DURANTI, Durante
Nacque a Brescia il 6 ott. 1718 dal conte Paolo e da Barbara dei conti Caprioli. La famiglia, originaria di Palazzolo sull'Oglio ed assai doviziosa, non vantava origini particolarmente illustri, essendo stata ammessa al Consiglio generale nel 1553 ed avendo ricevuto il titolo comitale solo nel 1706: tuttavia era stata illustrata da un altro Durante, vescovo di Brescia dal 1550 al 1558 e cardinale, che aveva ricoperto alte cariche nelle Legazioni e presso l'imperatore. Ancora bambino il D. perdette la madre e l'avo paterno, cui era attaccatissimo, ed ebbe il padre colpito da una paresi lesiva della parola e dell'intelletto. Della sua educazione si occuparono dunque due prozii paterni, curando molto gli esercizi cavallereschi e affidandolo poi ai gesuiti del collegio di S. Maria delle Grazie, dove in quel momento si trovavano come insegnanti G. B. Roberti e S. Bettinelli, ai quali il D. si legò di un'amicizia che durerà per la vita. Trasferitosi al collegio S. Luigi di Bologna, vi intraprese studi di filosofia, di lettere e di diritto sotto S. Rovetta, ma non li portò a termine perché venne richiamato in famiglia, nonostante avesse primeggiato, specialmente per la straordinaria memoria: continuerà la sua preparazione con saltuari viaggi a Venezia.
In patria venne eletto alla suprema magistratura civica lo stesso giorno in cui ebbe l'età per essere ammesso al Consiglio nobile, svolgendo lodevolmente i doveri della carica. Partecipò anche alle attività dell'ambiente colto facente capo al salotto del conte G.M. Mazzuchelli, che diventerà l'Accademia degli Erranti, anche se i suoi esordi letterari restarono piuttosto legati alle manifestazioni più frivole di quel gruppo: infatti le prime sue cose di cui si abbia notizia sono alcuni versi burleschi, inseriti nella raccolta Le lacrime in morte di un gatto, e quelli più maliziosi con cui contribui (col Mazzuchelli, il Bettinelli, il Roberti ed altri) a La morte del celebre Barbetta Ludimagistro, bresciano (Brescia 1740), cioè un capitolo sopra il gioco del tarocco (p. 7) e due sonetti (pp. 33-34) sotto il nome di Durenzio Sempiterno. Appena rientrato da Bologna aveva sposato Cecilia, figlia del conte Paolo Uggeri, che gli diede una numerosa figliolanza; ma il rapporto matrimoniale fu per alcuni anni messo in crisi da una bruciante passione che il D. concepi per un'altra donna, che lo portò a tale tensione di alterni rimorsi e slanci da spingerlo a lasciare Brescia "per fuggir l'occasion di tal pazzia".
A tale risoluzione contribui forse anche la morte del suocero, da lui stimato ed amato, occasione per la quale pronunciò e stampò la prima delle molte orazioni che costellarono la sua carriera: Orazione per la morte del savio ed onorato cavaliere Paolo Uggeri, Brescia 1747.
In realtà questo viaggio, di cui tutti i biografi e lui stesso parlano come di un'importante e formativa esperienza, fu in definitiva limitato a venti giorni a Bologna e otto giorni a Firenze (che lo entusiasmò), con un lento ritorno per Reggio e Ferrara alla ricerca dei luoghi ariosteschi. Forse questo avvenimento acquistò valore per le relazioni che gli procacciò, alcune delle quali destinate a durare per sempre: a Bologna era entrato in amicizia con G. Manfredi, fratello dello scomparso Eustachio, con G.P. e F. Zanotti, con I. B. Beccari, con D. Fabri e con F. A. Ghedini; a Firenze con M. Manni, A. F. Gori, G. Lami, G. B. Casaregi e S. Salvini, che lo vollero aggregato all'Accademia della Crusca (di questo viaggio egli stesso forni relazione con lettera da Brescia del 21 luglio 1748 a G. Renier: Arch. di Stato di Brescia, Lettere diverse del sig. conte Durante Duranti a diversi, pp. 77 ss.).
Al suo rientro in patria il D. incorse in una drammatica e romanzesca avventura. Durante la quaresima del 1750, entrato a diverbio per futili motivi con un "distinto personaggio", si batté con lui a duello e lo uccise. Le leggi venete sui duelli essendo severissime, fuggi preciffitosamente da Brescia, rifugiandosi a Castiglione delle Stiviere, dove la famiglia possedeva casa e terre. Vi rimase qualche tempo, ma poi preferi seguire i consigli dei molti amici veneziani consegnandosi alla giustizia in Venezia. Ivi trascorse due anni in carcere, applicandosi molto allo scrivere: pur avendo descritto in alcuni sonetti l'orrenda e lugubre condizione del prigioniero (Rime, p. CCXI), sappiamo dalle sue lettere che aveva "una camera lucidissima, grande, pulita che è decentissima" (Arch. di St. di Brescia, Lettere diverse…, daVenezia, 28 ott. 1750, a don G. B. Zelini) e che aveva "una compagnia sceltissima, e sopratutto letterati e scienziati", nonché "… libri da perder gli occhi, carte e penne da logorare i polpastrelli … e mensa da cacciar la fame …" (ibid., Venezia, 28 apr. 1750 all'ab. Marenzi): insomma una prigione dorata, dove anche la moglie poteva visitarlo e che, a parte "spese grosse e fatica per il processo", gli servi da pausa di riflessione e di studio. Alla fine, il 21 luglio 1752, venne emessa sentenza del Consiglio dei dieci a lui favorevole, essendo stata provata una grave provocazione. Scarcerato, rientrò a Brescia, dove lo attendevano inaspettati e trionfali festeggiamenti, che culminarono con la sua rielezione alla suprema carica municipale nel 1755. Essendo in quello stesso anno morto il vescovo di Brescia card. Querini, il D., che gli era stato molto vicino, pronunciò il 24 genn. 1755 l'Orazione in morte dell'eminentissimo cardinale Angelo Maria Querini, poi pubblicata in Lettere intorno alla morte del card. Querini raccolte da Antonio Sambuca, Brescia 1757. Frattanto, sia in carcere sia negli anni seguenti, egli aveva tessuto con calma e "molta lima" un ambizioso lavoro di poesia, che contava gli servisse da strumento per entrare in relazione con Carlo Emanuele III di Savoia, che molto ammirava. Cosi, dopo essersi assicurato l'accettazione della dedica da parte di quel re (G. Bustico, p. 22), diede alle stampe, con grande apparato tipografico di ritratti e di vignette, un'edizione egregiamente curata dal tipografo G. M. Rizzardi delle Rime del conte Durante Duranti patrizio bresciano dedicate alla S. R. M. di Carlo Emanuele re di Sardegna … (Brescia 1755), raccolta costituita da otto epistole in versi (pp. XIII-CXVIII), da sonetti e canzoni (pp. CXX-CCXXVII).
La parte più interessante, anche per le notizie sulla sua vita e sulle sue teorie estetiche, è costituita dalle epistole, molto lodate ed apprezzate ai suoi tempi. Il Baretti nella Frusta letteraria (n. 16 del 15 maggio 1764) ne fece una vera e propria esaltazione, arrivando a dire che l'Ariosto avrebbe potuto adottarle come proprie "tanto è pura la chiarezza dello stile e grande la naturalezza dei pensieri", col vantaggio in più della decenza. Molto si è scritto su questo articolo dei Baretti, sia per affermare che le Rime non avrebbero avuto tanto successo senza questo intervento a sostegno, sia per insinuare che il Baretti sarebbe stato costretto con gravi minacce dal D. a pubblicarlo: quest'ipotesi, che appare poco attendibile, fu proposta da G. B. Baseggio e diffusa dal Foscolo nel saggio su La letteratura italiana periodica, dove defini il D. "un bresciano mezzo poeta e mezzo gentiluomo" (cfr. L. Piccioni, Studi e ricerche intorno a G. Baretti…, Livorno 1899, pp. 13 n. 1, 257 s., 279, 293 s., 317, 446 s.), ma la mancanza di qualsiasi prova e il temperamento stesso del Baretti la rendono assai poco credibile, specie sulla scorta di una lettera dello stesso a G. B. Chiaramonti del 9 maggio 1764. In ogni caso il successo a Torino fu grande e immediato; il D., che vi si era recato per presentare l'opera al re, ebbe un vero trionfo in quella corte, come narra l'avvocato bresciano G.M. Montorfani, allora residente in Torino: "… egli fa in questa Corte una figura la più cospicua, la più nobile che possa immaginarsi giammai … Viene ogni giorno trattato a pranzo dagli Ambasciatori delle Corti estere, o dai Ministri di Corte, o dalla primaria nobiltà. Il libro presentato al re viene universalmente portato alle stelle …" (Lettereintorno alla morte del card. Querini, cit., p. 60). In effetti Carlo Emanuele gli diede straordinari segni di benevolenza, come la croce dell'ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro, per lui e per il suo primogenito, e la nomina a suo gentiluomo di camera. Il D. aveva inviato copie del libro a mezza Europa (Benedetto XIV, Federico II, Voltaire, ecc.), come sappiamo dalle lettere di dedica (Arch. di Stato di Brescia, Lettere diverse…, cit., pp. 1, 58, 115): dal papa ottenne in segno di gradimento la nomina a cameriere d'onore di spada e cappa nel 1757.
Al ritorno a Brescia il D. trovò insediato il nuovo vescovo, G. Molin, e strinse con lui un'amicizia che durò poi sempre: quando poco dopo quello venne promosso alla porpora, egli fu incaricato del gran discorso per l'accademia celebrativa, che pronunziò ottenendo unanime approvazione e che fu pubblicato come Orazione per la giustissima promozione dell'eminentissimo sig. cardinale Giovanni Molino vescovo di Brescia (Brescia s.d.), in cui svolgeva il tema delle qualità che occorrono ai principi. Del Molin il D. sostenne anche l'azione antigiansenista contro P. Tamburini e G. Zola. Nel 1764 pronunciò in Consiglio generale e pubblicò l'Orazione per lo sgombramento della piazza maggiore di Brescia (Brescia 1764); nello stesso anno, quando L. Manin, capitano della Serenissima in Brescia, venne promosso procuratore di S. Marco, egli lo accompagnò a Venezia e descrisse "in polite ottave" le grandi feste date per quell'occasione: Stanze per il solenne ingresso a procuratore di S. Marco di s. e. il nobiluomo sig. conte Ludovico Manin, a s. e. la nobildonna Elisabetta Grimani di lui consorte, Brescia 1764. Nel 1765 poi pubblicò a Venezia, per le nozze Zorzi-Barbarigo, La grotta di Pietro d'Abano, canti due. Questa volta si trattenne nella Serenissima per ben due anni, dividendosi fra gli studi e la vita di società, dedicandosi principalmente ai teatri: al genere drammatico egli si era gia interessato, perché sappiamo che il 9 giugno 1761 era stata rappresentata a palazzo Uggeri da dilettanti della nobiltà bresciana una sua Sara in Egitto; ora si sentì maturo per affrontare un pubblico più vasto e dette alle stampe una Virginia, tragedia, Brescia 1768.
Le Novelle letterarie di Firenze ne fecero la recensione (XXIX [1768] col.640), trovandovi "economia ben disposta, poesia ben lavorata e pulita, e l'argomento trattato adattamente a tragedia". In realtà si trattava solo di un'esercitazione letteraria, che forse sollecitò l'Alfieri alla scelta di quel soggetto.
Si cimentò ancora in questo genere stampando a Torino nel 1771 un Attilio Regolo, tragedia, dedicata al granduca Pietro Leopoldo: di questo lavoro fu detto che "senza effetti amorosi traeva lacrime", tutto teso com'era a disegnare la grandezza di Roma; tuttavia forse il D. si rese conto che lo stile tragico non gli conveniva. Pubblicò ancora una Zelinda (Brescia 1772), ma fu il suo ultimo tentativo, anche se tra i suoi manoscritti inediti figura un Quinto Fabio Massimo, tragedia.
In questo periodo nella vita del D. si inseri un'esperienza di carattere diplomatico. Già nel 1765 aveva ripreso i contatti con la casa di Savoia, ospitando nella sua villa di Palazzolo (della cui Comunità era protettore) il duca del Chiablese che si recava a Innsbruck, e in quell'occasione fu forse concertato qualcosa: di fatto nell'aprile 1771 fu convocato a Torino ed incaricato di una missione a Parma, ufficialmente per ringraziare dell'invio di un'ambasceria alle nozze di Giuseppina di Savoia, in realtà per avere "informazioni precise e relazione circostanziata sul reale stato della Corte di Parma". Egli compi la sua missione con grande scrupolo e magnificenza, presentando al ritorno non solo la relazione segreta richiestagli, ma altre due, su differenti aspetti della situazione (documenti rinvenuti all'Archivio di Stato di Torino da H. Bédarida e pubblicati in Parme et la France du 1748 à 1789, Paris 1928, pp. 61-64, e in Parme dans la politique française du XVIII siècle, Paris 1930, pp. 219-21). Nel 1770, forse in vista del viaggio a Parma, aveva pubblicato in Torino Versi sciolti a Ferdinando duca di Parma etc. per la protezione che dona al risorgimento del teatro italiano.
Il D. si recò nuovamente a Torino nel 1773, per rendere omaggio al nuovo re Vittorio Amedeo III, nella speranza di aver meritato qualche premio per la sua ambasceria: otterrà solo la conferma dei benefici già posseduti. Sarà l'ultimo viaggio in Piemonte: rientrato in patria, si dichiarò stanco di cariche pubbliche e desideroso solo "degli ozi delle Muse". Dalla giovinezza in poi era sempre venuto pubblicando versi in quasi tutte le raccolte del tempo, da Rime di vari autori bresciani viventi… raccolte da C. Roncalli Parolino, Brescia 1761, a Rime degli Arcadi, XIII, Roma 1780; nel 1776 diede alle stampe a Brescia anche i Sonettiin morte della contessa Bettoni. Finalmente nel 1777, trovandosi in villeggiatura d'estate a Palazzolo con l'amico P. Barboglio e avendo riletto con lui Ilmattino e Ilmezzogiorno del Parini, giunse alla conclusione che "si poteva alquanto più estendere la critica al costume presente": nacque cosi l'idea del poemetto satirico, che sarà poi l'opera per la quale il D. viene ricordato, L'uso, di cui le parti prima e seconda uscirono unitamente a Bergamo nel 1778 (poi anche a Venezia) e la terza a Brescia nel 1780.
L'intento era quello di trasferire l'idea del Parini, che abbraccia un solo giorno, all'intero arco della vita di un damerino del suo tempo, cosicché la parte prima è dedicata al Giovane, la seconda al Maritato e la terza, come dice il titolo essendo Ipubblicata a parte, a Ilvedovo, parte terza de L'uso.
Risulta chiaro da quanto si è detto sull'ideazione dell'opera che l'imitazione pariniana è indubbia, ammessa e data per scontata, anche nello stile e nella finzione di porgere ammaestramenti sul vivere alla moda; alla lettura però appare subito evidente che la raffinata ironia ha lasciato il posto ad esagerazioni ed esasperazioni dei comportamenti del protagonista, tali da trasformarlo in una specie di bruto, cosicché nelle cose d'amore è un trasmettitore di sifilide, nel gioco un baro, nel mangiare un ingordo, nei passatempi un uomo ignorante e volgare, e cosi via. Insomma il poema presenta un personaggio cupo e grottesco, e solo nelle forme e nell'impostazione stilistica ricorda il modello; se alcuni passi, come il nuovo arredamento del palazzo in occasione delle ricche nozze forestiere, appaiono divertenti e abbastanza graffianti, nel complesso l'opera ha toni didattici e prolissi da sermone.
Comunque tra i contemporanei il consenso fu unanime, se A. Rubbi, nel VI dei suoi Dialoghi col sig. Andrès in difesa della letteratura italiana (Venezia 1787), poteva mettere il Parini e il D. sullo stesso piano, Le Efemeridi letterarie di Roma (VII [1778], 25, pp. 198-200), rivelando che l'anonimo autore de L'uso era "uno dei più eletti Cigni della Lombardia, il conte Durante Duranti", riportò una critica lusinghiera e un sunto del poema. Lo stesso Parini in una lettera del 17 apr. 1778 (cfr. L. Caretti, G. Parini, poesie e prose, Milano-Napoli 1960, p. 641) al D., che gli aveva inviato una copia de L'uso, rispose con un tono che difficilmente può esser considerato ironico, come si è preteso, e con lodi davvero sperticate, fino alla dichiarazione di non essere certo più "unico" (la dedica del D. era "all'unico immortale Parini") o alla frase "ora mi avveggo che finora non erano scesi a combatter meco che pigmei".
La carriera letteraria e la vita del D. si chiusero con un atto di umana solidarietà: il villaggio di Bagolino era stato distrutto da un incendio e gli abitanti si erano rivolti alla magistratura civica bresciana per urgenti soccorsi; egli si fece loro patrocinatore, pubblicando il suo ultimo lavoro: Orazione detta nel pieno General Consiglio della città di Brescia a favore della supplica dei miserabili abitanti di Bagolino, Brescia 1780.
Il D. mori il 14 nov. 1780 (o, secondo alcuni, il 24 novembre), colto da apoplessia nell'avita villa di Palazzolo sull'Oglio.
Lasciò un gran numero di manoscritti inediti, ora irreperibili, il cui elenco è pubblicato da V. Peroni (p. 23), la maggior parte allora esistenti in originale presso la famiglia Duranti e in copia presso il Peroni stesso; ira l'altro comprendevano un Trattato di virtù morali e politiche per istruzione di un Principe nato a regnare, una Vita del cardinal Durante Duranti vescovo di Brescia e una raccolta di Rime bernesche. Per la corrispondenza, oltre al codice citato, un nutrito gruppo di lettere al Mazzuchelli è conservato presso la Biblioteca apostolica Vaticana in Roma, cod. Vat. lat. 9287.
Fonti e Bibl.: Novelle letterarie di Firenze, VII (1746), col. 661; VIII (1747), col. 440; XXII (1761), col. 558; XXVIII (1767), col. 655; XXIX (1768), col. 440; n.s. 111 (1772), coll. 42 s..; n.s. XI (1780), col. 826; Poesie oneste delp. Pier Luigi di Gesù Maria … consacrate al nob. e val. sig. conte D. D., Padova 1766; G.B. Corniani, Elogio del conte D. D…., Brescia 1781; A. Brognoli, Elogi di bresciani per dottrina eccellenti del sec. XVIII, Brescia 1785, pp. 282, 284, 313-51; P. L. Grossi, Rime, Napoli 1792, pp. 20 s.; G. A. Moschini, Della letter. venez. del sec. XVIII fino a' nostri giorni, I, Venezia 1806, p. 94; V. Peroni, Biblioteca bresciana, II, Brescia 1819, pp. 20-23 (ed. anast., Bologna 1968); F. Gambara, Gesta de' Bresciani durante la Lega di Cambrai, Brescia 1820, p. 167; G. B. Corniani, Isecoli della letter. ital. dopo il suo risorgimento, II, Milano 1833, pp. 376 ss.; E. De Tipaldo, Biogr. d. Ital. illustri, VIII, Venezia 1841, pp. 227 ss. (art. di G.B. Baseggio); G. Dandolo, La caduta della Rep. di Venezia e i suoi ultimi cinquant'anni, App., Venezia 1857, p. 165; G. Agnelli, Precursori e imitatori del "Giorno" di G. Parini, Bologna 1888, pp. 75.85; N. De Sanctis, La "Virginia" del conte D. D., studio drammatico, Palermo 1896; A. Bertoldi, IlD. e il Parini, in Prose critiche di storia e d'arte, Firenze 1900, pp. 78-87; L. Capra, L'ingegno e l'operadi S. Bettinelli, Asti 1913, pp. 213-21 (due lettere del D. al Bettinelli); P. Guerrini, Una storia peruna tragedia, in Brixia sacra, VII (1916), pp. 237 ss.; G. Bustico, Un imitatore bresciano del Parini (Brescia nel sec. XVIII), Berlino s.a.; Id., Unpoeta bresciano alla corte di Carlo Emanuele III, D. D., in Torino, XIV (1934), 9, pp. 14-22; H. Bédarida, Les "Rime" de D. D., Paris 1934, in Mélanges de philologie, d'histoire et de littératureofferts à Henri Hauvette, Paris 1934, pp. 425-36; G. Natali, IlSettecento, Milano 1950, pp. 23, 432, 693, 712, 760, 960, 1184; C. Godi, Un equilibriodifficile: l'amicizia fra il Mazzuchelli e il Querini, in Aevum, XXXVI (1962), p. 95; C. von Wurzbach, Biograph. Lex. des Kaiserthums Oesterreich, III, p. 394.
G. Fagioli Vercellone