DORIA, Gian Domenico, detto Domenicaccio
Figlio di Stefano del ramo dei Doria che le genealogie fanno risalire a Giovanni (1427), nacque a Genova intorno alla metà del sec. XV. Intrapresa la carriera delle armi, nell'ottobre 1484 fu al comando delle truppe genovesi inviate in soccorso di Pietrasanta, assalita dai Fiorentini. La sua missione, però, non ebbe successo: la città cadde nelle mani degli avversari e, secondo il Giustiniani, gli stessi capitani genovesi preposti alla sua difesa furono sospettati di tradimento. Il D. ritenne, allora, più prudente non tornare a Genova: si recò a Roma, dove ottenne facilmente il comando delle guardie dei palazzo pontificio, grazie ai suoi rapporti di parentela con papa Innocenzo VIII, da pochi mesi salito al soglio papale, di cui aveva sposato una parente.
Nei registri degli Introitus et exitus vaticani lo troviamo con la qualifica di "capitaneus custodie palatii" già dal 3 dic. 1484: aveva al suo comando 200 fanti e 14 balestrieri a cavallo, che nel febbraio dell'anno successivo sarebbero aumentati a 25, anche se le truppe ai suoi ordini erano spesso soggette a variazioni sia di consistenza numerica, sia di composizione qualitativa, come dimostrano le periodiche registrazioni delle "provvisioni" nei libri di spesa vaticani. Dalle stesse fonti, ma anche dai dispacci del nunzio pontificio Giacomo Gherardi e dalle note del cerimoniere Giovanni Burcardo, risulta che il D. mantenne la carica durante tutto il pontificato di Innocenzo VIII.
In questa veste, oltre alla difesa personale del papa e al disbrigo di incarichi come suo uomo di fiducia (si veda ad esempio l'episodio, riportato dal cronista Gaspare Pontani, del 20 luglio 1485 relativo ad una delle frequenti scorrerie dei Colonnesi nei possedimenti degli Orsini) fu presente alle più importanti cerimonie "mondane" della corte pontificia: dal matrimonio di Peretta, figlia di Teodorina Cibo e quindi nipote del papa (a questo proposito sono di un certo interesse due documenti cheattestano come, in relazione a questo avvenimento, sia il Doria sia lo stesso pontefice avessero acquistato da mercanti genovesi gemme e gioielli di notevole valore), dalle nozze tra Orso Orsini e Giulia Farnese, al corteggio d'onore per quelle di Pietro Paolo Cesarini con Bernarda Conti. Inoltre è spesso ricordato tra i "notabili" che prendevano parte ai cortei di accoglienza degli ospiti più prestigiosi della corte pontificia, come il cardinale Giovanni de' Medici, cognato di Franceschetto Cibo, figlio del papa, il principe di Capua Ferdinando d'Aragona, lo stesso re di Napoli, tutti venuti a Roma in varie riprese nel 1492.
Il prestigioso incarico presso il pontefice era servito al D. per consolidare la propria posizione economica e sociale, ma non esaudiva certamente le sue aspirazioni. Infatti, quando seppe che i suoi lontani parenti di Oneglia erano decisi a disfarsi della loro signoria, incaricò il notaio Cotta di quella città di curarne l'acquisto per suo conto, dopo aver ottenuto il 14 ott. 1487 il benestare del duca di Milano, di nuovo signore di Genova, che aveva già rifiutato la cessione del dominio alla potente famiglia ligure dei Lascaris. L'acquisto fu perfezionato il 1ºgenn. 1488 per la complessiva somma di 7.000 ducati; il 5 gennaio nella chiesa di S. Giovanni in ripaUnelie gli abitanti della valle inferiore giurarono fedeltà al nuovo signore nelle mani del suo procuratore Gerolamo Doria, seguiti il giorno 8 da quelli della valle superiore. Il D. si era impegnato non solo a rispettarne gli antichi privilegi e franchigie, ma aveva fatto ulteriori concessioni in loro favore. Infine il 23 gennaio dello stesso anno il D., che si trovava ancora a Roma, per mezzo del suo procuratore Antonio Zuzanno, con atto redatto a Pavia, prestava giuramento di fedeltà al duca Gian Galeazzo Sforza.
Giunto ad Oneglia alla fine dell'estate con la moglie e i figli Franceschetto, Stefano, Girolamo, Bianca ed Elisabetta (un altro figlio, Obicino, era morto nel 1485) si preoccupò per prima cosa di fortificare il suo dominio. Iniziò subito la costruzione, sul lato occidentale dell'abitato della città, di un castello quadrato "di cento passi per lato, con quattro torri agli angoli e fossi tutt'intorno" (Molle, p. 183), col proposito di munirlo delle artiglierie portate da Roma. Questo fatto scatenò immediatamente le reazioni di Genova, che temeva di vedere sorgere ai suoi confini una signoria potente e a lei ostile, e dello Stato milanese che, in forza di un antico decreto, faceva divieto ai feudatari di costruire castelli.
Eppure fin dal novembre del 1487 il nunzio pontificio Giacomo Gherardi, per incarico di Innocenzo VIII, aveva cercato di ottenere dal reggente Ludovico Sforza il permesso per la costruzione della rocca. Da una lettera del 28 apr. 1488 apprendiamo che questo era stato finalmente concesso, ma solo pochi mesi dopo il Moro aveva già avuto un ripensamento, non solo in quanto gli sembravano eccessive le opere di difesa approntate dal D., ma anche perché il papa si stava imparentando con i marchesi di Finale e quindi maggiori erano i timori del Moro per il suo dominio su Genova. Perciò il 7 ottobre dello stesso anno lo Sforza scioglieva gli abitanti di Oneglia dal giurampnto di obbedienza al D., ordine revocato il 22 successivo in attesa di chiarimenti, ma poi ribadito, per quanto riguardava i lavori della rocca, il 14 dicembre, mentre agli agenti del D. in Oneglia si ordinava perentoriamente di sospendere la costruzione.
A questo deciso atteggiamento sforzesco il D., che pure aveva fatto proseguire i lavori, rispondeva con l'offerta di garanzie, come risulta da una lettera del Gherardi del 4 febbr. 1489, ma nel maggio successivo il Moro si dimostrò ancora una volta contrario all'impresa. Il Gherardi doveva ancora a lungo dedicarsi a questo affare, che stava molto a cuore anche ad Innocenzo VIII. Dalle numerose lettere inviate al pontefice in merito a questa vicenda possiamo renderci conto dei frequenti mutamenti d'opinione del Moro: il 19 giugno il permesso veniva nuovamente accordato e nell'agosto (lettera del giorno 25) si poteva stipulare il contratto definitivo che obbligava il D. all'annuo pagamento di 1.650 lire milanesi; ma nell'agosto dell'anno seguente l'ostilità del duca nei confronti della rocca d'Oneglia sembrava nuovamente irremovibile.
Il D., che continuava a rivestire la carica di capitano delle guardie pontificie e a risiedere a Roma, avendo lasciato ad Oneglia il figlio Franceschetto come suo luogotenente, insisteva presso il papa e i maggiori esponenti della Curia per rientrare in possesso del suo dominio. Su loro consiglio, il 29 ott. 1490, con un atto redatto a Roma dal notaio Valeriano di Lauro, si impegnava di non offendere né danneggiare per mezzo del castello che aveva costruito lo Stato di Milano né quello di Genova sotto pena di 30.000 ducati d'oro.
Dopo un lungo periodo di silenzio la questione tornò di attualità con la morte di Innocenzo VIII (25 luglio 1492). Il Moro, che nonostante i ripensamenti non aveva mai visto di buon grado la rocca di Oneglia, non ebbe più indugi: già il 31 luglio ne disponeva la distruzione, affidandone l'impresa a Giovanni Adorno, che il 18 agosto, dopo aver sottoposto il castello ad un serrato bombardamento, costringeva gli abitanti e Franceschetto Doria ad arrendersi senza condizioni. Con l'atto di resa, stipulato il 29 successivo, terminava la prima fase della dominazione su Oneglia del D.: il suo castello veniva smantellato, i suoi beni confiscati, il figlio Franceschetto, fatto prigioniero, veniva condotto a Genova. Però il D., sicuramente presente a Roma l'11 marzo 1493 ai funerali di Domenico De Mari, padre di Lorenzo Cibo Mari, cardinale beneventano, non si era rassegnato. Anche se era morto il suo protettore Innocenzo VIII, aveva ancora molti amici influenti in Curia: uno di questi doveva essere il domenicano bergamasco Tommaso Catanei, creato dal defunto pontefice vescovo di Cervia, con cui il D. era in rapporti molto stretti come dimostra il fatto che gli fece da prestanome, tra il marzo 1492 e il maggio 1493, nell'acquisto di beni immobili di notevole valore che il vescovo voleva lasciare, senza che comparissero nel suo testamento, a figli naturali: l'episodio è testimoniato da alcuni atti notarili rinvenuti nell'Archivio di Stato di Roma.
Per risolvere la vertenza il D. ebbe l'insperato aiuto dello stesso fratello del Moro, il cardinale Ascanio Sforza, che cercava di rendersi gradito al nuovo papa Alessandro VI per far accettare senza contrasti la successione di Ludovico nel Ducato -milanese dopo la morte, forse per avvelenamento, di Gian Galeazzo. Contemporaneamente era stata mobilitata la stessa Cancelleria pontificia: in un documento del 22 febbr. 1496 si sottolineavano i grandi meriti verso il papa e il S. Collegio del D., definito con la qualifica di "peditum Sacre Romane Ecclesie generalis capitaneus", un incarico ancora più prestigioso di quello che aveva rivestito precedentemente, e anche meglio retribuito, come risulta dai coevi registri di spese vaticani. Dopo qualche ulteriore perplessità il Moro il 24 marzo 1498 dava infine ordine al suo commissario di restituire Oneglia e la sua valle al D., che il 1º aprile di quello stesso anno rientrava in citta e riceveva il giuramento di fedeltà dagli abitanti, mentre egli stesso il 15 giugno 1499 rinnovava il giuramento al duca di Milano. Mantenne il suo dominio per circa sette anni, sempre in contrasto con i suoi sudditi, finché non fu ucciso, non lontano da casa sua in piazza Doria ad Oneglia in un giorno non precisato del 1505, da un assassino rimasto sconosciuto e per motivi non noti, che, secondo il Pira, sulla base di una locale tradizione, sarebbero da ricercarsi nelle assurde pretese del D. di avvalersi dello ius primae noctis, mentre il Molle, molto più realisticamente, crede che la causa della sua uccisione sia da ricercarsi nel conflitto sempre aperto che lo opponeva agli altri Doria della valle superiore, i quali non avevano voluto riconoscerlo come nuovo signore.
Morto il D. senza testamento, la vedova Peretta governò in vece dei figli Stefano e Gerolamo, di cui ebbe la tutela e, dal governo genovese, anche l'amministrazione dei beni ereditari nonché l'effettivo governo della valle (19 dic. 1505). Dopo la sua morte, nel 1512, e quella di Gerolamo, senza figli, nel 1522, Stefano sarebbe divenuto l'unico signore di Oneglia e del suo territorio.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Roma, Camerale I, reg. 853, cc. 27r, 57v; Ibid., Collegio dei notai capitolini, n. 470, Not. Bernardo Capogalli, cc. 304, 333, 336r, 378v; Arch. segr. Vaticano, Introitus et exitus, n. 504, cc. 143r, 146v, 151, 176; n. 511, cc. 153r, 163r, 168r, 176v, 184v; n. 512, cc. 130v, 146v, 154r; n. 516, c. 186v; n. 518, c. 148v; n. 523, cc. 116r, 119v, 120, 189v; n. 530, cc. 122v, 124r; Il Diario romano di Gaspare Pontani, in Rer. Ital. Script., 2 ed., III, 2, a cura di D. Toni, p. 48; I. Burckardi, Liber notarum ab anno MCCCCLXXXIII usque ad annum MDVI, ibid., XXXII, 2, a cura di E. Celani, pp. 245, 258, 307, 318, 343, 360, 377, 406; A. Giustiniani, Annali della RepubblicadiGenova, a cura di G. B. Spotorno, II, Genova 1854, pp. 538-540; V. Forcella, Iscrizioni delle chiese e d'altri edifici di Roma, XI, Roma 1877, p. 33 n. 55; Dispacci e lettere di G. Gherardi nunzio pontificio a Firenze e a Milano (11 sett. 1487-10 ott. 1490), a cura di E. Carusi, Roma 1909, pp. 45 s., 50 s., 63, 65-68, 79, 118, 120, 172 s., 275, 287, 299, 301, 303, 325 s., 343, 388, 464, 475, 492, 495, 518 s., 530, 540, 542, 544; G. M. Pira, "Unfaro". Storia della città e del principato di Oneglia, Genova 1845, pp. 208, 211-215; R. Andreoli, Oneglia avanti il dominio della casa di Savoia, Oneglia 1881, pp. 68, 73 n. 1; C. Bornate, La guerra di Pietrasanta (1484-85) secondo i documenti dell'archivio genovese, in Miscell. di storia ital., L (1922), pp. 169-171; L. Giordano, Memorie onegliesi, Genova 1923, p. 229; G. Molle, Oneglia nella sua storia, I, Milano 1972, pp. 176 s., 179-201 (dove vengono utilizzati e spesso trascritti in nota molti documenti tratti dagli Archivi di Stato di Genova, Milano, Torino); G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, XXVIII, p. 136; XXXV, p. 175.