Vedi DURA-EUROPOS dell'anno: 1960 - 1994
DURA-EUROPOS (τὰ Δοῦρα, Εὔρωπος, Eurōpus)
Colonia macedone, fondata probabilmente da un satrapo ignoto, Nicatore, del primo periodo seleucidico, nel luogo dell'antica Dura. La città, che portava il nome semitico di Dura e quell6 macedoniéo di Europos, e che era distinta da altre dello stesso nome per mezzo dell'indicazione πρὸς ᾿Αραβίᾳ, ovvero ἐν Παραποταμίᾳ, è stata oggetto di una esplorazione sommaria fatta da J. H. Breasted nel maggio 1921 e di scavi eseguiti da F. Cumont nel 1922-1923 seguiti da grandi campagne di scavi, opera della missione della Yale University dal 1928 al 1936 nel luogo dell'attuale località di aṣ-Ṣaliḥīyyah, le quali hanno condotto a importanti risultati.
Appare sempre più certo che la colonia macedonica era fin dal principio una città abbastanza grande, circondata da mura il cui percorso era press'a poco identico a quello delle mura ora esistenti.
La storia della cinta fortificata di D. è, nelle grandi linee, la seguente. La cinta primitiva consisteva di un muro solido e alto, formato, di una base di pietra tagliata con una soprastruttura di mattoni crudi; essa circondava tutta la città ed era rafforzata qua e là da torri, costruite nella stessa maniera. Sul lato E della città era costruita una cittadella oblunga in pietra tagliata. Nella cinta si aprivano quattro porte: due principali, di cui una sul lato del deserto: la cosiddetta porta di Palmira (n. 2 sulla pianta), e l'altra (ora distrutta) sul lato opposto, il lato del fiume, all'estremità E della stessa strada; e due sussidiarie: una sul lato del deserto a S della porta principale, che venne poi chiusa, e una quarta più piccola sul lato N (n. 4 sulla pianta). Le mura di cinta furono gradualmente ricostruite usando la pietra tagliata anche per la parte superiore del muro e delle torri. L'opera di fortificazione non fu mai ultimata. Entro la cittadella fu costruito un palazzo, non però i progettati alloggi militari, e delle mura non fu toccata la parte N-E, che rimase nello stato originario fino all'occupazione romana.
Del periodo seleucidico sappiamo poco. Ma pare certo che la pianta della città, quale l'abbiamo oggi, sia stata opera di architetti dei Seleucidi, i quali adattarono alla topografia del luogo lo schema d'Ippodamo di Mileto. Edifici monumentali coronavano le due colline dominanti la città. Su quella della cittadella stava un palazzo, probabilmente il palazzo del governatore della provincia seleucidica di Parapotamia; su quella della "ridotta" (n. 19) che certamente era l'acropoli di Europos, era probabilmente lo Strategèion e dietro di esso un tempio dedicato, probabilmente, a Giove Olimpio (più tardi ricostruito parecchie volte al modo orientale e dedicato a Zeus Mègistos). Il centro della città fu occupato da un mercato e dall'altro lato della strada principale stava un tempio dedicato ad Apollo e Artemide, divinità dinastiche dei Seleucidi. In epoca parthica esso fu ricostruito al modo orientale e dedicato ad Artemide Nanaia (n. 5).
Il periodo più brillante della storia della città fu quello della dominazione parthica, durante il quale D. fu una fortezza importantissima sul confine settentrionale dell'impero dei Parthi e in pari tempo città carovaniera, luogo di transito e di riposo per le carovane che andavano e venivano tra Palmira e la bassa Mesopotamia. In questo periodo tutta la città venne ricostruita. Nella cittadella fu edificato un sontuoso palazzo di tipo parthico (n. 1); lo Strategèion dell'acropoli fu ingrandito e dietro di esso fu costruito un edificio occupato nel basso periodo parthico dallo stratego della città. Importantissimi santuarî di tipo babilonese vennero costruiti nel sec. I d. C. e all'inizio del II da ricchi cittadini: uno di Artemide Nanaia e vicino a questo uno dedicato a Hadad e Atargatis, nel centro della città (n. 7); un altro di Zeus Mègistos; uno di Artemide Azzanathkona, una divinità probabilmente locale, presso le mura settentrionali (n. 8); e nei due angoli S-O e N della cinta murale due templi di divinità militari, dedicati, l'uno a Bēl, l'altro ad Aphlad, figlio di Hadad, il dio protettore della grande città vicina del medio Eufrate, ‛Anah (n. 11). Soprattutto importanti sono le pitture parietali del tempio di Bēl. Due scene sono particolarmente ben conservate: nella prima (65-75 d. C. circa) due sacerdoti compiono una lustrazione e offrono incenso dinanzi a donatori indigeni; nella seconda (primi del sec. III) un tribuno romano assiste agli onori che un sacerdote rende a tre divinità di Palmira, alle Tychai, e al vexillum della coorte. La divisione del campo in registri sovrapposti, la frontalità dei personaggi e la loro distribuzione nell'interno d'una decorazione architettonica sono indizî precursori dell'arte tardo-antica. Presso le mura verso il deserto, fu costruito un tempio ad Adone (n. 14). Altri due servivano al culto di due divinità identificate con Zeus; uno, presso le mura verso il deserto, era dedicato a Zeus Kỳrios, il palmireno Ba`alshamīn, un altro nella parte E della città a Zeus, con l'epiteto di Theòs. Finalmente nel centro della città sorse un santuario costruito dai Palmireni e dedicato nel primo periodo della sua esistenza agli dèi protettori di Palmira. Più tardi fu ricostruito e dedicato agli dèi protettori di Palmira e di Dura, loro "genî", Fortune o Gaddē. Il Gad di Dura era il dio dinastico di Alessandro e dei Seleucidi, Giove Olimpio. Era rappresentato sul bassorilievo di culto, con vicino il fondatore della città, Seleuco Nicatore, in atto di coronarlo. Il tempio dei Gaddē era unito ad una casa privata che serviva da fonduq ai mercanti di Palmira residenti nella città.
Tutta l'area inclusa nelle mura era occupata da case private, di tipo orientale, babilonese, talune assai grandi e sontuose. Finalmente, presso il mercato ellenistico, sorgeva un vero e proprio mercato orientale: una serie di strade con portici, che davano accesso a botteghe, grandi e piccole, dove si fabbricavano e vendevano gli oggetti richiesti dagli abitanti della città e dei villaggi vicini, dal personale delle carovane, dai beduini del deserto siriaco e mesopotamico. D. era in questo tempo certamente non solo un centro amministrativo e militare dell'impero parthico e una città carovaniera, ma anche, come dimostrano parecchi documenti scritti, una città con un territorio fertilissimo, che produceva grano e vino in abbondanza e un mercato per il bestiame (incluse le bestie da soma, asini e cammelli) e la lana dei beduini del territorio desertico e semidesertico confinante con la zona coltivata, sita lungo l'Eufrate.
Ricchissima era anche la necropoli della città che si stendeva nel deserto davanti alle mura. Constava di varî monumenti sepolcrali. I più originali erano mausolei di tipo probabilmente iranico: torri monumentali, coronate da una piattaforma. Torri funebri dello stesso tipo non sono conosciute che nella regione mesopotamica. Le più celebri sono quelle di Palmira, di tipo un po' differente dalle torri di Dura.
Dopo due secoli di dominazione parthica, D. fu incorporata nell'Impero romano. Fu presa prima da Traiano, in onore del quale i soldati della legione III Cirenaica eressero, vicino a D. sulla strada militare dell'Eufrate, un vero e proprio arco di trionfo, con iscrizione latina; poi Marco Aurelio e Lucio Vero l'incorporarono definitivamente nella provincia di Siria, nel 165 d. C. Da allora, e fino a quando non fu presa dai Sassanidi, D. fu uno dei praesidia romani del limes eufratico, probabilmente la fortezza più importante, sita a circa 100 km dal confine romano-parthico. Ebbe una guarnigione romana che nel tempo degli Antonini, constava probabilmente di una coorte ausiliaria (II Ulpia). Nel tempo di Severo e di Caracalla il presidio di D. acquistò un'importanza abbastanza grande; divenne luogo di concentramento di forze per le spedizioni contro i Parthi. In questo tempo la parte N della città fu trasformata in un vero e proprio accampamento romano, con un pretorio monumentale (n. 24), una grande casa per il comandante, alloggiamenti per la truppa (n. 30), terme sontuose (n. 23), un anfiteatro castrense (n. 29), un campo di Marte e varî santuarî militari, tra cui quello di Mitra (n. 27), riccamente dipinto, e quello di Giove Dolicheno erano probabilmente i più importanti. Presso il pretorio, il tempio di Artemide Azzanathkona fu in parte trasformato dai Romani in un annesso del pretorio, il centro amministrativo delle coorti ausiliarie. In una delle stanze che circondavano il cortile del tempio venne trovato l'archivio militare di queste coorti, con parecchi documenti in latino, che illustrano la vita dell'esercito romano. La guarnigione di D. in questo tempo fu rinforzata. Una coorte miliaria (XX Palmyrenorum) e parecchie vexillationes legionariae formarono il nucleo della forza.
Più importante ancora dal punto di vista militare fu D. nel tempo in cui i Sassanidi cominciarono i loro attacchi contro la provincia di Siria, cioè al tempo di Alessandro Severo e dopo D. divenne la sede del dux ripae dell'Eufrate. La guarnigione fu rinforzata nuovamente e un gran palazzo pretorio fu costruito per il dux nell'angolo N-E della città.
Nel periodo parthico poco venne fatto per le fortificazioni della città. La cittadella non fu finita e la parte non terminata delle mura fu lasciata nello stato nel quale era nel tardo periodo ellenistico.
Padroni della città, i Romani diedero grande importanza alla cinta murale di Dura. Le torri vennero rafforzate e la parte più debole delle mura, quella a N-E dal lato del deserto, fu ricostruita. Ma questi lavori non bastavano. In previsione di un assedio da parte dei Persiani sassanidi (256 d. C.), i Romani provvidero a rinforzare la cinta murale per mezzo di due terrapieni a scarpata, uno più basso verso la campagna, e uno, alto e forte, all'interno della città, sacrificando la bella strada che correva lungo le mura dal lato del deserto: gli edifici prospicienti la strada furono in parte distrutti, in parte sepolti.
Ma i Sassanidi, assediata la città, riuscirono a prenderla per mezzo di tre gallerie sotterranee, le quali rovinarono due torri della cinta, e di un vallo alto e forte, perpendicolare al muro di cinta e più alto di esso. Il vallo, tuttora esistente, diede accesso agli assedianti alla parte S-O delle mura. Tutte le gallerie sono state ritrovate, quasi intatte. Contro due di esse, i Romani scavarono controgallerie; in una furono rinvenuti gli scheletri di soldati romani e persiani caduti combattendo accanitamente nell'oscurità.
Sotto la dominazione romana D. rimase un importante centro agricolo, commerciale e industriale, ma non fu più un'importante città carovaniera. Il commercio carovaniero di Palmira preferì in questo periodo, alla via dell'Eufrate, quella lungo il deserto, la quale conduceva direttamente alla bassa Mesopotamia. Parecchi documenti privati su papiro, trovati a D., e parecchi graffiti di case private ci dànno un'idea della vita economica della città in questo tempo. Risulta dai documenti che i cittadini erano in gran parte commercianti, prestatori di denaro e mercanti di campagna, come i loro discendenti che risiedono nella vicina città moderna di Deir ez-Zōr. Ma l'antica ricchezza era assai scemata e ci si contentava ormai di ricostruire e modificare gli edifici esistenti. L'attività edilizia si limitava alle costruzioni militari e a qualche edificio di culto. In questo periodo, una casa privata della via lungo le mura fu trasformata in chiesa cristiana (n. 17) e altre nella stessa strada vennero in parte distrutte per fare posto a una sinagoga (n. 18).
Presa e distrutta dai Persiani sassanidi poco dopo il 256 d. C., D. non fu più rioccupata dai Romani. Forse subito dopo la presa della città essa servì per qualche anno come posto militare sassanide. Forse a questo periodo appartiene una pittura trovata in una casa privata che rappresenta una battaglia tra Persiani sassanidi e Romani, battaglia vittoriosa per i Persiani. Ma la completa mancanza di monete posteriori al 256 dà la prova definitiva che D. in questo tempo non fu se non un posto militare abbandonato dalla popolazione civile. Al tempo di Giuliano l'Apostata, la città era già un tratto di deserto (secondo Ammiano Marcellino l'imperatore, durante la sua ultima spedizione contro i Persiani, cacciò leoni tra le rovine di Dura).
Lo scavo sistematico di D., i ritrovamenti fatti nelle rovine dei templi, degli edifici pubblici e privati e delle torri delle mura, specialmente le numerosissime iscrizioni, sia monumentali sia dipinte a graffito sull'intonaco, varî documenti e migliaia di monete, moltissimi affreschi che adornavano edifici privati, religiosi e pubblici, parecchie opere di scultura e prodotti d'arte industriale (specialmente importante è la serie di oggetti militari: scudi dipinti, corazze di uomini e di cavalli, frammenti e proiettili di catapulte, ecc.) permettono di renderci conto non solo delle vicende politiche e della vita economica della città ma anche della costituzione cittadina e della vita sociale, militare, religiosa e artistica.
D. è la prima città greca della Mesopotamia di cui possiamo formarci un'idea più o meno chiara. Pare che essa fosse una città tipica del suo genere, cioè una tipica colonia macedonica, trasformatasi poi gradualmente in un centro commerciale e industriale d'una certa importanza, di popolazione e cultura miste, greco-semitiche, con parecchi elementi iranici e anatolici. Il nucleo della popolazione era formato dai discendenti dei coloni macedoni che, fieri della loro origine, costituivano l'aristocrazia cittadina. Parlavano greco, ricevevano un'educazione greca e mantenevano ufficialmente i culti della colonia macedone, quelli di Zeus e di Apollo, del fondatore della città Seleuco Nicatore e dei suoi antenati (πρόγονοι). Quasi tutti i documenti pubblici, religiosi e privati trovati a D. sono in greco e datati in base all'èra seleucidica (con l'aggiunta di una data dell'èra parthica, nel periodo della dominazione dei Parthi); alla data si aggiungono talvolta i nomi dei sacerdoti eponimi cittadini delle divinità greche già ricordate. Ma questi aristocratici di D. si dicevano, non erano, greci. Già nell'epoca parthica, mentre gli uomini portavano nomi greci, le donne quasi senza eccezione avevano nomi semitici. Accanto all'aristocrazia macedonica ne è sorta una semitica, formata di immigrati che, presto mescolatisi con i Greci, li semitizzarono. È un fatto caratteristico che, mentre i culti ufficiali erano greci, tutti i templi finora scavati, a eccezione dei santuarî dei soldati romani, erano dedicati a divinità orientali e, come apprendiamo da parecchie iscrizioni, frequentati da quell'aristocrazia greco-macedonica che ufficialmente si proclamava devota ai culti greci. Tanto meno si curavano del culto ufficiale della città le famiglie semitiche e iraniche. Esse hanno subito un certo influsso greco e si sono anche ellenizzate in certa misura, ma conservando la loro religione, imponendola anzi alla popolazione greca.
È probabile che nelle epoche ellenistica e parthica soltanto i membri dell'aristocrazia greca avessero diritto di cittadinanza e di chiamarsi "Europei" (Εύρωπαῖοι). Essi ricoprivano le magistrature cittadine, ed erano membri della boulè e dell'ekklesìa, se tali istituzioni esistevano a D. nell'epoca parthica. Gli altri abitanti erano residenti, non cittadini, e, in contrasto con gli "Europei", si chiamavano Durani (Δουρανοί). Il magistrato supremo era lo stratego epistate; gli altri magistrati inferiori erano gli agoranòmoi, i chreophỳlakes e, forse, un tesoriere (tamìas). Questa costituzione si conservò immutata sotto la dominazione romana. Dapprima probabilmente municipio, D. sotto Caracalla o Alessandro Severo divenne colonia romana (colonia Aurelia Antoniniana Europaeorum). A quel tempo, aveva certo una boulè che si riuniva in un piccolo teatro, costruito probabilmente sotto Caracalla o dopo di lui, nel cortile del tempio di Artemide Nanaia. Ma, nonostante le apparenze, D. non era una città greca vera e propria. L'ufficio dello stratego, nelle epoche parthica e romana, più che alla magistratura greca di cui aveva il nome, assomigliava a quello semitico di uno sceicco ereditario. Due iscrizioni del mitreo ci mostrano, nell'epoca romana, uno stratego speciale palmireno come comandante di una milizia locale, un corpo di sagittarî (τοξόται), probabilmente arabi, organizzato alla palmirena, vestito e armato come i celebri arcieri parthici. Questa milizia faceva la polizia del deserto e proteggeva le carovane sulle strade che conducevano, lungo l'Eufrate e attraverso il deserto, verso Palmira. Nell'epoca di Severo fu sostituita dai cavalieri della cohors XX Palmyrenorum. Soldati di questa milizia e cavalieri della coorte Palmirena si trovano probabilmente rappresentati talvolta in disegni graffiti sulle mura di varî edifici. Non è improbabile che una milizia dello stesso genere esistesse già nell'epoca parthica, accanto alla guarnigione parthica e alla milizia cittadina di opliti armati e vestiti alla guisa macedonica.
Anche la struttura sociale di D. ha subito, nell'epoca parthico-romana, una forte influenza semitica. Gruppi di famiglie, anche di origine greca, hanno adottato l'organizzazione semitica di tipo eminentemente tribale. E anche nella vita privata e domestica di questo periodo D. aveva assunto un aspetto più orientale che greco. Gli abitanti di D. dimoravano in case di tipo orientale, con una parte riservata alle donne. Vestivano ed erano armati alla maniera orientale, parthico-semitica, e usavano più i prodotti dell'arte locale che della greca.
Certo nel periodo parthico e romano D. era città molto amante dell'arte, specialmente della pittura. Tutti i templi di D. erano decorati con pitture, e così anche gli edifici pubblici e privati. Le rovine di D. ci hanno conservato più pitture murali che tutte le città del mondo romano e orientale, eccettuate Pompei ed Ercolano. I pittori di D. erano fieri della loro arte; certo appartenevano a una scuola che ha creato un suo proprio stile pittorico, non greco né semitico e che si potrebbe forse definire greco-semitico con forti elementi iranici. Di questo stile si sono valsi per decorare edifici di carattere e destinazioni svariati. Appare naturale di trovarlo nella decorazione dei templi di divinità locali o orientali, palmirene, fenicie, ecc., trasportate a D. e nella decorazione di case private; sorprende di più il trovarlo, mescolato con altri elementi, nella decorazione del piccolo battistero cristiano, della sinagoga, tutta rivestita di pitture, e del mitreo. Pare che in questa parte del mondo antico la tradizione greco-iranico-semitica sia stata la più forte. L'importanza della pittura di D. consiste appunto in questo suo carattere greco-iranico-semitico. Assistiamo qui al formarsi dell'arte sassanide; intravvediamo per mezzo di questi dipinti il lungo svolgimento dell'arte iranica postachemènide, che non ha subito interruzioni nel periodo parthico, anzi si formò in quell'epoca; e per la prima volta abbiamo materiali che ci fanno sentire l'influsso che quest'arte greco-iranico-semitica ha avuto sullo sviluppo dell'arte cristiana. Sotto questo rispetto, gli affreschi del tempio di Bēl (generalmente chiamato Tempio degli Dèi Palmireni) e del tempio di Zeus Theòs, quelli del mitreo, e specialmente quelli della chiesa cristiana e della sinagoga hanno un'importanza capitale; la loro scoperta inaugura una nuova epoca nello studio dell'arte del tardo Impero romano e del Medioevo.
Non meno importante è D. per lo studio delle religioni orientali nelle epoche parthica e romana, quando si sono formati i culti universalistici e proselitistici che hanno invaso l'Impero romano e che per un certo tempo ne hanno formato la religione ufficiale. D. ci ha fornito templi, oggetti di culto, rappresentazioni sacre di quasi tutti i più importanti culti orientali dell'epoca greco-romana: la dea Syria, Mitra, Giove Dolicheno, il grande dio solare di Aureliano.
(† M. Rostovzev)
Un aspetto rivelatore dell'importanza dell'arte di D. ci è dato dalle pitture di un edificio cristiano e della sinagoga: il primo decorato con scene del Nuovo Testamento, la seconda con scene dell'Antico. In entrambi le scene occupano il posto riservato nei templi pagani della città alla rappresentazione delle divinità o di atti di culto. Dal punto di vista stilistico le pitture del battistero dell'edificio cristiano sono almeno in parte illusionistiche, mentre quelle della sinagoga presentano figure e particolari delimitati entro linee di contorno ben definite. Gli episodî sono narrati attraverso la paratassi di più scene (v. illustrazione) e vi si rilevano quegli stessi procedimenti di veduta complessiva e di inquadratura che sono ben noti nell'arte monumentale dell'Impero (ad esempio, nella Colonna Traiana). Ma l'ambientazione delle scene è limitata a ciò che è strettamente richiesto dall'azione dell'episodio in questione e non è stato ricercato alcun effetto compositivo attraverso motivi naturalistici o rappresentazioni paesistiche. In questo senso le rappresentazioni di carattere narrativo dell'edificio cristiano e della sinagoga rivelano una stretta affinità con i procedimenti della illustrazione di manoscritti e tale impressione è confermata nella sinagoga dalla presenza di cicli compositivi che rappresentano una successione di episodî dei libri della Bibbia. Sono ancora oggetto di ricerca gli antecedenti di tali cicli, comunque sembra ormai probabile che la rappresentazione narrativa di soggetti dell'Antico Testamento presso gli Ebrei precedette gli inizî dell'arte cristiana (cfr. anche s. v. Bibbia).
(A. Perkins)
Bibl.: Sugli scavi: J. H. Breasted, Oriental Forerunners of Byzantine Painting, Chicago 1924; F. Cumont, Fouilles de Dura-Europos, Parigi 1926; The Excavations at Dura-Europos, Preliminary Report, New Haven, I-X, 1929-1952; Final Report IV, Minor Finds, New Haven 1943-49 (ceramica, tessuti, lampade, bronzi); Final Report V, 1, New Haven 1959 (papiri); Final Report VI, The Coins, New Haven 1949; Final Report VIII, 1, The Sinagogue, New Haven 1956 (altri Final Reports in preparazione). Sulla cultura artistica della città è fondamentale: M. Rostovzev, Dura and the Problem of Parthian Art (Yale Classical Studies, V), New Haven 1935, p. 157 ss.; id., Dura-Europos and its Art, Oxford 1938 (con bibl. precedente). Sulle pitture della sinagoga: Du Mesnil du Buisson, Les peintures de la synagogue de D. E., Roma 1939; F. Sonne, The Paintings of the D. Synagogue, in Hebrew Union Coll. Ann., XX, 1947, pp. 255-362; E. L. Sukenik, La sinagoga di D. E. e le sue pitture (in ebraico), Gerusalemme 1947; R. Meyer, Die Figuren Darstellung in der Kunst des späthellenistischen Judentums, in Judaica, V, 1949, pp. 1-40; H. L. Hempel, Zum Problem der Anfänge der AT-Illustration, in Zeitschr. für die alttestamentliche Wissenschaft, LXIX, 1957, pp. 103-31.
(†M. Rostovzev - A. Perkins)
Firme di artisti. - Le iscrizioni trovate a D. hanno fatto conoscere un ristretto numero di nomi di artisti che svolsero la loro opera nella città. Tali nomi sono particolarmente notevoli in quanto, essendo per lo più semitici o iranici, confermano il carattere orientale dell'arte di D. anche sul piano etnico.
Dal seguente elenco sono esclusi i nomi presenti nelle iscrizioni medio-iraniche che accompagnano diversi affreschi della sinagoga, non tanto per l'incerta lettura dei nomi stessi quanto per l'impossibilità di determinare, per il momento, se si tratti di firme di artisti o di visitatori. Essendo su questo punto i pareri discordi, ci limiteremo a indicare nella bibliografia gli scritti più importanti. Sono parimenti esclusi i nomi per i quali è incerto se appartenessero ad artisti.
1. Ilashamsh ('lhshmsh, ᾿Ιλάσαμσος). - 1°. - Pittore che in un'iscrizione greca dichiara di aver dipinto due personaggi di una serie, raffigurati in atto di sacrificare. La pittura si trova su una parete del cosiddetto Tempio degli Dèi Palmireni e risente fortemente l'influsso della pittura palmirena. È stata datata (F. Cumont) alla fine del I sec. d. C. (il tempio ha come terminus ante l'anno 115 d. C.) (F. Cumont, Fouilles de Doura-Europos (1922-1923), Parigi 1926, pp. 81; 362, n. 6 c).
2. Ilashamsh ('lhshmsh). - 2°. - Pittore, figlio di Selat (vocalizzazione incerta; adattamenti greci di questo nome hanno Σελαϑεῖ, Σαλατᾶς), il quale decorò, insieme al pittore Tōmā-, una stanza della cosiddetta Casa dell'Affresco dei banchetti. L'iscrizione palmirena che ricorda l'opera dei due artisti è datata all'anno 505 dell'èra seleucide, cioè al 193-194 d. C. (The Excavations at Dura-Europos. Preliminary Report of the Sixth Season, New Haven 1936, pp. 167-169, n. 680; Du Mesnil du Buisson, Inventaire des inscriptions paimyréniennes de Doura-Europos, Parigi 1939, pp. 14-16).
3. Maximus (Μάσιμος). - Architetto (militare?) ricordato in un ritratto dipinto nel soffitto del tempio di Artemide (Μάσιμος οἰκοδόμος) (The Excavations, cit., pp. 298; 300, n. 792).
4. ‛Ogā (‛g'; vocalizzazione incerta). - Scultore, autore di un rilievo, raffigurante il dio Arṣū, sul quale è ricordato (Du Mesmi du Buisson, Inventaire, cit., pp. 28-29; H. Ingholt, Inscriptions from Dura-Europos, in Yale Classical Studies, xiv, 1955, pp. 138-139).
5. Orthonobazos (᾿Ορϑονοβάζος). - Scultore, figlio di Goras, ricordato in un iscrizione greca posta su una cornice del tempio di Zeus (F. Cumont, Fouilles, cit., pp. 226227; 443, n. 121 a; tavv. lxxxvi-lxxxvii).
6. Tōmā (t'wm'). Pittore; nel 193-194 d. C. decorò, con Ilashamsh 2°, una stanza della cosiddetta Casa dell'Affresco dei banchetti (The Excavations, cit., pp. 167-169, n. 680; Du Mesnil du Buisson, Inventaire, cit., pp. 14-16).
7. Yarḥay ('Ιαραῖος). Scultore, ricordato in un iscrizione palmirena come autore di un rilievo cultuale (v.) del tempio di Zeus, datato al 31 d. C. (The Excavations at Dura -Europos. Preliminary Report of the Seventh and Eighth Seasons, New Haven 1939, p. 309, n. 915, tav. xxxvii).
Bibl.: Le sole firme di artisti che siano state oggetto di studî specifici sono quelle (supposte) degli affreschi della sinagoga. La tesi che si tratti di firme di artisti è stata sostenuta da A. Pagliaro, Le iscrizioni pahlaviche della sinagoga di Dura-Europo, in Rendiconti R. Acc. d'Italia, ser. VII, vol. II, 1941-42, pp. 587-616; id., Date e pittori nella sinagoga di Dura-Europo, in Riv. degli Studi Orientali, XXVIII, 1953, pp. 170-173; F. Altheim-R. Stiehl, Inscriptions of the Synagogue of Dura-Europos, in East and West, IX, 1958, pp. 7-28. La tesi che le firme degli affreschi rappresentino nomi di visitatori è stata sostenuta da B. Geiger, in The Excavations at Dura-Europos. Final Report, VIII, i, The Syangogue, New Haven 1956, pp. 283-317.
(G. Garbini)