Down by Law
(USA/RTF 1986, Daunbailò, bianco e nero, 106m); regia: Jim Jarmusch; produzione: Alan Kleinberg per Black Snake/Grokenberger; sceneggiatura: Jim Jarmusch; fotografia: Robby Müller; montaggio: Melody London; scenografia: Janet Densmore; costumi: Carol Wood; musica: John Lurie.
New Orleans. Jack è un pappone accidioso che si fa incastrare mentre ingaggia una sconosciuta presumibilmente minorenne. Zack è un dj appena scaricato dalla sua donna, colto in flaglante mentre trasporta a sua insaputa un cadavere nel bagagliaio. Nella cella che i due si trovano a dividere, sono raggiunti da Roberto, un baro italiano che ha incidentalmente ucciso un uomo con una palla da biliardo. Dopo il primo scompiglio, il trio sembra trovare un equilibrio. L'italiano annuncia ai compagni di conoscere una via di fuga: l'evasione rie-sce, sfruttando un passaggio che porta nei condotti fognari. I tre attraversano boschi e paludi e Zack salva Roberto portandolo a nuoto da una sponda all'altra di un fiume; trovano ristoro per la notte in un minuscolo capanno e, il giorno dopo, vedono affondare nell'acqua la loro barchetta. Zack e Jack litigano e prendono strade opposte, ma poi tornano a riunirsi mentre Roberto arrostisce un coniglio. Giungono nei pressi di una casa fuori mano, e Roberto va in avanscoperta: all'interno c'è una ragazza italiana, Nicoletta. Tra i due scocca fulmineo l'amore; Roberto ha trovato dove gettare l'ancora, i suoi due compagni riprendono il cammino, dividendosi appena il sentiero si biforca.
Molti personaggi di Jim Jarmusch scontano la dannazione di dover andare per forza da qualche parte. Zack, per esempio, rompe definitivamente con la sua ragazza quando lei minaccia di scaraventargli fuori le scarpe, neanche fossero un paio di simbolici stivali delle sette leghe. Nei momenti in cui Jarmusch decide di muoversi con la macchina da presa, preferisce che lo spostamento sia un gesto evidente, come nei carrelli che aprono Down by Law e corrono lungo cimiteri, stradacce cittadine e lidi palustri. Non capita spesso, però è certo un segno dell'importanza che il regista attribuisce al movimento. Tuttavia, quando questi personaggi arrivano, se ci riescono, per lo più scoprono che sembra di stare ancora al punto di partenza e che, in un modo o nell'altro, si sono persi. Poco conta: a loro l'approdo pare in fondo interessare poco. Là c'è comunque la morte. L'imperativo essenziale è 'andarsene da'. In Down by Law, questo desiderio di fuga prende la forma dell'evasione carceraria: uno stimolo perentorio, che spazza via l'indolenza che attanaglia altri 'forzati' del cinema di Jarmusch. Il regista, comunque, nega al pubblico il godimento avventuroso dei preparativi, che fa invece da muro portante al 'film carcerario' d'ordinanza. Semplicemente, in un'inquadratura i tre galeotti si incamminano per l'ora d'aria e in quella successiva già corrono come pazzi nelle fognature. Le tentazioni del 'genere' finiscono nel nero tra le due scene. Un trattamento anche peggiore di quello che sarà riservato al western prosciugato di Dead Man (1995) o al crime movie lapidario di Ghost Dog: The Way of the Samurai (Ghost Dog ‒ Il codice del samurai, 1999).
Dopo essere riusciti a fuggire, uno dei primi posti in cui Zack, Jack e Roberto trovano rifugio è un casotto dall'aspetto famigliare, stretto quanto la prigione appena lasciata alle spalle, anche se almeno c'è una finestra che dà su qualcosa. Neanche sono scappati e già si ritrovano in gabbia. Anche questo è un destino cui spesso il cinema di Jarmusch assoggetta i suoi personaggi. La fatica claustrale che ne deriva non è da attribuire solo allo squallore di carceri, tinelli o motel. Jarmusch è uno straordinario creatore di interni asfittici, dove i personaggi non godono di quel minimo d'ossigeno che può dare un movimento panoramico di macchina o la varietà delle prospettive ottenuta da un montaggio 'tradizionale'. Nulla che inviti a rimanere, con un'eccezione: alla fine del suo viaggio, Roberto è radioso perché ha trovato un focolare, dove è come se la fatata Nicoletta lo aspettasse da sempre. Perfino il bianco e nero di Robby Müller (operatore di fiducia di Wim Wenders subentrato nella squadra di Jarmusch all'ottimo Tom Di Cillo) si fa per l'occasione più soffice e fiabesco. Da parte loro, invece, Jack e Zack tengono le scarpe ai piedi e si dividono al primo bivio, per prenderne più avanti mille altri, di spalle come in un finale alla Charlot (anche se fino a quel momento la loro ostinazione di sradicati li aveva fatti più assomigliare a Buster Keaton).
Il personaggio di Benigni sembra piombare nel film (e nel cinema di Jarmusch) come un ufo bislacco, guardato con una certa perplessità dal mondo di 'spostati' che lo attornia: l'imprevedibilità delle sue espressioni facciali si staglia contro un muro di visi eternamente raggrinziti o affilati, la generosità della sua chiacchiera schiamazza in mezzo alle molte ritirate laconiche degli altri. E poi parla una lingua sul filo dell'assurdo, da italiano emigrato di fresco e ancora lontano dalla padronanza dell'inglese: gira con un taccuino su cui annota qualche frase fatta, che puntualmente a chi la ascolta fa un effetto straniante. "It's a sad and beautiful world", sono le sue prime parole. È una banalità insopportabile o una verità davanti a cui inchinarsi? Zack, comunque, lo invita più volte a levarsi di torno. Per lui la bellezza del linguaggio verbale sta tutta nel monologo, nelle soffici e roche parole con le quali un bravo dj notturno ci trattiene tra un disco e l'altro. Prospettive differenti, che si mischiano ad altre: l'emozione di Roberto per Leaves of Grass di Walt Whitman, recitata in italiano dentro al silenzio enigmatico dei suoi compagni; o la furiosa filastrocca ("…We all scream for ice cream") che coinvolge ben presto l'intero carcere in un'unica giga urlante. Non stupisce che Jarmusch abbia imposto per la distribuzione internazionale del film il divieto di doppiaggio: in Down by Law le parole sono orchestrate come in una partitura da cui affiorano le pause, le imprecazioni rabbiose, le lunghe tirate, capriole semantiche e ciniche stilettate. C'è posto anche perché si adagino le melodie dolci e malate di Tom Waits, come in un sogno di pirati svaporato nel troppo alcol ("16 men on a deadman's chest / And I've been drinking from a broken cup"). Non c'è dubbio che i singoli interpreti abbiano avuto in questo un peso creativo imprescindibile; del resto, la regola del regista è prima scegliere gli attori, poi costruire su di essi i personaggi.
Jim Jarmusch si era fatto conoscere con Stranger than Paradise (Stranger than Paradise ‒ Più strano del paradiso, 1984) come uno degli sguardi più originali del panorama indipendente americano. Down by Law, proiettato in concorso a Cannes, rappresenta agli occhi della critica più una bella conferma che un'autentica sorpresa. Si avverte bene già all'epoca (in fondo il regista era solo al terzo lungometraggio) la presenza di un autore con un carnet di ossessioni chiare e lo stile giusto per raccontarle: un ibrido di rigore e sciatteria, meditata costruzione e stralci di azioni improvvisate, male di vivere e perplesso sense of humour, desideri paesaggistici e laidi acquari post-beckettiani. Un cinema che si muove di continuo ma torna volentieri su sé stesso.
Interpreti e personaggi: Tom Waits (Zack), John Lurie (Jack), Roberto Benigni (Roberto), Nicoletta Braschi (Nicoletta), Ellen Barkin (Laurette), Billie Neal (Bobbie), Vernel Bagneris (Preston), Rockets Redglare (Gig), Timothea (Julie), L.C. Drane (L.C.).
H. Le Roux, 'Down by Law', de Jim Jarmusch', in "Cahiers du cinéma", n. 385, juin 1986.
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