei Dieci, Deliberazioni miste, Registro V, doc. 692, p. 267 (14 aprile 1361). Per ottenere il permesso di costituire la scola, i richiedenti assicurano che si riuniranno solennemente ad oblationem solo due volte l'anno, in occasione della festa dei due santi.
155. Reinhold C. Mueller, Charitable Institutions, the Jewish Community, and Venetian Society. A Discussion on the Recent Volume by Brian Pullan, "Studi Veneziani", 14, 1972, pp. 37 - 82, in partic. pp. 49 - 50.
156. Consiglio dei Dieci, Deliberazioni miste, Registro V, doc. 805, p. 311 (15 febbraio 1363): Quod pro bono et securitate status nostri ordinetur quod de cetero in aliqua scolla Veneciarum nec ad servicium alicuius scole nullus recipiatur modo aliquo vel ingenio sine expressa licentia domini, VI consiliariorum et VIII de Consilio de X extra consiliarios (con quel che segue relativo alla sorveglianza stretta cui le fraternite devono esser sottoposte). In precedenza - 11 marzo 1360, doc. 640, p. 245 - il consiglio dei dieci aveva vietato le congregationes laicorum que fiunt ad peticionem clericorum, con lo scopo di essere appoggiati per ottenere benefici ecclesiastici.
157. Rinuncio a documentare tutto questo, del resto visibile anche nelle modalità della riforma promossa dai canonici secolari di S. Giorgio in Alga di cui tra breve diremo. Per la problematica e un esempio di situazione affine, cf. Giorgio Cracco, Religione, Chiesa, Pietà, in Storia di Vicenza, II, L'età medievale, a cura di Id., Vicenza 1988, pp. 359 - 425, in partic. pp. 418 ss.
158. E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse", p. 594: "l'accumulation des célébrations eucharistiques destinées à accompagner le passage, en un chiffre élevé et symbolique, 500 ou 1000, paraît plus fréquente au XIVème siècle".
159. Per tutta questa parte relativa al Dominici e ai suoi seguaci si consenta di rinviare ai miei studi che contengono anche i necessari riferimenti alle fonti e alla bibliografia: Giorgio Cracco, Dai santi ai santuari: un'ipotesi di evoluzione in ambito veneto, in AA.VV., Studi sul Medioevo Veneto, Torino 1981, pp. 27-42 (= Des saints aux sanctuaires; hypothèse d'une évolution en terre vénitienne, in Faire croire. Modalités de la diffusion et de la réception des messages religieux du XIIe au XVe siècle. Table ronde [...>, Rome 1981, pp. 279 - 297); Id., Giovanni Dominici e un nuovo tipo di religiosità, in Conciliarismo, Stati nazionali, inizi dell'Umanesimo, Atti, Spoleto 1990, pp. 1-20. Sul modello-Caterina v. anche Sofia Boesch Gajano - Odile Redon, La ῾Legenda Maior' di Raimondo da Capua, costruzione di una santa in Atti del Simposio Internazionale Cateriniano-Bernardiniano, a cura di Domenico Maffei - Paolo Nardi, Siena 1982, pp. 15-35.
160. Un viaggio a Perugia fatto e descritto dal beato Giovanni Dominici nel 1395 […>, Bologna 1864, pp. 13, 16.
161. Si v. ad esempio Bernard McGinn, Donne mistiche ed autorità esoterica nel XIV secolo, in Poteri carismatici e informali: chiesa e società medioevali, a cura di Agostino Paravicini Bagliani - André Vauchez, Palermo 1992, pp. 153-174, in partic. pp. 155-157, 174.
162. B. Giovanni Dominici OP, Lettere spirituali, a cura di Maria Teresa Casella - Giovanni Pozzi, Friburgo 1969, p. 114; G. Cracco, Giovanni Dominici, pp. 16-17; Id., Dai santi ai santuari, p. 31, con n. 22; Daniel Borstein, Le donne di Giovanni Dominici: un caso nella recezione e trasmissione dei messaggi religiosi, "Studi Medievali", 36, 1995, pp. 355 - 361.
163. Per la Cronaca del Corpus Domini della Riccoboni e la Historia del Caffarini che raccontano le vicende della riforma domenicana in Venezia, cf. G. Cracco, Dai santi ai santuari, p. 34; e Id., Giovanni Dominici, p. 18.
164. Ai monaci il mercante lasciò anche la sua biblioteca di libri di scienza, centocinque volumi, che erano depositati presso le monache di S. Maria della Celestia: cf. B. Nardi, La cultura veneziana del Quattrocento, pp. 7 ss.
165. B. G. Dominici OP, Lettere spirituali, p. 114.
166. Reinhold C. Mueller, Les prêteurs juifs de Venise au Moyen Âge, "Annales E.S.C.", 30, 1975, pp. 1277-1302, in partic. p. 1291.
167. G. Cracco, Dai santi ai santuari, p. 32.
168. È un'espressione di Giovanni Miccoli, La storia religiosa, in AA.VV., Storia d'Italia, II, Dalla caduta dell'impero romano al secolo XVIII, Torino 1974, pp. 429-1079, partic. pp. 906-910, laddove egli cerca di distinguere tra "proposte di rinnovamento e di riforma ancora in qualche modo eversive" e "quelle prevalenti negli ambienti gerarchici ed ortodossi".
169. G. Cracco, Giovanni Dominici, p. 11.
170. Sulla conclusione dell'esperienza veneziana del Dominici, oltre ai miei studi, si v. il contributo più recente: Daniel Bornstein, Le Conseil des Dix et le contrôle de la vie religieuse à Venise à la fin du Moyen Âge, in La religion civique à l'époque médiévale et moderne (Chrétienté et Islam). Actes du Colloque [...>, a cura di André Vauchez, Rome 1995, pp. 187-200.
171. G. Cracco, Dai santi ai santuari, p. 36.
172. Guglielmo di Agresti, Introduzione agli scritti inediti del Dominici, in Giovanni Dominici † 1419. Saggi e inediti, "Memorie Domenicane", 1, 1970, pp. 49-199, in partic. pp. 80-82.
173. Carlo Ginzburg, Folklore, magia, religione, in AA.VV., Storia d'Italia, I, I caratteri originali, Torino 1972, pp. 601 - 676, in partic. p. 631; G. Miccoli, La storia religiosa, p. 945.
174. Mi si consenta di rinviare all'ultimo dei miei studi sull'argomento: "Angelica societas": alle origini dei canonici secolari di S. Giorgio in Alga, in AA.VV., La Chiesa di Venezia tra Medioevo ed età moderna, Venezia 1989 (Contributi alla storia della Chiesa di Venezia, 3), pp. 91-112.
175. Per questi aspetti, appoggiati da tutti i dati relativi, cf. ibid., pp. 98 ss.
176. Ibid., pp. 100-101.
177. Una messe di dati su questi personaggi (specie Gregorio XII) e su questi anni, anche per il decennio veneziano del Dominici, nel documentatissimo lavoro di Dieter Girgensohn, Kirche, Politik und adelige Regierung in der Republik Venedig zu Beginn des 15. Jahrhunderts, Göttingen 1996, in partic. pp. 129 ss.
178. Il doge Michele Steno aveva scritto che quella nomina veniva da Dio, non dagli uomini: ex Deo immediate fuisse (ibid., p. 134).
179. Giorgio Cracco, Lorenzo Giustiniani: la città un deserto, in Sancti Laurentii Justiniani Opera omnia, riprod. anast. Firenze 1982, § 4 (pp. n.n.).
180. Ibid.
181. Per tutti questi aspetti cf. Giorgio Cracco, Patriziato e oligarchia a Venezia nel Tre - Quattrocento, in AA.VV., Florence and Venice: Comparisons and Relations, Firenze 1979, pp. 71-98, partic. pp. 89-90; Id., Il Senato Veneziano, cap. 1, § 1.
182. G. Chittolini, Note sulla politica ecclesiastica, pp. 207-208.
183. Cf. il bel contributo di Patricia H. Labalme, No Man but an Angel. Early Efforts to Canonize Lorenzo Giustiniani (1381-1456), in AA.VV., Continuità e discontinuità nella storia politica, economica e religiosa. Studi in onore di Aldo Stella, Vicenza 1993, pp. 15-42.