Duecento e Trecento, lingua del
Si assumono come riferimenti cronologici simbolici di questa voce il 1211, anno del primo documento fiorentino conservato, e il 1375, anno della morte di Boccaccio.
Il Duecento è il secolo nel quale il volgare si afferma pienamente nelle scritture; ma questo vale, nel Duecento e ancora nel Trecento, per una pluralità di volgari, ai quali, soprattutto nel Duecento, si affiancano nell’uso letterario anche il provenzale e il francese. Il fiorentino, che all’inizio è solo un volgare fra gli altri e non il più importante, si afferma tra il secondo Duecento e il Trecento come il volgare di maggiore prestigio, che sarebbe poi diventato la base della lingua letteraria italiana, grazie anche a ➔ Dante, ➔ Francesco Petrarca e ➔ Giovanni Boccaccio. Si assume qui, perciò, una prospettiva basata principalmente sul fiorentino e, con esso, sui volgari toscani, presentando alcuni aspetti esemplari della lingua pratica e scientifica e di quella letteraria in prosa e in versi.
In prospettiva storica, più che di lingua sarebbe corretto parlare di lingue del Duecento e del Trecento. Prima che si affermi, nel Cinquecento, una lingua letteraria nazionale, i diversi volgari (cioè «parlate popolari») che nel XIII secolo si fanno ormai decisamente strada nelle scritture (Casapullo 1999) coprono infatti, se non tutti gli usi possibili, tutti quelli per i quali si ritiene possibile usare il volgare invece del latino: come lingue, dunque, non come dialetti (➔ volgari medievali).
Per es., in ambito giuridico si possono registrare testi normativi, come statuti di comuni o di confraternite, regolamenti, ordinanze ecc., redatti nei più diversi volgari italiani, in originale o in traduzione dal latino (➔ volgarizzamenti, lingua dei); e se si parla di lingua letteraria, tale è per es. il veneziano del De regimine rectoris di Paolino Minorita (fra il 1313 e il 1315), come il messinese del Valerio Massimo volgarizzato da Accurso di Cremona (fra il 1321 e il 1337), allo stesso titolo del fiorentino della Consolazione della filosofia di Boezio volgarizzata da Alberto della Piagentina (fra il 1322 e il 1332); un’opera enciclopedica latina come il De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico può essere tradotta in mantovano (ne è autore il notaio Vivaldo Belcalzer, fra il 1299 e il 1309).
Da un altro punto di vista, tutti i volgari sono, in un certo senso, dialetti nei confronti del latino, che alle origini è l’unica lingua della scrittura e della cultura, e cede parte delle sue funzioni alle lingue del parlato solo gradualmente, a seconda dei generi del discorso: nella lingua pratica (in particolare quella delle scritture commerciali), in quelle delle scritture giuridiche rivolte a coloro che non sanno il latino, della poesia, della narrativa, delle cronache, della predicazione e delle scritture morali ed edificanti, più lentamente nella lingua filosofica e scientifica e, in questa, soprattutto nella divulgazione, e in volgarizzamenti più che in testi originali.
Volgare è il termine usato all’epoca per ognuna delle parlate italiane in opposizione al latino. Italiano si usa più tardi: fino alla fine del Trecento, l’unica attestazione (loquela italiana), riferita al fiorentino, è di Fazio degli Uberti (fra il 1345 e il 1367). Volgare italico ha ugualmente una sola attestazione, di Andrea da Grosseto (1268), anch’essa riferita al fiorentino. Volgare latino chiamano Catenaccio Catenacci l’anagnino, fra Duecento e Trecento; l’Anonimo Genovese la sua lingua, prima del 1311; Boccaccio il fiorentino, intorno al 1340 (cfr. TLIO, ad voces volgare e italiano).
Accanto ai volgari italiani sono correnti nell’uso letterario il francese e il provenzale, volgari anch’essi, ma di prestigio, sostenuti da una letteratura che si è da tempo imposta come un modello in Europa. Nel Nord almeno fino alla metà del Duecento la poesia lirica è provenzale, opera di trovatori d’Oltralpe e di italiani settentrionali. La prosa francese, narrativa, morale e didattica, ha lettori in tutta Italia fino oltre il Trecento, come testimoniano i numerosi manoscritti conservati. In francese scrivono italiani come Brunetto Latini, Martino da Canal, Filippo da Novara, Marco Polo (cioè, per lui, Rustichello da Pisa, estensore del Milione in francoitaliano, lingua letteraria mista che ebbe corso nel Nord fino al Quattrocento); molti traducono e rielaborano. Il francese (in misura minore il provenzale) incide anche sulla lingua parlata e sulle scritture pratiche (➔ francesismi); contano la presenza degli Angioini nel Sud (i fiorentini, che avevano finanziato la spedizione di Carlo d’Angiò, avevano ottenuto libertà di commercio nel Regno), le fitte relazioni commerciali, che comportano frequenti viaggi e l’insediamento di colonie di mercanti e operatori finanziari in Francia e in Provenza (dove Avignone fu sede papale dal 1309 al 1377), il fatto che il francese è la lingua franca dei cristiani in Oriente.
Nell’ambito giuridico e amministrativo l’uso del volgare ha lo scopo di rendere accessibili i contenuti di atti privati (come i testamenti e i contratti di vendita) e pubblici (come gli statuti e i regolamenti) a coloro che non sanno il latino da parte di scriventi, principalmente notai, che per loro formazione ne hanno una sufficiente padronanza.
Dell’uso dei notai di leggere o spiegare in volgare alle parti gli atti scritti in latino si ha un’interessante testimonianza anteriore alla metà del Duecento nel Liber formularum di Ranieri del Lago di Perugia, che contiene formule volgari, in viterbese, pronte per l’uso, nelle quali sono da adattare per l’occasione nomi, luoghi, prezzi (➔ notai e lingua).
Per quanto riguarda i testi normativi, è testimone molto antico (1219) di un uso certo più diffuso il Breve di Montieri, minuta in volgare dello statuto della compagnia del comune elaborata per preparare la versione ufficiale in latino. Inverso è il caso del Costituto (cioè statuto) del comune di Siena, del quale resta solo la versione in volgare scritta nel 1309-1310 dal notaio Ranieri Gangalandi, in base alla norma che esso sia tenuto disponibile al pubblico «acciò che le povare persone et l’altre persone che non sanno gramatica [il latino], et li altri, e’ quali vorranno, possano esso vedere et copia inde trare et avere a lloro volontà». Numerosi sono per questa stessa ragione gli statuti volgarizzati. Si ritiene invece scritto direttamente in volgare il pisano Breve di Villa di Chiesa (la sarda Iglesias), importante centro dell’estrazione dell’argento, passato dai pisani agli Aragonesi negli anni precedenti la redazione conservata (di poco prima del 1327).
La lingua dei testi normativi è ricca di modi espressivi e di lessico tratti dal latino giuridico medievale. Dagli originali latini da cui traducono i volgarizzamenti, o dai modelli latini cui s’ispirano i testi scritti direttamente in volgare, deriva la tendenza a esplicitare ogni prescrizione senza sottintesi né ambiguità, che nell’aspetto linguistico si traduce in un’alta frequenza di espressioni reduplicate o moltiplicate per scrupolo di esattezza: «sieno tenuti di ricevere e non possino rinuntiare», «di tutte e ciaschuna inobedienzia, frode, ingannamenti, macchinagioni e altre qualunque retà [«reità, azione condannabile»] le quali ne la detta arte overo per la detta arte o ne le cose de la detta arte o per quelle cose fossono commesse o si facessono ...» (Statuto dell’Arte degli oliandoli di Firenze, 1310-1313). Sono da notare inoltre espressioni concernenti le procedure, per es. il voto con palline (pallotte, ballotte, pallottole, pallattele), oppure fave, nere e bianche, da introdurre in appositi contenitori (per es. bossoli del sì e del no, Statuto dell’Università ed Arte della lana di Siena, 1298), col fondo coperto di feltro per non distinguere in quale cada la pallina (bossogle feltrate, Statuto del Comune e del Popolo di Perugia, 1342), per votare a bossoli e a pallattole (Statuto dell’Arte degli oliandoli), a bossoli e pallottole (Statuto dei Disciplinati di San Giovanni di Pomarance, 1348), con li bussoli e ballotte (Statuto dei mercanti drappieri di Vicenza, 1348).
D’altra parte, l’esigenza di descrivere la realtà che si vuole normare fa entrare nella lingua scritta una grande quantità di lessico d’uso comune: per es. in una norma del Costituto senese del Gangalandi si vieta di coltivare, lungo una via extraurbana, cavoli, porri, cipolle, alli [«agli»], scalogne, lattughe, spinaci, petorselli [«prezzemolo»], cerfolli [«cerfoglio»], borragine, bietole, zucche, cedruoli [«cetrioli»], coccomeri, melloni overo poponi (vol. 2° : 121).
Diversamente dalle scritture giuridiche, quelle mercantili (libri di conti, lettere commerciali, memorie) sono prodotte da scriventi che ignorano il latino, e questa è un’effettiva novità nell’ambito delle scritture volgari. È nell’ambiente dei mercanti che il volgare ha una prima collocazione scolastica (➔ mercanti e lingua): mentre nell’insegnamento tradizionale si impara a leggere e scrivere in latino (e ciò influisce in misura notevole sulla lingua di coloro che scrivono in volgare), solo nelle scuole in cui i mercanti imparano a far di conto l’insegnamento è in volgare. Sono, queste, le scuole d’abaco (o abbaco), delle quali per Firenze parla il cronista Giovanni Villani, descrivendo lo stato della città intorno al 1338, distinguendole da quelle di gramatica e loica (prima parte del corso regolare di studi in latino); con una testimonianza tarda per la storia del volgare, ma significativa, perché il livello dell’alfabetizzazione a Firenze e in Toscana, con particolare riguardo al volgare, tra fine Duecento e prima metà del Trecento, è eccezionale per i tempi (Poggi Salani 1992: 406-411; Manni 2003: 25-31; ➔ analfabetismo e alfabetizzazione).
Le lettere dei mercanti documentano un uso vivace e già sicuro della prosa volgare non letteraria per tempi in cui quella letteraria è ancora scarsamente praticata (il primo testo fiorentino significativo è la Rettorica di Brunetto Latini, intorno al 1261); mentre si conservano pochi testi letterari in prosa anteriori agli ultimi decenni del Duecento perché pochi se ne scrivevano, lo scarso numero di lettere conservate per lo stesso periodo è da attribuirsi ad accidenti di conservazione. Citando come es. un brano da una lettera del senese Andrea de’ Tolomei da Troyes ai soci di Siena, del 1265, si può notare, accanto al lessico tecnico (sopra guagi, finanza, finare), una sintassi semplice, ma non incerta. Nella catena di frasi coordinate (e trova’vi, e rasionai, e dise, sì li rilasai), la subordinazione entra in una misura non remota dal parlato, con frasi relative (qued eli ... ne dieno dare, que ci dovieno dare) e discorso indiretto (dise que no cie i poteva ora dare):
E al partire dela deta fiera di Sant’Aiuolo sì andai a Parisi, e trova’vi l’abate di Gianvale, e rasionai cho· lui del fato dele dugiento sesanta e cinque l. pari. [«lire parigine»] qued eli e -l suo chonvento ne dieno [«ci devono»] dare, e dise que no cie i poteva ora dare; sì li li rilasai [«glielo concessi»] chon trenta altre l. di pari. que ci dovieno [«dovevano»] dare sopra guagi [«in garanzia»] per la rasione [«sul conto»] di Parisi, e miservi agievole chosto, e dovene [«ne dobbiamo»] esare paghati per lo tenpo di Provino [«della fiera di Provins»] di magio que viene presente, sì chome vo divisarò [«spiegherò»] per altra letera, e credo que ne saremo bene paghati e finemente
Questo tipo di lingua che si basa essenzialmente su un parlato rielaborato in una struttura ordinata, senza cercare nella sintassi effetti stilistici, si ritrova per tutto il Trecento nella scrittura dei libri di ricordanze, nei quali si annotano memorie e fatti notevoli (come nascite e morti in famiglia) e si registrano acquisti, vendite e affari patrimoniali in genere. Si vedano per es. le Ricordanze di Matteo di Niccolò Corsini, scritte fra il 1362 e il 1375:
Questo libro è di Matteo di Nicholò Chorsini, nel quale io Matteo deto scriverò ogni mia chosa propia e altri miei fatti propi e mie terre e chase. MCCCLXJ dì IJ di febraio [= 2 febbraio 1362]. Ricordanza che io Matteo figliolo che fu di Nicholò de’ Chorsini del popolo di San Filice in Piaza, mi partì di Firenze per andare a Londra inn Ighiltera a dì XXIJ d’aprile anno MCCCXLIIIJ e giunsi lae dì J di giugno, puosemi a a stare a la muneta cho Lotto Stracabendi e con Giorgio di Cherchino.
Il primo testo scientifico originale è La composizione del mondo colle sue cascioni di Restoro d’Arezzo (in aretino, terminata nel 1282), una vasta opera costruita a partire da numerosi testi arabi in versione latina, parzialmente citati, dei quali sono anche frequentemente immessi nel testo passi tradotti di varia ampiezza (Altieri Biagi 1984: 900-909), con un procedimento non remoto da quello usato da Brunetto Latini nel Tresor francese.
La scrittura di Restoro (analizzata da Altieri Biagi 1984) ha come base i tratti comuni alla prosa contemporanea, come l’uso continuo del polisindeto (frasi collegate in lunghe catene con e) e la ripetitività degli schemi sintattici; vi si riconoscono come caratteristiche le forme oppositive («tale [cosa] dea [«deve»] èssare grossissima e tale a quello respecto sutilissima, e tale longa e tale corta, e tale dea córrare giù e tale sù»: 118), sequenziali (in lunghe enumerazioni che tendono a esplicitare ogni fattispecie delle nozioni esposte) e argomentative (che riconducono i fenomeni a principi generali: «li fiumi non deano [«devono»] correre tutti in una parte, emperciò che ’l mondo dea [«deve»] lavorare e fare operazione per oposito [...], e altra guisa sarea [«sarebbe»] menore operazione»: 119). Rilevante è l’immissione «nelle strutture ancora gracili dell’italiano» di «una notevole quota di lessico astratto» (Serianni 1993: 451-452).
La prosa scientifica del Duecento e del Trecento è per le opere principali in volgarizzamenti, fra i quali si citano le traduzioni toscane del Tresor (del tardo Duecento), la Santà del corpo (da Aldobrandino da Siena, 1310) e la Sfera (dal Sacrobosco, 1313-1314) di Zucchero Bencivenni, e la Metaura d’Aristotile (metà del Trecento). Queste opere, come già Restoro, mettono in circolazione una considerevole quantità di lessico specialistico, per es. la Santà di Zucchero: assiduazione «assuefazione» («l’assiduazione d’esse [alle lenticchie], ciò è molto usarle»), disturare («i mochi [leguminose] [...] disturano le vie del polmone e del feghato»), «flebotomare, ciò è sengniare» («salassare»; la glossa è sul francese saignier), apostema «ascesso, pustola». Non si deve dimenticare che il lessico specialistico può circolare anche in opere d’altra natura: per es. apostema è già in Bonvesin e in Iacopone, come vite è usato per la prima volta nel Convivio di Dante. Soprattutto per il lessico medico (che s’intreccia strettamente col lessico botanico) vanno anche ricordate opere ‘minori’, come per es. il Bestiario tratto dal Tesoro volgarizzato e rifatto nel ms. Laur. Plut. XLII, 22 (primo quarto del Trecento) con aggiunte non solo di capitoli, ma di numerose informazioni sull’uso dei diversi animali in ricette mediche (o anche in pozioni magiche), per es.:
La polvare dela donnola, insalata, data a bere vale contra lo morbo caduco. Lo suo sangue sì ène apertivo de’ porri [«ne provoca la rottura, la maturazione»]; et vale molto contra la podraga [«podagra»], se tue lo mescolerai con aceto.
Prossima per molti aspetti alla lingua delle scritture dei mercanti è quella dei primi testi narrativi in prosa, novelle, racconti brevi esemplari e anche cronache.
Ne sono caratteristiche una certa solidarietà con il parlato, la brevità dei periodi, la prevalenza della coordinazione, non solo in termini puramente sintattici, ma con la tendenza ad appiattire nel periodo «dati circostanziali divergenti e irriducibili l’uno all’altro». L’analisi è di Serianni (1993: 461), che cita come esempio, dai Fiori di filosafi, «Stazio fue gran poeta e fue di Francia e fece due grandi libri», dove l’origine di Stazio e i due libri scritti sono sullo stesso piano dell’informazione essenziale, che deve conferire autorità a una sua sentenza citata di seguito («fue gran poeta»).
Nel Novellino la brevità dei periodi, frequentemente concatenati con e, o con onde per marcare la consequenzialità, spesso anche senza congiunzione (in asindeto), è caratteristica di uno stile orientato a comunicare fatti ed enunciare commenti e ‘sentenze’ in modo diretto: «A uno re nacque uno figliuolo. Li savi strologi providdero [...]. Onde lo re fece guardare» (Il Novellino 2001: 193). I nessi causali e circostanziali sono espressi frequentemente col gerundio, anche a catena: «Stando lo re Allexandro alla città di Giadre [...], uno nobile cavaliere era fuggito di pregione. Essendo poveramente ad arnese, misesi ad andare ad Allexandro che·lli donasse [...]. Andando questo cavaliere per lo camino ...» (ivi, 173); l’accumulo di gerundi, che «è tipico dell’italiano antico ed è frutto di una scarsa vocazione all’esplicitazione dei rapporti subordinativi», riappare ancora nelle novelle del Sacchetti (Serianni 1993: 460). Uno stile diretto non dissimile, con una concatenazione fondamentalmente giustappositiva, si ritrova nella Cronica fiorentina, per es.:
Elgl’è vero ke questo Federigo secondo fue huomo mirabile [...]: elli conobbe ed ebbe in sé tutte le grandi bontadi [...]. Quando elli fue allo ’ncoronare [...] donde li Pisani ne portarono grande invidia [...]. Onde i Fiorentini conbattero co lloro
È una prosa che appare estranea alla lezione dei modelli latini, che comincia ad agire dagli stessi decenni con i volgarizzamenti (da Albertano da Brescia, tradotto almeno tre volte: da Andrea da Grosseto nel 1268, da Soffredi del Grazia intorno al 1275 e da un anonimo di lingua pisana nel 1287-88; da Egidio Romano, tradotto in senese nel 1288; da Orosio e da Vegezio, tradotti da Bono Giamboni a una data non determinabile, ante 1292). Ciò non vuol dire che nel Novellino manchi la capacità di usare la subordinazione con chiarezza, costruendo un discorso ugualmente breve e diretto, come in «Vallerio Maximo i·llibro sexto innarra che Calensino, rettore d’una cittade, fece una legie che chi andasse a moglie altrui dovesse perdere li occhi» (Il Novellino 2001: 196), dove si arriva al terzo grado; o come in «Beato Paulino vescovo di Luccha fue tanto misericordioso che, chiedendogli una povera femina [...] e beato Paulino rispose ...» (ivi, 197), dove l’episodio è introdotto con una consecutiva (qui, con una figura sintattica detta ➔ paraipotassi, la subordinata introdotta da che è ripresa, dopo l’ulteriore subordinata introdotta dal gerundio, con una congiunzione coordinante).
Nel contesto della civiltà comunale, l’uso della lingua è un aspetto centrale della vita civile e politica; strumento fondamentale è la retorica, arte del discorso persuasivo, che da oggetto di studio teorico nella scuola latina diventa un tema d’attualità in volgare; «sintomatica [è] l’insistenza sull’arte della parola» nei Fiori di filosafi (Tartaro 1984: 630). In accordo con la tradizione mediolatina e le esigenze della politica e dell’amministrazione, la retorica comprende ora anche l’epistolografia. Formule volgari di discorsi e lettere sono già scritte intorno al 1243 da Guido Faba nei Parlamenta et epistulae, in «un bolognese illustre, fortemente latinizzato» (Serianni 1993: 457). Va ricordato che a Bologna i fiorentini studiavano e insegnavano.
Fa un decisivo passo avanti la Rettorica di Brunetto Latini (circa 1261), volgarizzamento commentato del De inventione, incompiuto perché interrotto dopo 17 capitoli per rielaborare lo stesso materiale nel più vasto progetto del Tresor, in francese, ma per lo stesso pubblico: mercanti italiani in Francia e funzionari della politica comunale in Italia. L’«arte del retore», di chi fa discorsi persuasivi, è presentata come parte essenziale dell’«arte del rettore», di chi governa, nel contesto della riflessione politica dell’Italia comunale; di qui rettorica (non attestato prima), non retorica (Artifoni 1986). Brunetto trapianta in volgare la retorica latina non solo con il volgarizzamento del De inventione, ma anche con quello di tre orazioni di Cicerone, con i quali propone esempi di discorso in volgare in stile elevato; per es. (inizio della Pro Ligario):
Ben nuovo malificio e unque mai non udito ha proposto quel mio parente Teverone dinanzi da te, Iulio Cesare, dicendo che Quinto Ligario fue in Africa contro a te e contro al tuo onore; e, non ch’altri, ma G. Pansa, uomo di gran savere, fidandosi forse della dimestichezza ch’elli ha con teco, l’ha ardito a confessare
Esempio di epistolografia nutrita dell’eredità retorica latina medievale sono le lettere in prosa di Guittone, raccolte minimizzando le occasioni e gli scopi pratici in funzione del valore esemplare da attribuire ai contenuti morali e all’esibita elaborazione stilistica.
A parte una canzone e tre frammenti in siciliano, nella copia cinquecentesca di Giovanni Maria Barbieri da una fonte perduta, e una canzone trascritta in adattamento settentrionale nel 1234 o 1235, i testi della ➔ Scuola poetica siciliana si leggono solo inclusi nelle tre grandi antologie manoscritte (canzonieri) della poesia toscana del Duecento (Vat. lat. 3793, Laur. Redi 9, Banco Rari 217 della Biblioteca nazionale di Firenze), in lingua toscanizzata.
È perciò non di rado difficile distinguere, soprattutto per gli anonimi, fra poeti in siciliano toscanizzati e imitatori che scrivevano in toscano, e soprattutto la lingua dei siciliani non è conoscibile organicamente, ma se ne devono indagare le caratteristiche analizzando la forma toscanizzata; ulteriore problema è che non si dispone di testi siciliani contemporanei da usare per confronto. Si può però almeno dire che quello dei poeti doveva essere non un ‘siciliano puro’, bensì una lingua elaborata per la poesia, composita, ricca di provenzalismi e di latinismi, e che doveva ricorrere a forme alternative, come per es. amuri, propriamente siciliano, da rimare con valuri, ma anche amòri da rimare con còri (Brugnolo 1995: 279-286).
La Toscana subentra come centro della poesia lirica intorno alla metà del Duecento, in concomitanza con il declino della casa imperiale sveva, intorno a cui operavano i poeti siciliani, e con l’ascesa dei comuni toscani. È un’area culturale che include anche Bologna, ed è un segno dell’attrazione già esercitata dal toscano il fatto che Guinizelli lo abbia scelto (si può ammettere, però, che i canzonieri toscani abbiano trascritto i suoi testi in una forma più toscana degli originali).
La lingua poetica dei toscani è costruita sull’esempio di quella dei siciliani, come si vede in tratti fonetici, morfologici e lessicali. Nella fonetica, è sintomatica la cosiddetta rima siciliana, di e chiusa con i e di o chiusa con u: poiché in siciliano usu rima con amurusu, ma con la toscanizzazione l’uno diventa uso, l’altro amoroso, in toscano viene considerata legittima la rima di uso con -oso, non solo nei testi siciliani toscanizzati (uso in rima con amoroso in Giacomo da Lentini), ma anche in testi scritti in toscano (uso in una serie di rime in -oso in Bondie Dietaiuti, fiorentino). Per la morfologia, si può portare a esempio il condizionale derivato dal piuccheperfetto latino, per es. sembrara, che si trova in Giacomo da Lentini e poi nei fiorentini Carnino Ghiberti e Torrigiano. Per il lessico, si può citare abento «pace, tranquillità dopo una pena», frequente fra i siciliani e poi anche fra i toscani, per es. in Rinuccino e in Chiaro Davanzati. Dai siciliani i toscani ricevono anche numerosi gallicismi, per es. adastare «stimolare» o anche «affrettare, affrettarsi», che si trova in Guido delle Colonne, e in Toscana per la prima volta in Bonagiunta.
L’impronta linguistica siciliana si vede anche nella poesia non lirica, per es. nel Tesoretto di Brunetto Latini (uso in rima con grazioso) e, in altro stile, in un poemetto giullaresco fiorentino, il Detto del gatto lupesco:
Quello k’io sono, ben mi si pare.
Io sono uno gatto lupesco
ke a catuno vo dando un esco,
ki non mi dice veritate [«che cerco di adescare ciascuno
per vedere se mente»].
Però saper voglio ove andate,
e voglio sapere onde sete [«siete»]
e di qual parte venite
Il Gatto lupesco è esempio di uno stile di lingua prossimo al parlato, in testi di ascendenza letteraria francese (primo es. il Ritmo laurenziano, del secolo prima); il Tesoretto condivide con parte dei poeti toscani (per es. Bonagiunta) una lingua letteraria relativamente poco complessa, che ha per modelli i siciliani e tramite questi i provenzali; altri toscani rileggono autonomamente i provenzali, e procedono verso una nuova sostenutezza retorica che in alcuni sembra fondarsi piuttosto sulla dimestichezza con il latino.
La vicenda della poesia religiosa delle laude corre separata nei modi di diffusione e nella tradizione manoscritta, ma con incroci significativi: tra gli autori più antichi si ricordano Guittone d’Arezzo e Iacopone da Todi, l’autore maggiore in un insieme per lo più di anonimi, che utilizza anche spunti della poesia profana. La lingua ha come base un parlato fortemente popolare anche in autori di sicura competenza stilistica, come lo stesso Iacopone. Poiché il movimento (che cresce nel secondo Duecento, e ha un notevole sviluppo nel Trecento) ha le radici più forti in Umbria, tracce di umbro sono presenti anche nelle laude diffuse nelle altre regioni.
Nel De vulgari eloquentia (II, vi, 7) Dante suggerisce di prendere ad esempio da un lato i maggiori poeti provenzali e italiani, dall’altro poeti e prosatori latini, e ne trae lo spunto per censurare Guittone; ma proprio costui è l’esempio di un poeta che guarda da un lato ai siciliani e ai provenzali, dall’altro alla lezione stilistica dei latini. Per es. nella canzone che apre la raccolta delle sue rime d’amore, cominciando: «Se de voi, donna gente, / m’ha preso amor, no è già meraviglia», cita insieme la canzone più importante di Giacomo da Lentini, il maggiore dei siciliani: «Madonna, dir vo voglio / como l’amor m’à priso», e Bernart de Ventadorn, trovatore emblematico del discorso amoroso: «No·m meravilh si s’amors me te pres» [«non mi meraviglio se l’amore per lei mi tiene prigioniero»]; mentre l’impronta d’uno stile alto e latineggiante perseguito da Guittone si può vedere per es. nella sua prova più alta, la canzone in cui deplora la sconfitta dei guelfi fiorentini a Montaperti (1260), Ahi lasso, or è stagion de doler tanto.
Quando tende allo stile elevato, la lingua poetica dei toscani, Guittone in testa, è però il più delle volte più artificiosa che complessa, e non riesce a nascondere i segni di una faticosa elaborazione sulla carta. Sebbene Dante indichi come iniziatore di una nuova poesia Guido Guinizelli, la vera rivoluzione linguistica è quella di Cavalcanti, subito affiancato da Dante stesso. Come si può vedere persino nella prova più guittoniana, la canzone filosofica Donna me prega, un vero concentratissimo trattato sulla natura d’amore scritto con vincoli metrici molto complessi, è una lingua aristocratica e raffinatissima, il cui artificio punta a manifestare il massimo della naturalezza e della necessità di dire così e non altrimenti («poesia dettata da Amore», dirà Dante della propria), come si vede in certi inizi di cui nessuno prima di Cavalcanti è stato capace: «Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira», «L’anima mia vilment’è sbigotita», «Tu m’hai sì piena di dolor la mente». È partendo da questa nuova lingua che Dante elabora lo stile complesso delle canzoni posteriori alla Vita nuova.
Di orientamento opposto a quella degli stilnovisti, nella Toscana degli stessi decenni, è la lingua dei cosiddetti comico-realistici che, anche a non intendere la loro poesia come un semplice controcanto dello stile illustre (quale per lo più non è), di realistico e popolare hanno certamente il linguaggio:
Ne la stia mi par esser col leone
quando a Lutier son presso ad un migliaio [«a distanza di un miglio»],
ch’e’ pute più che ’nfermo uom di pregione
o che nessun carname o che carnaio (Rustico Filippi)
La rottura rappresentata dallo «Stil nuovo», come Dante chiama il nuovo movimento poetico, è tale da rendere vecchia e superata la lingua dei precedenti toscani, che infatti furono assai scarsamente ‘ripubblicati’ nei codici posteriori ai tre canzonieri antichi. Però la realtà è più complessa: gli stessi tre canzonieri escludono quasi totalmente le novità degli stilnovisti, forse esprimendo il gusto di un ambiente attardato; e i poeti del Trecento rielaborano i modi dello Stil nuovo, ma continuano a ricorrere come modello anche alla lingua dei toscani guittoniani.
La Commedia di Dante, divulgata in forma completa dopo il 1321, ma già circolante nelle prime due cantiche qualche anno prima, si impone come il principale modello stilistico e linguistico della poesia del Trecento, lirica e non lirica (Petrarca avrebbe agito in modo consistente come modello della lingua poetica solo più tardi). La divulgazione della Commedia sostiene l’ascesa del toscano come lingua della poesia in Italia settentrionale e prima di tutto in Veneto, dove già dai primi decenni del Trecento i poeti toscani recenti (Dante lirico, gli stilnovisti, i comico-realistici) godono di grande favore: lo dimostra la compilazione di importanti raccolte manoscritte. Se si considerano i manoscritti conservati, quelli prodotti in Veneto sono anzi più antichi delle prime raccolte toscane dedicate agli stessi poeti. È importante anche la presenza nelle corti del nord di poeti toscani, come Fazio degli Uberti, fiorentino nato e vissuto fuori di Firenze per l’esilio della famiglia, attivo a Verona, Milano, Bologna e Mantova fra il 1335 circa e il 1367 in un’ampia gamma di generi (rime politiche, morali, amorose) e di forme metriche (canzoni, sonetti, terze rime, una frottola), e autore di un poema didascalico in terza rima chiaramente debitore di Dante (il poeta percorre i tre continenti, e li descrive, guidato dall’antico geografo Solino).
Nella Summa artis rithimici vulgaris dictaminis («Trattato dell’arte della poesia volgare»), del 1332, il primo trattato di metrica italiana, il padovano Antonio da Tempo dedica un capitoletto alla domanda «perché scriviamo in toscano»: questo infatti, vi si legge, è più adatto delle altre lingue all’uso letterario, è più diffuso ed è comprensibile a un pubblico più vasto («lingua Tusca magis apta est ad literam sive literaturam quam aliae linguae, et ideo magis est communis et intelligibilis»).
Quella dei poeti settentrionali è una lingua fondamentalmente toscana, che subisce in misura variabile l’interazione con la lingua d’origine degli autori. Nei testi dello stesso Antonio da Tempo, inseriti nella Summa come esempi delle forme metriche trattate, si possono notare per es. zoglia «gioia» e noglia «noia» in rima con ricoglia «raccolga»: come il veneto e lombardo foia si toscanizza in foglia, così zoia e noia si toscanizzano indebitamente in zoglia e noglia. Queste due rimangono parole tipiche del toscano settentrionale; per es. si ritrovano in rima con doglia in Francesco di Vannozzo, per citare un autore importante della rimeria tosco-settentrionale del secondo Trecento. Da un autore contemporaneo di Antonio da Tempo, Giovanni Quirini (morto nel 1333), uno dei primi ammiratori noti di Dante nel Veneto, si può esemplificare un tratto endemico, la confusione fra consonanti doppie e semplici (che si oppongono fonologicamente in toscano, non nelle varietà del nord), che si può verificare in rima, per es. topo in rima con intoppo nel sonetto 30, 1-3:
Io so che tu legesti ne l’Esopo,
e te ricordi ben, como la rana
volea somerger sotto l’aqua el topo,
passando l’un cum l’altro la fimana [«fiumana», forma del veneto continentale],
e com’el sopraiunse [«e come sopraggiunse»] la polliana [«poiana»],
che tolse lor intrambi nel suo intoppo
L’autore mostra d’aver letto l’Inferno già nel 1317, data di questo sonetto; cfr. Inf. XXIII, 4-6:
Vòlt’era in su la favola d’Isopo
lo mio pensier per la presente rissa,
dov’el parlò de la rana e del topo
Questo dell’adesione alla lingua dei poeti toscani, con la conservazione di varie caratteristiche della lingua locale, è un tratto comune ad altre aree poetiche del Trecento; è il caso dei poeti perugini attivi fra il 1320 e il 1350, i cui testi sono raccolti nel ms. Vat. Barb. lat. 4036 (cfr. Brugnolo 2001: 243-244; Soletti 1993: 623); fra tali caratteristiche sono i tipici plurali maschili in -e, per es. in Neri Moscoli sonette «sonetti» e gli entellette «intelletti» in rima con somette «sottomette» e mette.
Per quanto riguarda la Toscana, in particolare Firenze (dove si continua a fare poesia nel solco degli stilnovisti, del Dante lirico, dei comico-realistici), l’aspetto più interessante dal punto di vista linguistico (a parte l’opera di Boccaccio) è forse il linguaggio ‘di consumo’ dell’abile Antonio Pucci, rimatore fecondo in vari generi, dalla poesia morale d’attualità («Novello sermintese lagrimando, / per tutto ’l mondo può gir [«andare»] sospirando / e senpre tutta gente ammestrando / di Firenza», per l’inondazione dell’Arno del 1333) al rifacimento in terza rima della cronaca di Giovanni Villani nel Centiloquio (l’ultimo capitolo, in realtà il 91, è del 1373), a numerosi cantari (poemetti narrativi in ottava rima). Di un linguaggio poetico altrettanto corrente sono esempio i numerosi cantari anonimi, dalla versificazione spesso trascurata (almeno nelle copie che li conservano); per es. il Bel Gherardino:
Nella città di Roma anticamente
aveva [«c’era»] una colonna ’n Campidoglio,
che v’era scritto ogni uomo prode e valente,
saggio e cortese, come leggere soglio [«solevo»];
sicché, tornando brieve a convenente [«a proposito»],
d’un franco cavaliere contar vi voglio ...
I maggiori prosatori del Trecento, oltre Boccaccio, figurano tutti nella tavola degli autori del Vocabolario degli Accademici della Crusca del 1612, che sui trecentisti fonda la sua scelta linguistica, aggiungendo una ristretta lista di «Autori moderni citati in difetto degli antichi, o per qualch’altra occorrenza». Fra i testi più rilevanti la Nuova Cronica di Giovanni Villani, con le continuazioni di Matteo e Filippo, le prediche di Giordano da Pisa, le opere di Domenico Cavalca, lo Specchio della vera penitenza di Iacopo Passavanti, le novelle di Franco Sacchetti.
È citato anche un bizzarro volgarizzamento dal Defensor pacis di Marsilio da Padova (databile 1363), probabilmente da una precedente traduzione francese, in una prosa assolutamente sconclusionata (il traduttore non capiva il testo francese, e forse nemmeno il traduttore francese capiva il testo latino), accolto perché fiorentino e trecentesco; per es. alla voce travalente (glossato «molto valente», senza altra attestazione) gli accademici ritagliano la frase «O Luigi travalente, e tranobile [«nobilissimo»] Imperador de’ Romani» da un periodo amplissimo e ingarbugliato, anche se meno incomprensibile di altri. Più rilevante è il posto dato ai commenti danteschi, il cosiddetto Ottimo commento (oggi attribuito ad Andrea Lancia) e quello di Francesco da Buti. Quello dei commenti alla Commedia, in latino e in volgare, è nel Trecento un nuovo genere, non ovvio nella cultura del tempo (è stata commentata la canzone Donna me prega di Cavalcanti, e Dante si autocommenta nel Convivio, la cui diffusione fu però più tarda). Un esempio di prosa da commento si può vedere dall’Ottimo:
Così l’animo mio ec. Molto commenda qui sè che ha passato tale selva, ed è vivo. Come ebbi ec. Segue suo poema, e cominciò a salire verso il colle. Ed ecco quasi ec. Qui descrive l’Autore tre impedimenti, che se li oppuosono, quando salìa allo alto inluminato di sapienza; li quali figura in tre animali, cioè Lonza (che è Pantera), Lupa, e Lione
L’influenza esercitata dal Vocabolario, che restò per secoli il punto di riferimento anche di chi lo avversava, e la tendenza della lingua letteraria italiana alla conservazione hanno mantenuto alla «prosa media» del Trecento il valore di un modello fino al pieno Ottocento (Serianni 1993: 464-466). Se si prende ad es. lo Specchio di vera penitenza del Passavanti (intorno al 1355), si può constatare come fino a tempi non lontanissimi il suo periodare articolato e anche complesso, ma ordinato e perspicuo, potesse dare un’impressione di modernità, che nasceva in realtà dalla conservatività della lingua letteraria (dal Trattato della superbia):
Se si prende la superbia nel primo modo, certa cosa è che ’l peccato del primo uomo, che fu principio e cagione d’ogni peccato, fu superbia; avvegna che più altri peccati concorressono conseguentemente a quello peccato: ma la superbia, che non è altro, come detto è di sopra, se none uno appetito disordinato della propia escellenzia, fu il primo peccato dell’uomo; al quale pruova san Tommaso, nella Somma, sottilmente e chiaramente, che fu impossibile ch’andassi innanzi altro peccato, soppognendo lo stato della innocenzia e della originale giustizia nella quale l’uomo era creato
Un passo narrativo della Nuova Cronica di Giovanni Villani (morto nel 1348), l’unico autore citato per nome nell’introduzione del Vocabolario degli Accademici accanto a Dante, Petrarca e Boccaccio, può mostrare una sintassi molto meno ‘moderna’.
Nelli anni di Cristo 1333 [...], essendo la città di Firenze in grande potenzia, e in felice e buono stato [...], piacque a Dio [...] il quale volle mandare sopra la nostra città onde quello dì de la Tusanti [«Tutti i santi»] cominciòe a piovere diversamente [«straordinariamente»] in Firenze ed intorno al paese e ne l’alpi e montagne, e così seguì al continuo 4 dì e 4 notti, crescendo la piova isformatamente [«smisuratamente»] e oltre a modo usato, che pareano aperte le cataratte del cielo, e con la detta pioggia continuando grandi e spessi e spaventevoli tuoni e baleni, e caggendo folgori assai; onde tutta gente vivea in grande paura, sonando al continuo per la città tutte le campane delle chiese, infino che non alzòe l’acqua; e in ciascuna casa bacini o paiuoli, con grandi strida gridandosi a Dio: «Misericordia, misericordia!» per le genti ch’erano in pericolo, fuggendo le genti di casa in casa e di tetto in tetto, faccendo ponti da casa a casa, ond’era sì grande il romore e ’l tumulto, ch’apena si potea udire il suono del tuono
Si noteranno: l’uso insistito del gerundio; le costruzioni «piacque a Dio [...] il quale volle» («piacque a Dio di volere»), con la dichiarativa introdotta dal pronome relativo; «mandare sopra la nostra città onde [...] cominciòe a piovere» («ordinare contro la nostra città in modo tale che cominciò a piovere, ordinare che cominciasse a piovere»), pur non chiaro nell’edizione, che pone punto e virgola dopo «città»; la frase nominale «e in ciascuna casa bacini o paiuoli», che regge la successiva descrizione della fuga disordinata degli abitanti, espressa con gerundi circostanziali e, infine, con una consecutiva (e anche un’espressione ancora oggi colloquiale, «che pareano aperte le cataratte del cielo»). È una lingua che risente del parlato, con un periodare più libero, ma meno perspicuo di quello proprio di chi volgarizza o ha per modello il latino. Su questa linea è la lingua delle novelle del Sacchetti, spesso colloquiale e per certi aspetti, si potrebbe già dire, quasi ‘vernacolare’.
I testi sono citati dalle banche dati testuali annesse al Tesoro della Lingua Italiana delle Origini = TLIO (v. oltre), tranne Il Novellino 2001, a cura di A. Conte, Roma, Salerno.
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TLIO = Opera del Vocabolario Italiano, Tesoro della Lingua Italiana delle Origini, www.vocabolario.org./www.ovi.cnr.it (agli stessi indirizzi le banche dati testuali Corpus OVI dell’Italiano antico e Corpus TLIO aggiuntivo).