donna
Non ci si può accostare al tema della d. nell’opera machiavelliana senza tener conto di diversi parametri: in primo luogo, gli archetipi che hanno più a che fare con l’antropologia e la psicologia che non con il pensiero di M.; un altro dato contestuale sono gli stereotipi culturali dell’epoca. Può essere opportuna una prima ricognizione della filoginia e della misoginia nella Firenze machiavelliana. Vanno inoltre considerati i nostri stessi orientamenti culturali poiché l’emergenza critica di questo tema è indubbio riflesso di tendenze proprie del Novecento e frutto sia della psicocritica sia del femminismo di cui gli women’s studies, divenuti poi gender studies, sarebbero le ramificazioni scientifiche. Non a caso l’interesse critico per le d. nell’opera machiavelliana si è sviluppato negli ultimi trent’anni ed è stato appannaggio di una critica prevalentemente anglosassone, mentre è stato guardato con condiscendenza poco simpatetica dalla scuola italiana, ove le studiose di M. per altro scarseggiavano.
Nodo del dibattito critico sulla d. nella produzione machiavelliana è l’articolazione tra il versante letterario (favola, commedie, poesia), ove le d. non solo sono presenti, ma dominanti, e quello politico-militare – la trilogia costituita dal Principe, i Discorsi, l’Arte della guerra – ove le d. sarebbero non solo assenti e dominate, ma fuori tema. Un altro nodo è la querelle sulla Lucrezia mandragolesca, oggetto di dissenso critico tra chi la percepisce quale discendente, squallida e degradata, dell’antenata latina e chi coglie in lei un felice esempio di mutazione, di sagace adattamento a una situazione che la vede trionfare sia come d. sessualmente soddisfatta sia come futura madre. A una lettura classica improntata al deprezzamento del privato e della sfera domestica andrebbe contrapposta una lettura interessata sia al privato in chiave psicoanalitica sia alla d. in chiave femminista.
Un terzo nodo potrebbe identificarsi nella presunta misoginia di Machiavelli. Se pure la materia misogina prevale su quella filogina, M. ha concepito figure femminili straordinarie – dalla Lucrezia mandragolesca alla Caterina Sforza (→) dei Discorsi – che potrebbero portare argomenti ai fautori di un M. protofemminista. Meglio ancora, il suo uso metaforico dell’immaginario sessuale, totalmente svincolato dalla sfera biologica, lo intonerebbe con le più moderne accezioni del genere.
Nel corpus machiavelliano la d. è oggetto di considerazioni generali, ma anche di esemplificazioni storiche, di spunti creativi e di metafore e allegorie. Due soli capitoli dei Discorsi recano nel titolo la parola femine. Non solo il termine ha un’accezione negativa (sulla connotazione di queste parole si ricordi la battuta di Nicomaco: «Perché io non vo’ fare la mia donna femmina e me becco» in Mandragola II vi), ma l’impostazione è a sua volta negativa: «Come per cagione di femine si rovina uno stato» (III xxvi); «Le cagioni perché i Franciosi siano stati e siano ancora giudicati, nelle zuffe, da principio più che uomini e dipoi meno che femine» (III xxxvi). Viene impiegato non a caso il termine femine, connotato negativamente rispetto al neutrale donne. Le d. intervengono pertanto come materiale narrativo deputato all’illustrazione di leggi in cui la femminilità non è né in cima né al centro del discorso.
Bisognerebbe tener conto anche dei generi nei quali compare la d. con i relativi stereotipi. La diversa proposta psicocritica di Hanna Fenichel Pitkin (1984) ha individuato due tipi femminili machiavelliani: la d. vecchia, potente, castratrice, da un lato; la fanciulla giovane e seducente, dall’altro. Personificherebbero i due volti, positivo e negativo, del femminile, che spesso convivono nella stessa opera: Lucrezia e Sostrata nella Mandragola, Clizia e Sofronia nella Clizia, Circe e la fanciulla «fresca e frasca» nell’Asino, la vedova Donati e la figlia nelle Istorie fiorentine.
Le d. reali sono quelle della vita di M., i cui nomi compaiono nel carteggio machiavelliano: Marietta Corsini, le varie cortigiane (la Riccia, la Maliscotta, la Costanza di cui è «quasi prigione» l’amico Francesco Vettori), oneste o meno (la mezzana e la «mercatantia» della lettera di Vettori a M. del 18 genn. 1514), la cantante Barbara Salutati, quella che dava «molto più da pensare» a M. «che lo inperadore». A queste d. appartenenti alla sfera privata e domestica, nei Discorsi si possono opporre le d. storiche, tra storia antica, medievale, contemporanea: la sorella degli Orazi (I xxii), Tamiri (II xii), le matrone romane avvelenatrici (III xlix), Lucrezia (III ii, v, xxvi), Virginia (I xl, xliv, lvii; III xxvi), Epicari, Marzia (III vi), Semiramide (III xiv); i Discorsi annoverano anche qualche contemporanea: la figlia di Pandolfo Petrucci (III vi), la sorella di Giampaolo Baglioni (I xxvii), la signora di Forlì (III vi). Altresì Didone (xvii 6) e una fugace regina Giovanna (xii 17) sono le due eccezioni del Principe. Decisamente più numerose le donne nelle Istorie fiorentine, di cui non si può dare un elenco esaustivo: Eudoxia (I iii), Sofia (I vii), Rosmunda (I viii), la contessa Matilde di Canossa (I xiv, xviii), Giovanna I d’Angiò-Durazzo, regina di Napoli (I xxx, xxxiii, xxxvi; III xix-xxii), Beatrice, moglie di Facino Cane (I xxxvii), la vedova e la figlia Donati (II iii), madonna Bianca Visconti (V xiii, xviii; VI iv), Annalena, moglie di Bartolomeo Orlandini (VI vii), Clarice Orsini (VII xi, xxi), Caterina Sforza (VII xxii; VIII xxxiv), Bona di Savoia (VIII xiii, xviii, xxv), Alfonsina Orsini (VIII xxxvi), la figlia di Giovanni Bentivoglio omicida del marito, signore di Faenza (VIII xxxv).
D. fittizie compaiono nelle commedie (Lucrezia, Sostrata nella Mandragola; Sofronia, Clizia, Doria nella Clizia), nella Favola (Onesta, moglie di Belfagor), nell’Asino (ove il narratore viene affidato a una fanciulla bionda e scapigliata, ministra di Circe, regina ostile ai maschi), in varie poesie (carnevalesche o amorose). Uno statuto speciale andrebbe attribuito alle allegorie, tradizionalmente femminili, tra cui la Fortuna; ma anche i soggetti dei Capitoli si possono arruolare nelle fila femminili.
Rovina degli Stati o sintomo di tirannia? Se nella sfera militare, le d. sono «bocche inutili», nella sfera politica sarebbero «rovinose». A sostegno di questa affermazione alquanto paradossale, M. invocò l’auctoritas aristotelica (Discorsi III xxvi 10). La tematizzazione dell’ingiuria sessuale in termini di errore politico, demoralizza sia l’ingiuria sia la vittima. Le ingiurie private vengono clinicamente trattate alla stregua di sintomi di una larvata tirannia, tradita o rivelata dall’ingiuria sessuale in forza di un nesso tra femminilità e visibilità. Tale nesso conferisce al femminile nella semiologia del potere una funzione quasi esclusiva di rivelatore della tirannia, al punto che si potrebbe ribaltare la negatività della formulazione – «Come per cagione di femine si rovina uno stato» (III xxvi) – in un ruolo obliquamente positivo della d. come garante della libertà.
Vengono smitizzate figure canoniche, vere e proprie «martiri della repubblica» (Fedi 1998). L’esempio più clamoroso è quello di Lucrezia, il cui stupro viene, provocatoriamente, ridimensionato a incidente storiografico, aneddotico e interscambiabile: «E, se lo accidente di Lucrezia non fosse venuto, come prima ne fosse nato un altro, arebbe partorito il medesimo effetto» (III v 7). Basti confrontare il trattamento delle d. illustri nei Discorsi a quello esemplare di Valerio Massimo, quello biografico di Giovanni Boccaccio nel De mulieribus claris o quello di contemporanei tragediografi per misurare lo scarto. Scarto quantitativo, per la compressione narrativa, e qualitativo: le tragedie femminili vengono drasticamente e seccamente arruolate come esempio dimostrativo di una legge politica.
Alla Caterina Sforza dei Discorsi, il cui impudico stratagemma (III vi) sembra una sfida aperta all’icona della pudicizia, andrebbe accostata la «fanciulla fresca e frasca» dell’Asino: anti-Beatrice (Sasso 1997) e anti-Laura. I due versanti dell’opera machiavelliana sembrano accomunati dalla volontà di rompere con certi ideali femminili nonché miti, storiografici o poetici che fossero. Entrambe queste figure testimoniano della distanza machiavelliana nei confronti della cultura cortese, dell’amore platonico (decisamente estraneo a M.) o dei lamenti petrarcheggianti che vengono irrisi e rubricati a ingrediente comico nel prologo della Clizia.
Se incontrovertibile è nell’opus machiavelliano l’associazione del femminile ai controvalori e del maschile ai valori, non lo è meno il fatto che il maschile e il femminile non sono biologici né letterali, ma metaforici e traslati. Nei Discorsi vengono bollati come virtuosi ed effeminati non solo individui (maschi o femmine), ma collettività (francesi, Tebani, repubbliche) e addirittura il mondo. Nel Principe l’essere virtuoso/virile o «effeminato» non è dell’ordine dell’esse, ma del percipi. Conta l’esser ‘tenuto’ virile, il non essere ‘tenuto’ effeminato, non esserlo tout court (xix 4). La virilità non è altro che la parte visibile, emersa, della virtù. La virtù/virilità è una mira cui deve tendere l’arciere. L’immaginario sessuale serve a M. per rendere il primato politico del sembiante sull’essere.
Per dirla in termini aristotelici, il genere non è essenziale bensì accidentale. Altro attributo del genere machiavelliano è infatti la mobilità. Il genere non è determinato una volta per tutte. Individui, popoli, città, province possono perdere la loro identità sessuale e riacquistarla. I sessi sono scambiabili e reversibili. Le d. possono acquisire una virilità così come gli uomini perderla, anche nel corso di una singola battaglia come i proverbiali francesi.
Dal punto di vista della d., le Istorie fiorentine appaiono come opera intermediaria, aperta a squarci narrativi o addirittura teatrali in cui alcune figure storicamente esistite vengono elaborate letterariamente e svolgono ruoli da protagoniste. I casi più lampanti sono quelli di Rosmunda (I viii), la cui storia viene condita con una dovizia di particolari truculenti che contrasta con il taglio asciutto dei Discorsi; della vedova Donati (II iii), la madre-matrigna delle fazioni fiorentine; dell’astuta «Reina Giovanna» (I xxxviii) femminilizzata non già dal sesso, ma dall’assenza di armi proprie; di Caterina Sforza (VII xxii, VIII xxxiv).
Le Istorie fiorentine non racchiudono solo una potenziale galleria di d. storiche: offrono anche una ricchissima casistica di vicende matrimoniali; tema indissociabile dalla d., ma di competenza più strettamente machiavelliana. Nelle Istorie fiorentine, il «parentado» viene esplicitamente elencato insieme a «leghe» e «amicizie» nell’arsenale delle varie risorse (VII xxii) disponibili per operare o ostentare una pacificazione tra ex nemici. L’elogio della politica matrimoniale oculata di Cosimo il Vecchio (VII v) in contrasto con quella del figlio Piero, che diede adito a sospetti e a calunnie, dimostra quanto il matrimonio costituisca una mossa diplomatico-politica sofisticata e un’occasione di errori. Le scelte matrimoniali sono segnali che possono tradire ambizioni tiranniche non meno dell’ingiuria sessuale.
Il carteggio costituisce un altro tassello fondamentale nell’ambito di una riflessione sulla d., ma anche sul confine tra privato e pubblico che viene travalicato in teoria e in pratica. Le lettere consentono di accedere a un M. privato, uno che dice di sé «tocco e attendo a femmine» (M. a Francesco Vettori, 5 genn. 1514); consulente sentimentale di Vettori (M. a Vettori, 4 febbr. 1514) e matrimoniale di Francesco Guicciardini, gravato da quattro figlie nubili.
M. appare sostenitore di un epicureismo spregiudicato e boccaccesco (M. a Vettori, 25 febbr. 1514) che contrasta sia con il conformismo di Vettori, preoccupato del pettegolezzo, sia con la crudezza – nel merito e nella forma – della lettera della «foia» (Vettori a M., 16 genn. 1515). L’edonismo di M. non è né colpevole né degradante. L’astinenza non viene certo predicata, ma l’eros non viene abbassato a «foia».
Il raggiungimento del fine merita e richiede una strategia di cui M. si fa a più riprese il sottile espositore; strategia più difensiva che altro (M. a Vettori, 10 giugno 1514 e 31 genn. 1515), agli antipodi, sia detto di sfuggita, della caricatura critica che identifica la fortuna come una d. picchiata o semi-stuprata dall’impetuoso Segretario.
Gli ormai quasi trent’anni di studi ‘femministi’ hanno consentito di rimettere in causa l’immagine maschilista di M., di evidenziare quanto essa potesse costituire una variante sub specie generis del machiavellismo, inteso come storia dell’immagine e della ricezione dell’uomo e dell’opera machiavelliana. Il fatto che i gender studies abbiano investito l’opera machiavelliana dimostra la vitalità critica di un autore risultato, contro ogni aspettativa, intonato con problematiche femministe: a una raccolta diacronica di saggi pubblicati in tema si è potuto dare infatti il titolo Feminist interpretations of Niccolò Machiavelli (2004). All’approccio in un primo tempo prevalentemente critico (Fenichel Pitkin – cui va dato atto di aver scritto la prima monografia sul tema –, Jean Bethke Elshtain, Wendy Brown) sono subentrati interventi più sfumati (Arlene W. Saxonhouse, Barbara Spackman, Michelle Tolman Clarke) che evidenziano sia la contraddittorietà delle ipotesi – tra «proto-fascismo» e «proto-liberalismo», tra «maschilismo» e «proto-femminismo» (p. 13) – sia l’accezione «antiessenzialista del genere» da parte di M. (Tolman Clarke). La critica femminista e postfemminista si è concentrata sulle figure femminili dell’opera machiavelliana. Se la Lucrezia mandragolesca rimane una delle più studiate, Sofronia ha ricevuto indubbia attenzione, anche se la lettura progressista che ne viene fatta è agli antipodi di chi vede nella Clizia il «trionfo dell’ordine» (Inglese 2006), mentre personaggi storici come Caterina Sforza hanno goduto di enorme attenzione: il capitolo sulle congiure dei Discorsi (III vi) è uno dei più sollecitati dalla critica gendersided. Molto inchiostro è stato versato sull’infelice metafora – in un’ottica femminista – della fortuna-donna da «tenere sotto, battere e urtare» (Principe xxv 26), nonché sulla qualifica di Lucrezia nella Mandragola come d. «atta a governare un regno» (I iii), presa in parola e assunta a fondamento di letture critiche (D’Amico 1984).
Il rischio dell’approccio femminista (ma, volendo, anche di quello antropologico), è di attribuire a M. quanto spetterebbe all’uomo in generale o all’uomo cinquecentesco più in particolare, e, per mancata contestualizzazione, eludere ciò che è realmente congeniale all’autore, insistendo, paradossalmente, sugli aspetti meno originali del suo pensiero. Se c’è un trattamento innovativo della femminilità in M., questo è un effetto collaterale del divorzio tra politica ed etica.
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