DROCTULFO (Drocton, Droctulfus)
Svevo o alamanno di stirpe, crebbe, secondo quanto afferma Paolo Diacono, presso i Longobardi e, poiché era "fórma idoneus", aveva ottenuto da loro la dignità di duca. Tuttavia, non appena ne aveva avuto l'occasione, si era vendicato della sua prigionia ("captivitas") passando ai Bizantini. Con grado di duca ("dux") comandava il presidio imperiale di Brescello (Reggio Emilia) quando il re dei Longobardi Autari, nei primi anni del suo regno (584-590), aveva investito quell'importante testa di ponte bizantina sulla riva destra del Po, la cui importanza strategica era dovuta al fatto che da essa si controllavano le vie di collegamento fluviale con Classe, il porto per l'Oriente. Autari costrinse D. a capitolare e a ripiegare su territori di dominio bizantino, riparando a Ravenna: Brescello venne rioccupata dai Longobardi e le sue mura furono rase al suolo.
Fin qui Paolo Diacono. Le notizie fornite dallo storico dei Longobardi si incrociano con quelle che si possono desumere dall'unica altra fonte che ci parla dello sfortunato difensore di Brescello e dalla quale lo stesso Paolo Diacono dovette attingere: l'epitaffio in versi, che era stato apposto sulla tomba appunto di D. in S. Vitale di Ravenna.
L'epitaffio conferma che D., lasciati i Longobardi, trovò accoglienza presso i Bizantini, a Ravenna, città che da allora egli considerò come sua patria. L'epitaffio ribadisce altresì la notizia che D., con i reparti imperiali posti sotto il suo comando, riconquistò Brescello, che era stata occupata dai Longobardi: fu il suo primo successo, la sua prima gloria militare, afferma l'anonimo autore dell'iscrizione. Altre ne seguirono. Dalla base di Brescello D., dopo aver apprestato una flottiglia di piccole barche, risalì il corso del Padoreno, un affluente del Po, fino ad investire e a conquistare Classe, allora tenuta - così l'epitaffio - dal longobardo Faroaldo.
La menzione di Faroaldo, futuro primo duca longobardo di Spoleto, ci consente di datare la conquista di Classe da parte di D. in senso lato tra il 575-576 (allorché Faroaldo, già mercenario al servizio dei Bizantini, si ribellò all'autorità dell'Impero e si accinse a costituire una sua dominazione autonoma) ed i primi tempi di Autari, quando - come dice Paolo Diacono - Brescello venne riconquistata dai Longobardi e non poté quindi più fungere da base per un'offensiva di D. contro Classe. Poiché in un periodo successivo Classe appare di nuovo in mano ai Bizantini è ragionevole pensare che l'impresa di D. riuscì così come asserisce l'epitaffio.
La carriera di D. non si limitò al suolo italiano e alla lotta contro i Longobardi. Lo scacchiere più minacciato per l'Impero era infatti quello balcanico, dove Avari e Slavi erano ormai dilagati a sud del Danubio. Non ci stupiamo quindi di trovare nel 586 anche D. impegnato nei Balcani, in Tracia, a fronteggiare gli Avari.
Le armate bizantine non riuscivano a fermare gli invasori - narra la nostra fonte principale, il cronista bizantino Teofilatto Simocatta -per cui, mentre la città di Adrianopoli era assediata, l'imperatore Maurizio, fatto segno a Costantinopoli di proteste popolari, decise di potenziare la sua macchina bellica. Affidò quindi il comando allo stratego Giovanni Mistacon, affiancandogli, come ipostratego, D. che il cronista chiama Drocton e definisce "longobardo di stirpe, uomo prode e robustissimo per la guerra". I due nuovi comandanti vinsero gli Avari ad Adrianopoli, grazie a uno stratagemma decisivo di D., che, dopo aver simulato la fuga, si gettò alla testa dei suoi uomini sugli inseguitori disperdendoli. Così gli Avari dovettero cedere il campo e ritirarsi.
L'epitaffio di D. ne ricorda ancora la sepoltura in S. Vitale in Ravenna, suggerendo però in modo esplicito che egli fosse morto lontano da quella città, e che vi fosse tornato solo dopo morto, per avervi infine sepoltura, grazie alle cure di un certo prete Giovanni, al quale lo stesso D., morendo, aveva espresso il suo ultimo desiderio: "per il pio amore del quale tornò in queste terre". È probabile quindi che D. sia morto combattendo al servizio di Bisanzio, in una parte qualsiasi dell'Impero: non necessariamente nei Balcani. Acquista così valore una notizia (di solito non riferita a D.) contenuta in una lettera di Gregorio Magno del settembre-ottobre 598, scritta all'esarca bizantino d'Africa, Gennadio. In essa il papa raccomanda all'esarca un certo Droctulfò, latore dello scritto, "de hostibus ad rempublicam veniens".
Non è necessario intendere il passo come un accenno a un cambio di campo avvenuto in quel momento: potrebbe quindi trattarsi di D., già schieratosi a favore dei Bizantini da molto tempo ma pur sempre di origine barbarica (del resto la frase potrebbe essere interpretata anche come un riferimento al fatto che D. era stato di recente in contatto con il nemico, magari nei Balcani).Il papa potrebbe alludere perciò ad un'altra tappa della vita avventurosa di D. (la data del 598 non è affatto troppo tarda). Del resto l'epitaffio di D. ricorda che quest'ultimo tornava spesso a S. Vitale, dopo le sue vittorie: non è. quindi impossibile ritenere che egli sia stato allora da Ravenna inviato a Roma e di lì in Africa, a cercare una nuova collocazione presso Gennadio, di cui, secondo Gregorio, conosceva la fama. Null'altro sappiamo di lui: e se pure la tappa africana (l'ultima?) della sua vita rimane incerta, il fatto che egli porti un nome che è unico in tutta l'età longobarda, induce ad attribuire a D. anche il viaggio in Nordafrica.
In tutti i sensi la sua fu la tipica vita di un guerriero federato dell'Impero: di uno di quei federati barbarici che fecero a lungo la forza di Bisanzio nell'età della difficile lotta per la sopravvivenza.
Di aspetto terribile, con una lunga barba che gli scendeva sul petto robusto, D. - secondo il ritratto che ne fa il suo epitaffio, che ne esalta pure l'amore per i "Romana ac publica signa" - fu comunque soprattutto un "vastator gentis suae", non solo un formidabile guerriero quindi, ma, più esattamente, un "distruttore", un nemico della sua stessa gente. Ed è proprio su quest'aspetto della figura di D. che si appuntano i maggiori problemi. Lo storico che, più di ogni altro, si è occupato di D. è stato senza dubbio Giampiero Bognetti, con risultati che uniscono però ad elementi ormai da considerare acquisiti, altri assai più discutìbili. D. è rappresentato dal Bognetti come il tipico longobardo federato dell'Impero, le cui vicende personali consentono di illuminare gli avvenimenti italiani del periodo in particolare che va dal 575-576 al 589-590, che segna - con la progressiva fusione tra i Longobardi del Regno e i Longobardi ex federati -l'affermazione definitiva della dominazione longobarda in Italia. Il Bognetti riteneva D. uno dei longobardi che avevano seguito a Ravenna Elmichi e Rosmunda, gli assassini di Alboino in fuga davanti alla reazione dei guerrieri pavesi comandati da Clefi, eletto successore di Alboino sul trono longobardo (572). A, tuttavia, questa, una semplice ipotesi, senza sostegno alcuno nelle fonti. L'epitaffio, tra l'altro, racconta che D. si rifugiò a Ravenna abbandonando i suoi "cari genitori": in questa notazione fuggevole, di tipo psicologico-affettivo, sempre il Bognetti vedeva una prova dell'età giovanissima di D. allorché abbandonò il campo longobardo. La presa di Brescello da parte dei Bizantini da lui comandati è posta dal Bognetti all'interno dell'impresa del curopalate Baduario, che nel 575-576, alla testa di un numeroso esercito, tentò invano di strappare l'Italia ai Longobardi riunendola di nuovo all'Impero. La spedizione si risolse in un disastro, le cui conseguenze furono gravissime, anche perché Baduario aveva riportato in Italia una parte almeno dei guerrieri longobardi che erano passati dalla parte imperiale dopo la morte di Alboino e che i Bizantini avevano in precedenza impiegato in Siria. Dopo la sconfitta di Baduario, infatti, i Longobardi che erano federati dell'Impero negli anni successivi ripresero la loro libertà di movimento, stabilendo di nuovo legami con i Longobardi del Regno, nemici dell'Impero (e in questo contesto si situa la vicenda dello scontro tra D., rimasto fedele a Bisanzio, e Faroaldo).
Ma non tutto funziona nell'ipotesi del Bognetti. Infatti è difficile ammettere che D., "giovanissinio" nel 572, nel 575-576 fosse già a capo - con una carriera fulminante - di un contingente bizantino di una certa importanza, impegnato in una zona-chiave per la lotta antilongobarda. Né è possibile, come fa ancora Bognetti, liquidare tutte le affermazioni di Paolo Diacono che non trovano riscontro nell'epitaffio come pure illazioni. Pur in mancanza di controprove, non possiamo ad esempio ignorare quanto ci dice Paolo Diacono sulla prigionia giovanile di Droctulfò. Che questi fosse di origine sveva, ce lo dice infatti il suo stesso epitaffio: e tale origine quindi va spiegata. La si deve riferire probabilmente al tempo del vicinato tra Longobardi e Svevi in Boemia e Moravia, quando fra i due popoli (all'età di re Vacone, nella prima metà del sec. VI) ci fu uno scontro armato di una certa importanza. Del resto sappiamo anche che gli Svevi fecero parte, come gruppo associato, della "slavina migratoria" longobarda guidata da Alboino in Italia nel 569. Appare invece meno probabile, anche se non del tutto impossibile, che la prigionia di D. (e dei suoi genitori) sia da imputare alle conseguenze delle intermittenti ostilità tra i Franchi (cui gli Alamanni, che facevano parte della nazione sveva, erano soggetti) e i Longobardi dopo l'invasione dell'Italia da parte di questi ultimi. In ogni caso, c'è più di una spiegazione possibile per la "captivitas" menzionata da Paolo. Con l'ipotesi del Bognetti, che D. fosse passato giovanissimo dalla parte dei Bizantini, salterebbe inoltre anche l'attribuzione a D. della qualifica di duca datagli da Paolo, visto che si trattava - così sembrerebbe ma la fonte non è del tutto chiara - di un honor raggiunto per i propri meriti; si tratta quindi, pure da questo punto di vista, di un'ipotesi scarsamente sostenibile (anche se il titolo di dux che D. porta nell'Historia Langobardorum potrebbe essere di origine bizantina).
È vero che nessuna certezza, al di là del quadro generale - l'Italia dei primi decenni dell'invasione - e di una somma di avvenimenti difficilmente coordinabili fra loro, è possibile. Si ha comunque la sensazione che il Bognetti anticipi troppo le vicende di D.: la conquista e la difesa di Brescello e l'attacco a Classe - se non, anche, la defezione di D. dal campo longobardo- potrebbero in effetti essere tutti riferiti al 584-585, all'inizio dell'età di Autari. Per la conquista di Brescello si potrebbe anche risalire a poco prima, al 583-584, alle circostanze favorevoli create per i Bizantini dall'invasione franca in Italia (la ribellione di Faroaldo, invece, risale senza dubbio al 575-576: il futuro duca spoletino del resto poté benissimo tenere per alcuni anni il controllo di Classe). Questa cronologia più "bassa" degli avvenimenti permetterebbe, in sostanza, di saldare maggiormente le imprese italiane di D. con quelle successive, fino a giungere all'ultima notizia nota, la già citata lettera di Gregorio Magno del 598.
Fonti e Bibl.: Pauli Diaconi Historia Langobardorum, a cura di G. Waitz-L. Bethmann, in Mon. Germ. Hist., Script. rer. Langob. ..., I, Hannoverae 1878, III, 18-19, pp. 101 ss.; Theophylacti Simocattae Historiarum libri octo, II, 17, a cura di C. de Boor, Lipsiae 1887, pp. 103 ss.; Gregorii papae I Registrum epistolarum, a cura di L. M. Hartmann, in Mon. Germ. Hist., Epistolae, II, Berolini 1899, IX, 10, pp. 46 s.; G. P. Bognetti, Tradizione longobarda e politica bizantina nelle origini del Ducato di Spoleto, in Id., L'età longobarda, III, Milano 1967, pp. 461-469; J. Jarnut, Prosopographische und sozialgeschichtliche Studien zum Langobardenreich in Italien (568-774), Bonn 1972, p. 349; S. Gasparri, I duchi longobardi, Roma 1978, pp. 54 s.