Donne ch'avete intelletto d'amore
Canzone della Vita Nuova (XIX; Rime XIV), tutta di endecasillabi, di 5 stanze (l'ultima costituisce il congedo), con piedi e volte, concatenatio e combinatio, su schema 8+6 ABBC; ABBC; CDD, CEE.
Oltre che nei codici contenenti la Vita Nuova o tutte le sue liriche, si trova in numerosi altri, ora isolata (e adespota), come in Vat. lat. 3793, dov'è seguita dalla canzone responsiva (anch'essa adespota) Ben aggia l'amoroso e dolce core, o nel Memoriale 18 dell'Archivio di Stato di Bologna (del 1292) in trascrizione lacunosa ed eseguita a mente (cfr. il testo in A. Caboni, Antiche rime italiane tratte dai memoriali bolognesi, Modena 1941, 70), ora con altre rime della Vita Nuova, come nel cod. Vat. lat. 3953; spesso con le altre due canzoni del libro (Rime XX e XXV) e altre poesie del canzoniere di Dante. Fu pubblicata a Venezia da Pietro Cremonese, in appendice all'edizione della Commedia (1491), insieme con Donna pietosa e le 15 canzoni della tradizione del Boccaccio, e nella Giuntina del 1527.
È citata due volte nel De vulg. Eloq. come esempio di cantio (II VIII 8) e di stanza di soli endecasillabi (II XII 3). Più importante è la citazione di Pg XXIV 49-51 (Ma dì s'i' veggio qui colui che fore / trasse le nove rime, cominciando / ‛ Donne ch'avete intelletto d'amore '), cui D. fa seguire la definizione del proprio ‛ dolce stil novo ' (vv. 52-54), come trascrizione dell'intimo dettato d'amore e della sua vera essenza, cui non aveva saputo assurgere la poesia precedente (il Notaro, Guittone, Bonagiunta da Lucca). Il passo va però considerato nel quadro dell'ideale ricapitolazione, operata da D. in questo e nei canti successivi, della propria storia poetica e umana (la definizione del Guinizzelli come il padre / mio e de li altri miei miglior che mai / rime d'amor usar dolci e leggiadre, Pg XXVI 97-99; il ritorno all'Eden e gl'incontri con Matelda e Beatrice, su uno sfondo di ricorrenti tonalità stilnovistiche, di Pg XXVIII, XXX, XXXI), dove l'amore umano e la poesia e tutta la vita nova di D. appaiono rivelazione di un amore più alto e incentivo alla sua conquista: quasi il ‛ compimento ' della ‛ figura ' delineata nel libro giovanile. Ma la spiritualizzazione religiosa dell'amore (col conseguente salto dal piano metaforico a quello metafisico), la contemplazione di esso come fondamento di tutta la vita dell'uomo e, insieme, di quella dell'universo, indicate dal Roncaglia come essenza dello Stilnovo dantesco, non appaiono ancora pienamente costituite nella canzone, e neppure nell'integrazione e intensificazione del suo significato proposte dalla prosa della Vita Nuova. Dominano nell'una e nell'altra immagini e stilemi che, nonostante l'infittirsi (soprattutto nella seconda) di tonalità agiografiche, sono ancora strettamente connessi alla tradizione lirica precedente, sia pure sviluppandone le proposte con più risoluta coerenza e perentorietà. Potrebbe esserne riprova il fatto che la canzone responsiva Ben aggia l'amoroso interpreta il testo dantesco in dimensione prettamente ‛ cortese '.
Nella storia della poesia di D., qual è definita dalla ‛ ragionata ' antologia della Vita Nuova, la canzone rappresenta senz'altro una svolta decisiva, in quanto fonda un mito personale che segna il superamento sia del tirocinio guittoniano e cortese sia del momento cavalcantiano dell'amore doloroso: il mito dell'amore come pura, disinteressata e beatificante contemplazione di Beatrice creatura perfetta e come suprema gioia che nasce dalla lode di lei; come conquista, attraverso la purificazione ed esaltazione del sentimento, di una superiore aristocrazia etica e conoscitiva. La prosa configura questo mito nella sua pienezza di significato, sia nel cap. XVIII - il colloquio di D. con le donne che lo aiutano a comprendere il fine del suo amore, come beatitudine che sta nelle parole che lodano la sua donna -, sia nel cap. XIX, con l'estatica atmosfera di rivelazione che avvolge il solitario cammino del poeta, l'improvvisa volontà di dire, l'erompere dalla lingua, che parla quasi... per se stessa mossa, del primo verso della canzone. La rivelazione resta però circoscritta a una nuova concezione dell'amore umano, non divino, a un'alta avventura terrena, non trascendente, alla conquista di una nobiltà dello spirito che l'amore esprime e potenzia, sullo sfondo di un'eletta società di ‛ cori gentili ' e di donne che hanno intelletto d'amore. D., cioè, riprende e approfondisce la tematica guinizzelliana dell'amore come piena attuazione della nobiltà che è in potenza nell'animo, e quindi come esaltazione della persona e compimento della sua interiore armonia; indicando originalmente nella dolcezza dello stilo de la loda l'estrinsecazione, la " manifestatio " di questa intima grazia, e nel " canticum novum " la " vita nuova " della coscienza rinnovellata da un amore che attraverso la pura " dilectio " di Beatrice diviene intuizione e celebrazione dei valori umani più autentici.
La canzone è divisa da D. in tre parti: proemio (I stanza), trattazione, ossia lode di Beatrice, suddivisa in ciò che di lei si comprende in cielo (II stanza) e ciò che di lei si comprende in terra (nobiltà della sua anima, III; sua bellezza, IV), e congedo (V).
Il primo verso della canzone definisce già l'atmosfera ideale e stilistica delle nove rime. D. si rivolge alle donne, non, come spiega nella prosa, a quelle che sono pure femmine, ma a quelle che, essendo gentili, possono avere intelletto d'amore; cioè al femminile coro stilnovistico su cui si riflette e s'irradia la luce della gentilissima: sorta d'ideale e pur concreta dimensione in cui prende forma l'idea pura della bellezza sensibile come epifania di una più alta bellezza spirituale. Nuovo è anche questo rivolgersi a loro, il sentire la dolcezza e la grazia femminile (cap. XVIII) come incentivo a uno stile che si propone di essere trascrizione della intima soavità d'amore. Altro tema fondamentale, e complementare al primo in tutte le rime della lode, è l'umiltà (il proposito di parlare, a respetto di lei, non altamente, ma leggeramente; e i due motivi ritorneranno congiunti nella parlata soave e piana di Beatrice a Virgilio, If II 56-57), che è mitezza e serena gioia dell'animo, condizione di grazia del poeta che ha risolto la passione in puro dono di sé nella felicità della lode, negazione di superbia e ira, e quindi perfezione morale; e soprattutto mezzo di compartecipazione al miracolo di quella sublime bellezza, disponibilità a un amore perfetto e vittoria sull'egoismo e sull'istintività passionale, secondo la proposta di una cultura laica, ma intimamente permeata di spiritualità cristiana e portata a definire analogicamente su di essa le proprie strutture ideali.
La seconda stanza, sorta di ‛ prologo in cielo ', svolge con più rigorosa coerenza visionaria la metafora accennata in forma quasi epigrammatica dal Guinizzelli nell'ultima stanza di Al cor gentil, modellata, a sua volta, su un ‛ tòpos ' della lirica cortese. La perfezione di Beatrice accende negli angeli e nei beati il desiderio di averla in Paradiso, che non have altro difetto / che d'aver lei (vv. 19-20); solo la misericordia di Dio la trattiene in terra, affidandole una missione beatificante e redentrice.
Assai controversa è l'esegesi dei vv. 25-28, nei quali Dio esorta i beati a lasciare ancora Beatrice nel mondo, là 'v'è alcun che perder lei s'attende / e che dirà ne lo inferno: O mal nati, / io vidi la speranza de' beati. Il Balbo, il Fraticelli, il Giuliani videro qui la riprova che il disegno del poema era già allora balenato alla mente di D., e così il Melodia e il Pietrobono, il quale parla di spirito profetico del poeta e di precoce convincimento della sua futura missione; ma è ipotesi non sostenibile, come quella del Guerri che inferno significhi qui " terra ", come l'infera nostra di Ep VI 2 (meglio, se mai, il Nardi: D., quando avrà perduto B., si sentirà dannato, per aver perduto senza speranza la sua beatitudine. Inferno è la vita sulla terra, senza beatitudine). Il Mazzoni riferì alcun (come il Tommaseo, nell'introduzione al commento alla Commedia, Milano 1869, I XXXIII) non a D., ma a persone indefinite, che, in caso di dannazione, avrebbero avuto nuovo motivo di dolore nel pensiero di non aver saputo profittare della vista beatificante di lei. Lo Shaw e il Sapegno lo riferirono invece a D., che, anche dannato, sarebbe stato pur sempre confortato dal suo ricordo. Tentò una mediazione il Maggini, ritenendo alcun riferito a D. nella prima intenzione del poeta, mentre nella Vita Nuova alluderebbe ai cor villani che non si salveranno. Preferibile è la spiegazione del D'Ancona, seguita dal Casini e, nella sostanza, dal Barbi, dal Montanari e da altri: l'esaltazione della virtù di B. fa sentire, per contrasto, più fortemente a D. la propria inferiorità e miseria di peccatore, degno, forse, dell'Inferno, al confronto, ma disposto a testimoniare anche là la lode di lei; e si può aggiungere che proprio questa umiltà esalta, dialetticamente, D., lo rende degno di questa testimonianza, fino a dargli la certezza che non pò mal finir chi l'ha parlato (v. 42). Ma si tratta pur sempre di metafora, d'iperbole poetica, in cui non è opportuno ricercare precisi significati teologici. Così, il v. 42 va messo in relazione coi guinizzelliani " abassa orgoglio a cui dona salute / e fa 'l de nostra fé se non la crede " (son. Io voglio del ver la mia donna laudare), da ricondurre, a lor volta, a un ‛ tòpos ' della lirica cortese, come i vv. 29-42 della canzone Lo doloroso amor, dove D. afferma che, anche se andrà all'Inferno, il ricordo del dolce viso di B., a cui niente par lo paradiso (v. 28), non gli farà sentire i tormenti infernali. Conviene pertanto non gravare questi testi di responsabilità dottrinali, ma considerarli mitografie poetiche, esaltazioni della donna amata in gara con tutta la poesia precedente, secondo l'uso trobadorico. Andrà tuttavia tenuto presente anche un altro genere di fonti, che è stato esplorato dal Branca, e cioè le legendae agiografiche d'ispirazione francescana, relative a s. Margherita da Cortona, Giuliana Falconieri, ecc., che celebravano in queste donne elette uno " speculum Christi ", secondo un'elementare e corrente sensibilità cristiana, e la loro vita come un'epifania, e costituivano un modello semplice e suggestivo di biografia per chi volesse presentare una creatura come via alla perfezione e guida alle virtù celesti; anzi, l'unico modello esistente, legato a un costume e a una mentalità diffusa, anche in ambito letterario. A questa tradizione il critico riconduce, con precisi riscontri testuali, i vv. 27-28 della canzone in esame (la virtù di queste donne elette sorride anche ai malvagi; esse sono, come dice Cristo a una di loro, specchio della divinità anche " in vita aeterna omnibus peccatoribus "); e ancora, il tema dei beati impazienti di avere la donna in cielo, quello del " canticum novum-vita nova " (di ascendenza agostiniano-vittorina), e altri stilemi delle rime della ‛ loda '. Comunque sia, va tenuto presente che queste immagini appaiono, nella canzone, come vere e proprie forme di transumptio (che, secondo Boncompagno da Signa, esprime anche un " inenarrabilis mentis affectus "): come metafore, cioè, pervase di un profondo entusiasmo lirico e intellettuale, del nuovo mito della donna e dell'amore, che assume l'iperbole come espressione spontanea (e, si direbbe, realistica) di un empito nuovo dell'animo che sfiora di continuo l'ineffabile e che nella sua formulazione è spontaneamente portato ad assumere parabolicamente le forme e i modi dei grandi archetipi cristiani.
Commisurata su questo paradigma di valori assoluti ed eterni, assume più intenso rilievo la descrizione dell'efficacia beatificante e salutifera di Beatrice nella terza stanza, dove D. traduce i temi guinizzelliani e stilnovistici in affermazioni totali. Beatrice diffonde intorno a sé gentilezza, distrugge, al suo passare, ogni villania nei cuori, dona perfezione a chi sia disposto a contemplarla, gl'ispira la virtù dell'umiltà, è incentivo di riscatto e redenzione. Su questo sfondo di celestiale, edenica purezza è collocata la lode della bellezza fisica di lei (stanza quarta); ma è fisicità tutta risolta in immagini immateriali, dove il trasporto dell'anima supera la fascinazione del senso: dal color di perle, che sembra alludere alla " claritas ", attributo medievale della bellezza come luce intellettuale che trapela nel sensibile e lo costituisce in significato e valore, all'esaltazione della persona di lei come sintesi delle bontadi della natura e pura idea (essemplo) della bellezza, a quegli spirti d'amore infiammati che escono dai suoi occhi e ritrovano il cuore di chi la contempla, ai due versi conclusivi, voi le vedete Amor pinto nel viso / là 've non pote alcun mirarla fiso, nei quali l'amore diventa insieme gaudio e nostalgia, contemplazione beatificante e trepida. In queste tre stanze è la proposizione tematica e tonale dei grandi sonetti Ne li occhi porta (Vn XXI 2-4), Tanto gentile (XXVI 5-7), Vede perfettamente (§§ 10-13).
La canzone fonda il mito di Beatrice-miracolo e quello complementare di Beatrice-amore, o, che è lo stesso, di un amore perfetto, capace di risolvere una favola sentimentale in intuizione delle ragioni archetipe del vivere. Esso sarà rimeditato e approfondito dalla prosa del libro, sulla scorta sia della tradizione scritturale e, s'è visto, agiografica, sia del Laelius ciceroniano e dei testi mistici che a esso s'ispirano, con un costante pericolo di trasvalutazione allegorica. Nel testo poetico, invece, l'impeto vasto e gioioso dell'inno si pone esso stesso come significato totale, con una fede assoluta nell'oggetto poetico; nella struttura innografica D. scopre una nuova misura espressiva, una teoria (nel senso etimologico) dell'amore non più fondata sull'ambizione dottrinale di Donna me prega del Cavalcanti, né sul dibattito dimostrativo-definitorio di Al cor gentil, ma sulla trasfigurazione epico-lirica. La ‛ loda ' è un fatto corale, il superamento del pathos di una vicenda soggettiva contingente; il volgersi alla contemplazione di una ‛ sustanzia ' oggettiva (Beatrice, l'amore; e si ricordi, in VE II IV 8, la definizione della materia dello stile sublime o ‛ tragico ': salus, amor et virtus, et quae propter ea concipimus, dum nullo accidente vilescant). Una riprova è in Vn XXVI 1 (Questa gentilissima donna... venne in tanta grazia de le genti, che quando passava per via, le persone correano per vedere lei; onde mirabile letizia me ne giungea) e nei sonetti Tanto gentile e Vede perfettamente, dove la voce che dice ‛ io ' appare solo in quell'aggettivo possessivo, mia donna, che in effetti indica non possesso, ma appartenenza e fedeltà.
La novità della canzone non consiste, dunque, nelle immagini, spesso, s'è visto, topiche, o nelle affermazioni dottrinali, anch'esse legate alla tradizione, con, magari, un più d'intensità iperbolica; ma nel suo nuovo schema d'azione - una ‛ visione ' celeste che s'invera in una dimensione terrena emblematica, misura di un intelletto d'amore che riscatta integralmente le ragioni contingenti del vivere - e soprattutto nel ritmo che risemantizza parole e immagini consuete. Il nuovo stile è in quel tono asseverativo, in quel discorso costruito su una concatenazione di certezze che ricevono intensità sempre maggiore dal loro cumulo e dalla loro sequenza. Più che su una sintassi subordinativa, il dettato si costituisce su un ritmo di proclamazioni alte e tese, intensificate da un entusiasmo intellettuale che definisce un senso di partecipazione sempre più intensa alla verità scoperta e posseduta; e anche le improvvise svolte e illuminazioni della fantasia si trasformano sul nascere in strumento euristico di questa superiore conoscenza (Angelo clama... Madonna è disiata in sommo cielo... Dice di lei Amor...). Nel collegamento fra i versi prevalgono la paratassi e i costrutti coordinativi, ma la continuità ascendente dell'entusiasmo dispone la lirica nella struttura concatenata e progressiva del climax Il discorso ritmico si fonda, nelle stanze III e IV, su coppie o gruppi di quattro versi, con sapiente alternanza e modulazione. La III, ad es., potrebbe essere scandita sullo schema 2+4+2+4+2: dove i raggruppamenti binari sottolineano le conclusioni perentorie su un ritmo di assolute e definitive certezze, quelli più ampi sono destinati alla ‛ narratio ', a un definirsi di ragioni e riprove con impeto lirico, affettivo più effuso. Nella II l'ampliarsi indefinito dei termini della contemplazione porta al prevalere di misure ritmiche più ampie, con un dominio strutturale e sintattico dell'impeto visionario che fa già presagire la grande maniera della Commedia. V. la voce Vita Nuova.
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