DUCCIO di Buoninsegna
Figlio di un Buoninsegna (o Boninsegna), non si conoscono esattamente la data e il luogo di nascita, ma, poiché il Comune di Siena deliberava un pagamento in suo favore già nel 1278, la critica è concorde nel ritenere che nascesse non oltre il 1260, e probabilmente intorno al 1255. In base a quanto si apprende dalle fonti, ma soprattutto dalla ricca documentazione d'archivio riportata in luce dai ricercatori degli ultimi centocinquant'anni circa (Milanesi, 1854; Lisini, 1898; Davidsohn, 1900; Lusini, 1913; Bacci, 1932; Brandi, 1951; White, 1979; Stubblebine, 1979), è invece possibile ricostruire con notevole precisione la sua biografia e taluni punti della sua carriera artistica.
Il padre era figlio di un altro Buoninsegna, a sua volta figlio di un Lucchese (ma il documento del 31 genn. 1229 che ricorda questo Buoninsegna senior lo dice esattamente "Lucensis", il che ha dato luogo alla supposizione che, invece di indicarne la paternità, il termine ne indicasse la provenienza: "da Lucca"), e sembra morisse fra il gennaio, e l'aprile del 1285. D. ebbe una sorella, Betta, ancora viva nel 1318-ig, e un fratello, Buonaventura, a sua volta padre del pittore Segna, che di D. era dunque nipote "ex fratre", non solo uno dei discepoli più conosciuti. Sposato con una "donna" Taviana, che gli sopravvisse, D. ebbe sette figli: Ambrogio, Andrea, Galgano, Tommaso, Giorgio, Margherita e Francesco, tutti viventi alla sua morte.
La notizia più antica che riguarda D. come pittore è del novembre 1278, quando riceveva 40 soldi per aver dipinto dodici casse destinate a contenere i documenti del Comune; e nel luglio-agosto 1279 ne riceveva 10 per aver miniato per lo stesso Comune le coperte dei libri del Camerlengo e dei Quattro. Era ancora a Siena nel marzo-aprile 1280, quando fu condannato a pagare una multa per la non trascurabile somma di 100 lire; ma dopo tale data i documenti tacciono di lui per un quinquennio esatto. E se anche non è inverosimile che il "Guccio Boninsegna" multato a Siena di 10 soldi nel gennaio 1285, "quia fuit inventus per beberruarios Potestatis post tertium sonum campane", fosse D. stesso, è indubbio che il 15 aprile successivo "Duccius quondam Boninsegne pictor de Senis" si trovava a Firenze e vi sottoscriveva l'importante commissione fattagli dalla Compagnia dei Laudesi di S. Maria Novella "ad pingendum de pulcerima [sic] pictura quandam tabulam magnam ... ad honorem beate et gloriose Virginis Marie" (Milanesi, 1854, p. 159): quest'opera è da tutti identificata con la Madonna Rucellai (Firenze, Uffizi).
Fosse già stata completata o non la pala commessa nell'aprile, l'8 ottobre dello stesso anno il maestro era di nuovo a Siena (in tale data il Comune gli pagava 8 soldi per aver decorato la coperta d'un altro libro del Camerlengo e dei Quattro), e non sembra che se ne movesse almeno fino a tutto il 1295.
Durante il decennio 1286-95, infatti, continuo a ricevere pagamenti per la decorazione dei libri del Comune (gennaio 1286, agosto 1291, gennaio 1292, marzo 1294, ottobre 1295), fu aggregato al "Consilium Campane" per il terzo di Camollia (1292) e nel luglio del 1295 fu nominato membro d'una commissione di sei - il primo dei quali era Giovanni Pisano, appena rientrato da Pisa - per stabilire dove dovesse essere collocata la Fonte Nuova o d'Ovile, allora in progetto. Intanto era proprietario di una casa in contrada Camporegio (9 nov. 1294), effettuava compere minute (11 novembre dello stesso anno), pagava tasse (gennaio 1286) e, soprattutto, riportava condanne e penafizzazioni pecuniarie, persino per non aver adempiuto a doveri Civici (1289; settembre 1293, maggio, giugno e novembre 1294, dicembre 1295): un tratto, quest'ultimo, che caratterizzerà anche in seguito lo stile di vita di D. e che ha suggerito a Cattaneo (1972, p. 6) un paragone fra il comportamento del pittore e quello dello sregolato poeta senese Cecco Angiolieri, suo contemporaneo, anche lui punito spesso per schiamazzi notturni e inadempienze civiche.
Dal dicembre 1295 fino all'aprile 1302 i documenti senesi tacciono di nuovo su D., tanto che più d'uno studioso (Stubblebine, 1979, I, p. 4; Deuchler, 1984, pp. 24, 177) ha proposto di identificarlo nel "Duch de Siene" o "Duche le lombart" che il Livre de la taffle ricorda a Parigi nel 1296 e nel 1297, abitante "en la rue aus Precheurs", in parrocchia "Saint-Huitance" (S. Eustachio). Sebbene il quartiere parigino di S. Eustachio fosse allora abitato effettivamente da pittori, non è tuttavia mancato chi avanzasse fondati motivi di scetticismo nei confronti dell'ipotesi (Previtali, 1984, p. 74; Castelnuovo, 1983); né si può d'altra parte trascurare che nel 1336, quando D. era morto da diciotto anni, un altro pittore senese del medesimo nome era attivo ad Avignogne (e ci si può chiedere se fosse questi lo stesso ricordato a Parigi quarant'anni prima), e ancora un altro "Duccius pictor" (però senza indicazione del luogo d'origine e anch'egli ben difficilmente identificabile con D.: vedi già Lisini, 1898, oltre che Brandi, 1951) è ricordato nel maggio del 1302 a Pisa, fra i numerosi addetti al conipletamento del mosaico della Maestà nell'abside del duomo.
In ogni caso, agli inizi del 1302, il 7 aprile, D. ricompare a Siena per non allontanarsene più. Quell'anno, per altro, sembra essere stato cruciale per l'esistenza del pittore, dal momento che, mentre nell'aprile e nel maggio fu chiamato ripetutamente a pagare debiti e more per debiti non pagati, e poco dopo nuove penalità pecuniarie per infrazioni, doveri civici e militari ancora una volta trasgrediti e forse per un reato vero e proprio, il 4 dicembre dello stesso anno fu compensato di 48 lire per un'impresa di grande importanza: "una tavola o vero Maestà che fecie et una predella che si posero nell'altare, ne la case de' Nove là dove si dice l'ufficio" (cfr. U. Morandi, in Palazzo pubblico di Siena ..., Milano 1983, p. 418 doc. n. 87; il dipinto non ci è pervenuto). Nell'agosto del 1304 D. risulta possidente d'una terra e vigna in contrada Castagneto sulla Tressa. Ma è il 9 ott. 1308 che un nuovo e particolareggiato documento (sulla cui esatta natura, nondimeno, la critica discute: Pope-Hennessy, 1980; beuchler, 1984; Previtali, 1984) lo attesta impegnato nella più importante commissione della sua vita: quella della Maestà bifronte per l'altar maggiore del duomo di Siena. Il 20 dicembre del medesimo anno, dall'Opera committente del dipinto e in persona dallo stesso operaio ser Iacopo de' Mariscotti che aveva sottoscritto la stipula dell'ottobre, D. otteneva un prestito di 40 fiorini che l'artista si obbligava a restituire entro il primo gennaio successivo. Ancora nel 1310, per altro (o nel 1308-09: la data del documento relativo non è certissima) i lavori "de la parte dietro" del dipinto non dovevano essere troppo avanzati, se ancora si pattuivano i compensi delle singole storie. Tuttavia nel giugno 1311 la Maestà era già stata portata in duomo: al suono delle campane, accompagnata da una processione solenne a cui, oltre al vescovo e a una "magnia e divota compagnia di preti e frati", parteciparono "i Signori Nove e tutti gli uffiziali del Comuno e tutti i popolari" (Cronica anonima, in Milanesi, 1854, p. 169; Lisini, 1898).
Intanto D., che ora - e forse da tempo aveva casa e bottega presso la porta di Stalloreggi nel popolo di S. Quirico, continuava a collezionare multe e penalità (100 lire nel 1309 e 24 nel 1310), contraeva debiti (giugno 1313), e una volta tanto, il 16 sett. 1315, era creditore della Gabella, di 18 soldi e 4 denari.
Morì nel corso del 1318: quell'anno sua moglie Taviana, in un documento relativo alla proprietà della casa di porta Stalloreggi, è detta "uxor olim Duccij pictoris" (Lisini, 1898, p. 50 n. 2); e il 16 ottobre dell'anno successivo, gettando un'ombra anche sulla gestione economica degli interessi di famiglia, i sette figli del maestro sono concordi nel pagare 20 soldi al Fisco "pro repudiatione seu. abstinentia hereditatis dicti olini Duccij patris eorum" (cfr. Davidsohn, 1900, p. 22).
Nonostante l'inconsueta ricchezza delle informazioni particolari e la relativa precisione dei dati riguardanti le commissioni del 1285, del 1302 e del 1308 circa, che per altro scandiscono molto bene le tappe fondamentali dell'attività di D., i documenti non contengono nulla di esplicito sulla sua formazione, che resta tuttora problematica. Una parte della critica (soprattutto Belting, 1982) la collega alla tradizione bizantineggiante locale, influenzata da Guido da Siena e dalla sua cerchia. Secondo un'altra parte invece (Longhi, 1948 e 1951; Volpe, 1954; Bologna, a più riprese, tra il 1960 e il 1993), l'indicazione più idonea a chiarire il problema risiede innanzitutto nel fatto che la Madonna Rucellai (1285: Firenze, Uffizi) poté essere ritenuta opera di Cimabue per non meno di cinque secoli. Un così prolungato scambio non può non essere nato dalla costatazione che tale opera è improntata a un'approfondita cultura cimabuesca, e, proprio perché approfondita, tale cultura non può non comportare che D., più giovane di Cimabue, fosse stato addirittura suo discepolo, anzi uno dei suoi collaboratori, e specialmente negli affreschi della basilica superiore di Assisi.
Una dipendenza del giovane D. dal Cimabue di Assisi era già stata affermata, in anticipo su Longhi, anche da Carli (1946), che restituì a D. stesso la vetrata del duomo di Siena eseguita nel 1288 (la quale, per altro, a tre anni dalla Madonna Rucellai è ancora così marcatamente cimabuesca da aver consentito a White, 1979, di spostarne l'attribuzione addirittura a Cimabue in persona); tuttavia la doppia tesi della formazione cimabuesca e della partecipazione di D. ai lavori di Assisi è stata da alcuni energicamente contraddetta (J. Stoichiţǎ, Ucenicia lui D. di B. ..., Bucareşti 1976; Belting, 1977; White, 1979; Stubblebine, 1979; Bellosi, 1985, in part. pp. 181, 198 n. 64).
Per contro, occorre considerare acclarati in via definitiva i seguenti dati di fatto. Innanzitutto la Madonna Rucellai presuppone la conoscenza (che il restauro appena concluso ha confermato anche in particolari come l'organizzazione delle pieghe nel vasto panneggiamento) della Madonna di Cimabue pervenuta al Louvre dalla chiesa di S. Francesco a Pisa; d'altra parte, anche perché di anni già inoltrati nella carriera del maestro (D. era attivo da non meno di sette anni), l'opera sembra coordinare tale conoscenza con quella di altre esperienze coeve della medesima origine: in particolare della Madonna di S. Martino (Pisa, Museo civico), nella quale, assunta a modello la medesima Madonna parigina di Cimabue, se ne scioglie la struttura in una tenerezza di colore e in una acuta versatilità per l'ornamento assai congeniali alle inclinazioni di D. (Bologna, 1962, pp. 129 s., figg. 70, 77, 80). Inoltre, fra i quattro "geni" alati presenti negli angoli inferiori della volta detta "dei Dottori" nel S. Francesco superiore di Assisi, i due di qualità più alta combaciano in modo palmare rispettivamente con il Cristo" bambino della Madonna di Castelfiorentino (pinacoteca di S. Verdiana) e con quello della Madonna di Crevole (Siena, Opera del duomo): questi due dipinti, considerati in rapporto diretto fra loro specialmente da Toesca (1951, p. 512), per un verso configurano nel modo più evidente il trapasso dal fare personale di Cimabue a quello del giovane D., per un altro si legano in modo crescente con D. stesso, subito prima della Madonna Rucellai, commessa nel 1285 (si veda Bologna, 1982, pp. 34 s.; 1983, pp. 337 s., figg. 9-14, con l'analisi di tutte le altre opinioni sulle due Madonne). Infine, poiché il riscontro fra i "geni" di Assisi e le Madonne suddette è di ordine fattuale, non ipotetico, ne deriva che la ricostruzione cronologica degli affreschi nella basilica superiore di Assisi deve esser regolata sul fatto che, quando i lavori giunsero alla volta "dei Dottori", mancava qualche anno al 1285: si era verosimilmente sul 1283-84.
Poiché d'altra parte non è pensabile che D. si recasse ad Assisi per dipingervi solo i "geni" di cui s'è detto, i tre punti elencati contribuiscono a ricostruire lo svolgimento dei fatti nel modo seguente. Ricordato a Siena nel novembre 1278 e nel luglio-agosto 1279, ma poi non più fino all'ottobre 1285, D. poteva essersi accostato a Cimabue anche prima del 1278-79, ed essere entrato per tempo nell'équipe di pittori che il fiorentino radunò ad Assisi. Certo è che i "geni" indicati occupano nella navata assisiate una posizione contigua proprio alla Crocifissione e alla Cacciata dall'Eden che Longhi (1948), seguito da C. Volpe (La formazione di Giotto nella cultura di Assisi, in Giotto e i giotteschi ..., Assisi 1969, pp. 38, 40) e da Bologna (1982), attribuiva a D.; e di lì, per precisi collegamenti stilistici, è possibile risalire al bellissimo angelo incluso nel finestrone settentrionale del transetto (opera, dunque, della prima fase dei lavori), che sempre Longhi (1948) aveva indicato come uno dei dipinti più antichi attribuibili al senese. Inoltre è stata indicata da tempo la possibilità di un intervento del giovane D. accanto o in prosecuzione di Cimabue in opere quali la Madonna della chiesa dei servi a Bologna, quella già Paoletti ora alla Galleria Sabauda di Torino, il Crocifisso della collezione Odescalchi a Roma e la Madonna nel Museo della Val d'Arbia a Buonconvento (riproduzioni, analisi e bibliografia della questione in Bologna, 1960, 1962, 1983). Non sarebbe occorso di meno, del resto, affinché l'esecuzione di un'opera dell'importanza della Madonna dei Laudesi, destinata a una delle chiese più importanti di Firenze, fosse affidata a un forestiero ancor giovane, e altrimenti estraneo all'ambiente, come Duccio.
In secondo, ma non minor luogo, la formazione della cultura artistica del maestro pone il problema delle origini della sua componente gotica, che giunge ad altissima maturità nella Madonna Rucellai. Tutta la critica è stata concorde nell'indicarne la matrice francese; ma non era stato ancora rilevato che un esempio di pura cultura gotica luigiana, rielaborata per tempo in Inghilterra, era presente fin dagli inizi ad Assisi stessa, negli affreschi del cosiddetto Maestro oltremontano nel transetto della basilica superiore; e che un altro esempio della medesima estrazione si poteva vedere a Firenze, addirittura in S. Maria Novella, nei quattro tabelloni polilobati del Crocifisso in legno della cappella della Pura (Bellosi, 1988). Inoltre, mentre è stato ben osservato di recente che "la cultura figurativa del gotico francese ... poteva circolare per il tramite dei manufatti piccoli e preziosi, come avori, smalti, codici miniati", e invece Assisi "era un centro di produzione artistica le cui palpitanti novità dovevano essere necessariamente colte sul posto, in presa diretta" (Ragionieri, 1989, p. 8), altri avevano fatto notare in precedenza che una prima indicazione in tal senso poteva essere venuta a D. dal movimento artistico svevo, penetrato anche a Siena e nel suo territorio fin dagli anni di Federico II, a cominciare dalla precoce apparizione nell'opera del duomo di Nicola Pisano, continuando con gli affreschi più antichi del palazzo pubblico di San Gimignano e con talune tavolette di Biccherna (Bologna, 1982). Del resto, la componente oltremontana, di accento soprattutto francese, si ritrova in tutti i massimi eventi artistici senesi, almeno fino alla morte di Simone Martini, con accertate diramazioni anche nell'arte della miniatura e nelle pitture di piccolo formato: queste per altro costituirono il primo, vero campo di addestramento del giovane D., posto che nel 1278 e nel 1279 egli era addetto appunto a opere di tal genere, e continuò a ricevere commissioni identiche almeno fino al 1295.
La Madonna Rucellai, che conclude con un capolavoro la vicenda della formazione del maestro in tutte le sue componenti, segna la posizione originalissima assunta dal suo autore allo sbocco della prima fase del moto di rinnovamento che caratterizza la pittura d'Italia dopo la metà del XIII secolo. Negli anni successivi al 1285 D. conferma e approfondisce tale posizione in altre due opere, a lui attribuibili con certezza, e in una terza, di riferimento più problematico: il disegno della già ricordata vetrata per il duomo di Siena (1288 circa: Carli, 1946), che non tollera né il collegamento tradizionale al tardivo (1369) nome di Iacopo di Castello (si veda anche Stubblebine, 1979, I, pp. 13 s.) né lo spostamento a Cimabue (White, 1966, pp. 127-129, e 1979, pp. 137-139), della cui prpfonda influenza non è dubbio che conservi i segni, ma ormai indotti nel clima intenerito e acutamente filogotico della pala Rucellai; quindi la tavoletta della Madonna dei francescani (Siena, Pinacoteca), che nella sintesi di tutti gli elementi finora descritti segna un estremo successo; e, con ogni probabilità, anche il tabernacolo del Fogg Art Museurn (Cambridge, Mass., Harvard University), che, al di là delle lacune e delle usure gravi, lascia trasparire un'autorità schiettamente protoduccesca, giusto sulla traiettoria che mena dalla Madonna di Buonconvento a quella Rucellai (Stubblebine, 1979, II, figg. 293 s., che però lo attribuisce a un suo "Christ Church Master").
Avvia un discorso nuovo, invece, la tavoletta del Kunstmuseum di Berna (prima attribuzione a D. in Toesca, 1930, poi variamente respinta e confermata), che rispetto all'indeterminatezza spaziale della composizione nella Madonna dei francescani, ancora improntata all'"infinito" di tipo neoellenistico, e anzi neocarolingio, peculiare di Cimabue nella prima fase di Assisi, mostra la tendenza a un'organizzazione architettonico-prospettica più solida e meglio definita, che non solo fa ritenere il dipinto di data posteriore a quello di Siena (si veda Conti, 1980, p. 99, e Previtali, 1984, p. 76, n. 2, contrariamente a quanto creduto in precedenza), ma più "moderno" (ibid.), e nel senso specifico che, alla svolta degli anni Novanta, comporta senza esitazioni la qualificazione di giottesco. Lo stesso è da ripetere a proposito della Madonna Stoclet (già a Bruxelles, ora di ubicazione sconosciuta), che è conclusa in basso da una cornice marmorea con mensole in prospettiva, nella quale è manifesta la dipendenza da quelle che Giotto aveva appena dipinto (intorno al 1290 o poco dopo, secondo le note argomentazioni di Bellosi, 1985), nella riquadratura architettonica, intensamente illusiva della terza dimensione, delle Storie di s. Francesco ad Assisi. È anche evidente, d'altra parte, che sia nella tavoletta di Berna, sia nella Madonna Stoclet, fa progressi un'interpretazione intensificatamente affettuosa dei rapporti umani; e nell'acconciatura della Madonna Stoclet, al di sotto del manto azzurro, il pittore introduce anche l'altra novità di sostituire l'arcaico maphorion rosso di tradizione bizantina con un più realistico panno bianco che, reimpiegato da D. stesso fino e oltre la grande Maestà, diverrà un motivo costante dell'iconografia mariana di tutto il Trecento senese, e non soltato di quello.
La critica non è concorde né sulla cronologia, né talvolta sull'attribuzione di un notevole gruppo di opere, però tutte di altissima qualità: i due polittici nn.28 e 47 della Pinacoteca di Siena; il tabernacolo della National Gallery di Londra (White, 1979, Stubblebine, 1979, Deuchler, 1984); la tavoletta con la Madonna in trono e quattro angeli entrata nella National Gallery londinese nel 1968 (Stubblebine, 1979; White, 1979); l'altarolo del Museurn of Fine Arts di Boston (White, 1979, Stubblebine, 1979); infine il bellissimo trittichetto delle collezioni reali a Hampton Court, la cui attribuzione allo stesso pittore della tavoletta di Berna, sostenuta da Stubblebine, non individua di certo - come lo studioso intendeva - una persona autonoma della cerchia di D., ma può ben indicare che l'opera spetta a D., in una fase antica, anteriore non di poco alla Maestà, e forse appena più inoltrata del momento dell'arte duccesca da cui occorre pensare che si staccasse il Maestro di Badia a Isola. L'intera questione è resa ancor più incerta dal fatto che non ci è pervenuta (e forse subì danni gravi fin dal 1319: si veda Brandi, 1951, pp. 82 s., integrato da Stubblebine, 1972 e 1979) la Maestà che D. eseguì nel corso del 1302 per la cappella dei Nove in palazzo pubblico, ricevendone il compenso il 2 dicembre. La ricostruzione di questa tavola, tentata, ma inattendibilmente, da Stubblebine (1972), potrebbe essere forse sperimentata con qualche maggior probabilità di successo se si partisse dalla Madonna in trono fra angeli presente nella valva sinistra del surricordato trittichetto di Hampton Court, la cui autografia e la cui importanza - anche rispetto alla cronologia - sono state certamente sottovalutate dalla critica, e sono invece tali da sopperire almeno al primo degli anelli mancanti nella catena di idee che condusse D. alla grande Maestà.
Quali che fossero tutti gli altri anelli di tale catena, è, a ogni modo, parere unanime della critica che il percorso artistico, e anche la capacità di partecipazione religiosa e d'impegno civico del maestro, raggiungessero il vertice appunto con la Maestà destinata all'altar maggior del duomo di Siena, che l'autore stesso firmò con parole da cui traspare un'inconsueta e polivalente consapevolezza: "Mater sancta Dei / sis causa Senis requiei / sis Ducio vita / te quia pinxit ita", e che, dopo la straordinaria accoglienza dei contemporanei attestata dai cronisti, non cessò di suscitare l'ammirazione dei competenti.
Messa in opera nel giugno 1311, la Maestà consisteva in una vasta composizione raffigurante la Madonna in trono col Bambino, circondata da venti angioli, sei sante e santi, e i quattro protettori della città inginocchiati in primo piano. Al di sopra figuravano i busti degli apostoli; più in alto, insieme ad altro non pervenuto, almeno sei Storie della Madonna successive alla morte e resurrezione del Cristo. nella predella, intercalate a figure di profeti, erano sette storie della Infanzia di Gesù. Sulla faccia posteriore, otbligando a riprendere la lettura dalla predella, le storie dell'Infanzia di Gesù erano continuate da storie della sua Vita pubblica; al di sopra di queste, occupando il campo principale su due registri, la narrazione proseguiva con ventisei storie della Passione, da leggere dal basso verso l'alto e da sinistra verso destra (salvo qualche eccezione); nel coronamento, infine, insieme con altro anche in questo caso non pervenuto o pervenuto in parte, figuravano Storie del Cristo successive alla resurrezione (le quali per altro, in forza d'una lettura nuovamente avvolgente, che ora obbligava a rivenire alla faccia anteriore, trovano la prosecuzione e la conclusione nelle Storie della Madonna successive anch'esse alla morte e resurrezione del Figlio, appunto sul recto del coronamento).
Questa ancona nel 1505 fu trasferita accanto all'altare di S. Sebastiano, oggi del Crocifisso; qui rimase fino al 1771, e tuttavia sfuggì a Giorgio Vasari, che afferma addirittura di "aver cercato sapere dove oggi questa tavola si trovi", ma di non aver "mai, per molta diligenza che io ci abbia usato, potuto rinvenirla" (Le vite ... [1568], a cura di G. Milanesi, I, Firenze 1878, p. 655). Il 1° ag. 1771 l'opera fu segata verticalmente lungo lo spessore, al fine di separarne le due facce, e queste, dopo ulteriori spostamenti, che favorirono anche la dispersione di singole parti (oltre che la distruzione integrale della carpenteria e di chi sa quant'altro ancora), furono collocate nel 1878 nelle stanze dell'Opera del duomo (si veda Brandi, 1951, pp. 146 ss., che riassume anche altre vicende del dipinto fino al Settecento, e Stubblebine, 1979, I, pp. 33 ss., con documenti e dati ulteriori). Oltre a quanto è conservato tutt'oggi nel Museo dell'Opera di Siena (le due facce principali e la massima parte delle storie presenti nelle predelle e nei coronamenti), sono stati finora identificati come appartenenti all'ancona smembrata otto pannelli (due nella National Gallery di Londra, tre nella National Gallery di Washington, uno nella collezione Thyssen Bornemisza di Lugano, uno nel Kimball Art Museum di Fort Worth, Texas, uno nella Frick Collection di New York) e quattro angeli provenienti dalle cuspidi (Johnson Collection, Filadelfia; Van Heek Collection, 's Heerenberg, Olanda; Mount Holyoke College, South Hadley, Mass.; già collezione Stoclet a Bruxelles, ora senza dati sulla sua ubicazione); ma la precisa ricostruzione del complesso nel suo stato originario, già tentata in più modi e con vari progressi, costituisce solo il primo dei non pochi, né facili problemi che l'opera ancora pone ai suoi interpreti.
Tra questi problemi è indispensabile ricordare, innanzi tutto, l'eventualità che D., nel pianificare la complessa struttura dell'ancona, tornasse a tener presente, come al tempo della Madonna per i Laudesi, un modello del suo antico maestro Cimabue: precisamente, la perduta Maestà che Cimabue aveva assunto l'incarico di eseguire per l'ospedale Nuovo di Pisa nel corso del 1302 (more pisano; si veda L. Tanfani Centofanti, Notizie di artisti tratte da documenti pisani, Pisa 1897, p. 119). Questa possibilità fu prospettata oltre un quarto di secolo fa (Bologna, 1962, p. 130), ma non è più stata ripresa in considerazione, se si eccettua, in parte, G. Ragionieri (1989, p. 11). Va tenuta presente, inoltre, la possibilità che debbano essere modificate la data d'inizio e quella di conclusione dei lavori dell'ancona (9 ott. 1308 - 9 giugno 1311), lasciate indiscusse dalla critica passata: anticipata la prima (Pope-Hennessy, 1980; Deuchler, 1981; Previtali, 1984), posticipata la seconda (Conti, 1980; Previtali, 1984; Ragionieri, 1989). E in effetti la tesi dell'anticipo, prospettata con buoni argomenti da Pope-Hennessy, trova conferma nella constatazione che il documento del 9 ott. 1308 (Milanesi, 1854, pp. 166-168) non stipula una commissione in senso proprio e invece la dà per già stipulata specificando meglio i patti. Ciononostante, dovendo tener conto anche di quel che risulta dalla documentazione successiva (1309-10), non per questo si è incoraggiati a ritenere che alla data di stesura del documento discusso l'esecuzione della Maestà potesse essere molto più progredita di quel che s'è sempre ritenuto. Quanto poi alla tesi che la conclusione dei lavori si protraesse d'un apprezzabile tratto di tempo dopo la data della consegna ufficiale (9 giugno 1311), si tratta di chiedersi se la indubbia fondatezza delle ragioni interne che hanno indotto a proporla non sia stata tirata a postulare conseguenze materiali e operative poco credibili. L'ipotesi che, dopo la collocazione sull'altare, la Maestà fosse ricondotta in cantiere per subire l'aggiunta della predella e del coronamento, su entrambe le facce, sembra ipotesi troppo lontana dal verosimile per essere accettata senza il supporto di altre testimonianze. Altro discorso è invece quello che postula nella predella e nel coronamento dell'opera, massime nella faccia posteriore della prima con le storie della vita pubblica del Cristo, "uno stadio di sperimentazione spaziale più avanzato che nella tavola principale" (Conti, 1980; Ragionieri, 1989). Ma ciò tocca il punto centrale della lettura storico-artistica dell'ancona, e la valutazione della capacità di D. di orientarsi per tempo in quella direzione.
C'è, infine, da considerare l'intervento eventuale, e con quale ampiezza e autonomia, dei collaboratori, la cui particolareggiata identificazione Stubblebine (1973, 1979) ha fatto oggetto della sua principale e puntigliosa fatica. Un punto comunque è sempre stato rilevato dagli studiosi, anche dai più inclini alle distinzioni capillari, ed è la sostanziale omogeneità di stile che caratterizza la Maestà, a onta della grande estensione e della stratificata varietà delle sue componenti.
Detto del possibile modello cimabuesco, occorre passare ad ammettere l'evidenza, specie nell'iconografia e nell'andamento generale delle storie, d'un vero e proprio ritorno alle fonti bizantine: probabilmente in seguito alla conoscenza e all'adozione tipologica di qualche codice miniato della più pura "rinascenza macedone". Tuttavia il primo tratto veramente qualificante è che la vasta assise di angeli e santi che fa corte alla Madonna, pur serrandosi per fitta, arcaica e cadenzata giustapposizione alle fiancate del trono, è come scansata dallo spalancarsi delle ali del trono stesso; il cui ordinamento prospettico è la tappa conclusiva dell'itinerario di ricerca spaziale segnato dal trono dell'Incoronazione nella vetrata del 1288, da quello della tavoletta di Berna, da quello già più acutamente dosato e ornato della tavoletta n. 6368 della National Gallery di Londra e dai due della Madonna in trono e dell'Incoronazione nel trittichetto di Hampton Court. I quali ultimi - forse come quello che doveva vedersi nella Maestà del 1302 - sembrano costituirne la più diretta anticipazione. Questo senso crescente e "ben inteso" della ricerca illusiva nella rappresentazione dello spazio dà però l'impressione di segnare il passo nell'insieme delle Storie della Passione, dove allo straordinario spiegamento delle qualità coloristiche e a un acuto processo di sensibilizzazione gotica nella costruzione delle forme singole corrisponde una singolare divaricazione fra composizione per gruppi e grappoli di figure giustapposte, al modo bizantino, e ordinamento semplificato nella prospezione degli interni, a volte collegati in verticale "a vista", come veri e propri "praticabili" di scena. Che le Storie della Passione, dove qua e là colpiscono certi ritorni ormai arcaicizzanti di protogiottismo, ancora al modo delle mensole della Madonna Stoclet, possano essere state eseguite addirittura prima della Maestà, è un'ipotesi che non sembra sia mai stata avanzata, ma può meritare di esserlo. Cosi come merita considerazione il fatto che, a riesaminarle partitamente. anche le Storie di Cristo dopo la Resurrezione, e quelle (di queste ultime indubbiamente coeve) della Madonna dopo la Pentecoste, non sembrano leggibili in un contesto diverso da quello delle Storie della Passione: basti osservare come le architetture (e il modo di metterle in campo) dell'Ingresso a Gerusalemme tornino nei Funerali della Madonna, e come la notata divaricazione fra raggruppamenti di figure alla bizantina e ordinamento illusivo degli interni semplificati caratterizzi anche tutte queste composizioni; nonostante - occorre aggiungere - che singole figure presentino un considerevole aumento di monumentalità, talvolta quasi da pittura murale o da scultura. Con le Storie dell'infanzia, invece, a partire dalla mirabile Annunciazione ora a Londra (National Gallery), l'insieme delle qualità via via rilevate prende ad assestarsi a un livello di sempre maggiore unità di visione, il cui fattore precipitante è costituito giusto da quello "stadio più avanzato di sperimentazione spaziale" di cui ha parlato Conti (1980), e che, guadagnando un'acutezza inedita nella percezione della cavità praticabile degl'invasi architettonici, dei loro scorci e delle loro angolazioni riposte, diviene anche il motivo e il recipiente di un indicibile accrescimento poetico. Il quale nelle Storie della vita pubblica, riconvertendosi in principio chiarificatore del sondaggio d'ambiente e di ambito, produce l'esito di quegli autentici ritratti di territori urbanizzati e di quartieri di città, che si ravvisano in scene quali le Tentazioni di Cristo sul tempio (Siena), le Tentazioni di Cristo sul monte (New York, Frick Collection), l'Incontro del Cristo con la samaritana alla fonte (Lugano, coll. Thyssen Bornemisza), la Guarigione del cieco nato (Londra, National Gallery): quattro operette nelle quali, nonostante la differenza delle dimensioni, sono anticipate nei particolari le celeberrime rappresentazioni di architetture cittadine di Simone Martini (Storie di s. Martino, Assisi, chiesa inferiore; predella del S. Ludovico, Napoli, Capodimonte; Beato Agostino Novello, Siena, S. Agostino, in deposito presso la Pinacoteca nazionale) e di Ambrogio Lorenzetti (Buon Governo, Siena, palazzo pubblico).
Dopo la Maestà, non è facile ravvisare la sicura presenza di D. in opere pervenuteci, nonostante i molti sforzi compiuti. La Maestà con Storie della Passione del duomo di Massa Marittima, la cui datazione a dopo l'8 genn. 1316 pare indubbia, è probabilmente quella che ha i titoli maggiori per esser presa in considerazione in proposito. La straordinaria qualità della parte anteriore e il notevole ampliamento di respiro compositivo che l'imposto della Madonna mostra al confronto della stessa Madonna di Siena sono argomenti favorevoli all'entusiasmo con cui Arcangeli (1970) ne sostenne l'appartenenza alla mano stessa del maestro; non si può dire lo stesso, tuttavia, per le storie della parte posteriore, nelle quali caratteri e tipologie sembrano richiamare davvero quelle del giovane Ambrogio Lorenzetti, secondo la tesi di Stubblebine (1979, I, pp. 71-74; II, figg. 150-159).
Altre attribuzioni variamente avanzate non appaiono convincenti: la pur bellissima Crocifissione già Davenport Bromley, poi earl of Crawford and Balcarres e ora di proprietario ignoto (Stubblebine, 1979; Editorial ..., 1984), l'affresco con la Resa di Giuncarico riemerso nel palazzo pubblico di Siena al di sotto del Guidoriccio (Seidel, 1982; Bellosi, 1982), la Madonna n. 583 della Pinacoteca di Siena restituita a Simone Martini (Chelazzi Dini, 1983-84).
Fonti e Bibl.: Raccolte analitiche di fonti e di indicazioni bibliografiche, molto accurate e aggiornate alla data, sono già state fornite da Weigelt, 1914; Toesca, 1932; e, più di recente, da White, 1979; Stubblebine, 1979; Deuchler 1984; Ragionieri, 1989. Ma, con particolare riguardo ai richiami fatti nel testo, si veda specialmente: G. Milanesi, Doc. per la storia dell'arte senese, I, Siena 1854, ad Indicem; E. Dobbert, D.'s Bild "Die Geburt Christi" in königlischen Gemälde Galerie zu Berlin, in Jahrbuch der königlich-preuss. Kunstsammlungen, VI (1885), pp. 153-163; A. Lisini, Notizie di D. pittore e della sua celebre ancona, in Bull. senese di storia patria, V (1898), pp. 20-51; R. Davidsohn, D. di B. von Siena, in Repert. für Kunstwissenschaft, XXIII (1900), pp. 22, 313 s.; V. Lusini, Di D. di B., in Rass. d'arte senese, VIII (1912), pp. 60-98; Id., Per lo studio della vita e delle opere di D. di B. e della sua scuola, ibid., IX (1913), pp. 19-32; C. H. Weigelt, D. di B., in U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, X, Leipzig 1914, pp. 25-29; P. Toesca, Trecentisti toscani nel Museo di Berna, in L'Arte, XXXIII (1930), pp. 5-15; Id., D. di B., in Enc. Ital., XIII, Roma 1932, pp. 245-247; P. Bacci, Commentari dell'arte senese, III, Notizia su D., i figli, il nipote e i bisnipoti pittori, in Bull. senese di storia patria, n.s., III (1932), pp. 233-248; E. Carli, Vetrata duccesca, Firenze 1946 (2 ediz., Milano 1956); R. Longhi, Giudizio sul Duecento (1948), in Opere complete di R. Longhi, VII, Firenze 1974, pp. 32 ss.; Id., Prima Cimabue poi D. (1951), ibid., VI, Firenze 1973, pp. 55-59; C. Brandi, D., Firenze 1951; P. Toesca, Il Trecento, Torino 1951, ad Indicem; C. Volpe, Preistoria di D., in Paragone, V (1954), 49, pp. 4-22; E. De Wald, Observations on D.'s Maestà, in Late classical and medieval studies in honor of A. M. Friend, Jr., Princeton 1955, pp. 363-386; C. Brandi, Il restauro della "Maestà" di D., Roma 1959; F. Bologna, Ciò che resta di un capolavoro giovanile di D., in Paragone, XI (1960), 125, pp. 3-31; Id., La pittura italiana delle origini, Roma-Dresda 1962, pp. 125-133 e passim; Id., I pittori alla corte angioina di Napoli, Roma 1969, ad Indicem; F. Cooper, A reconstruction of D.'s Maestà, in The Art Bulletin, XLVII (1965), pp. 155-171; J. White, Art and architecture in Italy, 1250 to 1400, Baltimore 1966, ad Indicem; J. Stubblebine, The angel pinnacles on D.'s Maestà, in The Art Quarterly, XXXII (1969), pp. 131-152; F. Arcangeli, La "Maestà" di D. a Massa Marittima, in Paragone, XXI (1970), 249, pp. 4-14; L'opera completa di D., a cura di G. Cattaneo - E. Baccheschi, Milano 1972; J. Stubblebine, D.'s "Maestà" of 1302 for the Chapel of the Nove, in The Art Quarterly, XXXV (1972), 3, pp. 239-268; Id., D. and his collaborators on the cathedral "Maesta", in Art Bulletin, LV (1973), pp. 185-204; J. White, Measurement, design and carpentry in D.'s "Maestà", ibid., pp. 334-366, 547-569; Id., D., London 1979; J. Stubblebine, D. di B. and his school, I-II, Princeton 1979; A. Conti, Rec. a J. White, D. [1979], in Prospettiva, 1980, n. 23, pp. 98-101; J. Pope-Hennessy, A misfit master, in New York Review of books, XXVII (1980), 18, pp. 45-47; M. Seidel, "Castrum pingatur in palatio". Ricerche storiche e iconografiche sui castelli dipinti nel palazzo pubblico di Siena, in Prospettiva, 1982, n. 28, pp. 17-35; L. Bellosi, "Castrum pingatur in palatio". D. e Simone Martini pittori di castelli senesi "a l'esempio di come erano, ibid., pp. 41-65; H. Belting, The "byzantine" Madonnas: new facts about their Italian origin and some observations on D., in Annual Report of the National Gallery of Art (Washington), XII (1982), pp. 7-22; F. Bologna, Nascita dell'arte senese, in Il gotico a Siena (catal.), Firenze 1982, pp. 31-36 (se ne veda anche l'ediz. ampliata in lingua francese, L'art gothique siennois, Firenze 1983, pp. 29-33); Id., The crowning disc of a Trecento "Crucifixion" and other points relevant to D.'s relationship to Cimabue, in The Burlington Magazine, CXXXV (1983), pp. 330-340; E. Castelnuovo, Arte delle città, arte delle corti tra XII e XIV secolo, in Storia dell'arte italiana (Einaudi), II, 1, Torino 1983, pp. 218 s. e passim; G. Chelazzi Dini, Un capolavoro giovanile di Simone Martini, in Prospettiva, 1983-84, nn. 33-36, pp. 29-32; F. Deuchier, D., Milano 1984; Editorial. Siena and Avignon, in Apollo, CXIX (1984), pp. 155-157; G. Previtali, Rec. a F. Deuchler, D., [1984], in Prospettiva, 1984, n. 37, pp. 72-76; L. Bellosi, La pecora di Giotto, Torino 1985; G. Mecacci, Un frammento della Biccherna del 1302 (pagamenti a D. per la Maestà), in Bull. senese di storia patria, XCIII (1986), pp. 368-73; L. Bellosi, Il pittore oltremontano di Assisi, il gotico a Siena e la formazione di Simone Martini, in Simone Martini, Firenze 1988, pp. 39-47; F. Bologna, Conclusioni (e proposte), ibid., pp. 239-252; G. Ragionieri, D., Firenze 1989.