Donna pietosa e di novella etate
. Canzone della Vita Nuova (XXIII 17-28), di sei stanze di endecasillabi e settenari, senza congedo, con piedi e sirma, concatenatio e combinatio, su schema 6+8 abc, abc:c, ddeec, dd; citata in VE II XI 8 come esempio di canzone in cui i piedi sono superati dalla sirma per numero di versi e di sillabe.
La tradizione manoscritta è quasi solo quella della Vita Nuova e delle cosiddette " rime scelte " (Barbi) di essa. Per questo D. De Robertis, riprendendo l'opinione del Cesareo e di altri, la ritiene composta, insieme con la prosa, al tempo della stesura del libro; anche perché le scarsissime testimonianze " estravaganti " (ma è dubbio che siano tali) appaiono estranee alla tradizione delle grandi canzoni dantesche, in cui si trovano invece ben presto incluse le altre due delle Vita Nuova, cioè Donne ch'avete e Li occhi dolenti. Fu pubblicata a stampa la prima volta da Pietro Cremonese (Venezia 1491), in appendice all'edizione della Commedia, insieme con Donne ch'avete, le 15 canzoni della tradizione Boccaccio e la dubbia Aï faux ris; e fu accolta nella Giuntina del 1527.
È la grande canzone della morte di Beatrice, vissuta da D. non nell'evento, ma nel presentimento, attraverso lo imaginar fallace di un farneticare che, pur connesso a una precisa causa fisiologica (la dolorosa infermitade sofferta per nove giorni), si sublima in lucida e significante visione, rivelatrice, per la spiritualità medievale, di un superiore significato della vicenda umana nel tempo. In essa acquistano piena giustificazione e autenticazione (quasi il ‛ compimento ' di una ‛ figura ', secondo i modi dell'esegesi biblica) i presagi di morte che avevano sin dall'inizio punteggiata la trama del libro, sviluppandosi, con una sorta di climax, lungo l'arco ascendente di una progressiva consapevolezza e intensificazione di significato: dalla visione di Amore che converte la sua letizia in amarissimo pianto e va, con Beatrice in braccio, verso lo cielo (cap. III), alla morte della donna giovane e di gentile aspetto (cap. VIII), a quella del padre di Beatrice (cap. XXII). La fedeltà a questo tema - il dramma della gentilezza in constrasto con l'opaca resistenza della materia e del tempo -, ripreso, poi, e conclusivamente definito nella canzone Li occhi dolenti (Dio chiamò a sé Beatrice perché vedea ch'esta vita noiosa / non era degna di sì gentil cosa, Vn XXXI 10 27-28) e aleggiante con continua presenza nell'ultima parte del libro, ne indica l'importanza dominante.
Collocata non soltanto al centro della Vita Nuova, ma anche delle rime della lode, la canzone prende le mosse da un sentimento drammatico di crisi, di precarietà di quello stesso amore perfetto, che D. aveva concepito capace di dare forma assoluta alla vita, sottraendola alle oscure qualità del senso e della passione, e di attuare pienamente un ideale di gentilezza, di elevazione spirituale superiore alla continua dispersione e degradazione dell'agostiniana ferita del tempo, e che ora si rivela effimero e continuamente insidiato dalla morte, come colei che ne è l'oggetto. La prosa, meglio della poesia, rivela in questo pathos creaturale la svolta decisiva dell'itinerarium dell'animo di D.: E quando ei pensato alquanto di lei [Beatrice], ed io ritornai pensando a la mia debilitata vita; e veggendo come leggiero era lo suo durare, ancora che sana fosse, sì cominciai a piangere fra me stesso di tanta miseria. Onde, sospirando forte, dicea fra me medesimo: " Di necessitade convene che la gentilissima Beatrice alcuna volta si muoia " (XXIII 3). Il farneticare che sopraggiunge a questo punto, senza soluzione di continuità, non è altro che la proiezione esterna di questa esperienza esistenziale della morte, ritrovata alle radici dell'essere come consapevolezza e rivelazione intuitive, ancestrali; così come la visione dei prodigi che accompagnano la morte di Beatrice ripropone drammaticamente il senso apocalittico di una fine del mondo, presente da sempre all'anima cristiana come tragica misura del suo destino terreno. Ma questo canto di morte è anche canto di resurrezione e trasfigurazione, perché l'amore di D. non perisce nella desolata vicenda del tempo, ma si riscatta immortale nella verticalità di un assoluto. Come la lode aveva trionfato dell'amore passione, così uno slancio nuovo e altissimo del sentimento trionfa della miseria del vivere, per attingere una dimensione d'eternità sottratta a ogni contigenza; l'amore diviene compartecipazione alla ‛ gloria ' di Beatrice, pura tensione verso la conquista delle ragioni archetipe dell'essere, con un presentimento della grande poesia cosmica della Commedia.
Questo nuovo mito dantesco si costituisce in una prospettiva cristiana. Tuttavia non conviene insistere troppo, come fa il Singleton, sull'analogia Beatrice-Cristo, se non nel senso del tutto generale e, si potrebbe dire, generico secondo il quale morte e resurrezione di Cristo definiscono il modello paradigmatico della vita della creatura. Si può piuttosto vedere col Branca - che cita, in proposito, e persuasivamente, testi esemplari, e certo fruiti da D., dell'agiografia francescana -, Beatrice come " speculum Christi ", come lo è ogni creatura eletta. Ma considerazioni del genere, indubbiamente importanti per definire l'humus culturale della canzone, rischiano di lasciare in ombra la personale risposta di D. alle proposte che gli vengono dall'atmosfera spirituale del suo tempo, anche se servono a dimostrare quell'ansia di totalità, di comprensione delle ragioni profonde del vivere che caratterizza, si può dire fin dal suo sorgere, la poesia dantesca. Converrà però tenere presente che protagonista della canzone non è Beatrice, ma D.; che la lirica racconta il suo dramma e il suo riscatto spirituale davanti a un evento reale e sconvolgente, la morte della donna amata, vissuto con uno strazio temperato dalla consolazione cristiana, ma soprattutto con l'ansia di una personale edificazione etica e poetica. Si può, ad esempio, dire che il verso conclusivo, Beato, anima bella, chi te vede!, riproponga una delle ‛ ragioni ' centrali del libro, e cioè Beatrice dolce memoria, da connettere alla tematica dell'inno Dulcis Jesu memoria in cui s. Bernardo aveva stabilito come essenziale la presenza continua della vita e della passione di Cristo al centro della memoria del cristiano, come mediazione necessaria per la conoscenza del significato della vita e del mondo; ma anche qui converrà rilevare la trasformazione che D. impone a questa tematica, applicandola analogicamente a un amore tutto umano e terreno: l'uso, cioè, parabolico e, in ultima analisi, poetico che egli ne fa. Egli, cioè, usufruisce il secolare travaglio della spiritualità cristiana, ne assume gli schemi esegetici e d'azione esemplari, come mezzo euristico per penetrare il significato profondo della sua storia; ma su di essi edifica il suo mito personale di amore e giovinezza, di poesia come estrinsecazione delle più nobili e pure aspirazioni dell'animo, di una sintesi di dolcezza, gentilezza, umiltà, sentita come vita autentica della coscienza, dignità vera della persona. La sua ansia di valori assoluti ed eterni non può non incontrarsi con i valori categoriali cristiani, ma resta tuttavia ben distinta da essi. La Vita Nuova rimane una storia aperta perché canta, nel mito dell'amore, un ideale di elevazione, di purezza edenica, di piena autenticità del sentimento e della vicenda umana nel suo scontro drammatico col pathos e la problematicità dell'esistenza. Ogni interpretazione esoterica o anche semplicemente allegorica della canzone, intesa cioè a enucleare da essa un significato intellettuale e religioso normativo, appare quindi senz'altro prevaricante.
La lirica è divisa in tre parti, di due stanze ciascuna. La prima (stanza I e II) definisce lo sfondo ambientale della vicenda: lo sgomento della donna pietosa (forse la sorella) che assiste il poeta ammalato, nell'accorgersi del suo delirio e del suo pianto, l'accorrere delle altre donne per confortarlo, il risentirsi di D. e il suo disporsi al racconto. Può apparire troppo lenta ed effusa, ma a parte il fatto che, a partire da Donne ch'avete, D. ha consapevolmente eletto un pubblico di donne gentili come unico degno confidente del proprio amore, questo legare la visione a una precisa e quotidiana vicenda serve a liberarla da ogni ambizione di rivelazione sacrale, a calarla in un'effettiva e concreta storia.
La seconda parte è dedicata al racconto della vana imaginazione: dalla tragica e sconvolgente certezza (Ben converrà che la mia donna mora), al delirio, con la potente rappresentazione dell'incubo di morte (i visi crucciati delle donne, il loro cupo vaticinio), alla visione apocalittica della IV stanza (i lamenti delle donne, l'oscurarsi del sole, il pianto delle stelle, i terremoti), fino all'apparizione dell'omo scolorito e fioco (non più un amico, come nella prosa), che rivela il significato di quel cosmico disfacimento nel desolato annuncio: Morta è la donna tua ch'era sì bella. Le immagini di questa stanza, come hanno rilevato gl'interpreti, trovano riscontro in passi dei Vangeli e delle profezie bibliche relativi alla morte di Cristo e in altri dell'Apocalisse riguardanti la fine del mondo; ma va messa in rilievo anche l'originale capacità affabulatrice di D., che dispone gli elementi desunti dalla tradizione in una sintesi drammatica e figurativa, anzi, mitopoietica, del tutto personale, con rigorosa selezione e intimo rinnovamento delle fonti. Se il passo corrispondente della prosa conserva una vaga cadenza biblico-liturgica (ad es.: Or non sai? la tua mirabile donna è partita di questo secolo), la quarta stanza struttura la visione in un ritmo incalzante ma al tempo stesso fermo e intenso, soprattutto nelle rapide, vibranti frasi della sirma, dove l'alternarsi di endecasillabi e settenari congiunti dalla rima baciata riflette, col suo andamento franto e dinamico, l'accumularsi della tensione angosciosa, fino alla conclusiva insorgenza patetica ed elegiaca della combinatio. Le due parole all'inizio e alla fine dell'ultimo verso, morta e bella, dominano il delirio e l'apocalittica visione con la presa di coscienza dolce e desolata del fascino e della disperata insufficienza dell'effimero: un dramma, certo, intimamente cristiano, ma vissuto, fuori d'ogni sovrassenso simbolico, come umanissima pena. Più tardi, in Pg XXXI 49-54, D., per bocca di Beatrice, trarrà la conclusione dottrinale ed etica dell'evento (la morte di quella creatura bellissima avrebbe dovuto indurlo a liberarsi dall'amore per le cose fallaci); ma qui vi è soltanto il senso, la scoperta esistenziale della morte, della fragilità che insidia anche i sentimenti più alti, la desolazione del perire di ogni cosa bella.
Nella terza parte (stanze V e VI) il nodo tragico si discioglie in un nuovo e intenso moto affettivo, in un'ulteriore elevazione e purificazione del sentimento. La V stanza descrive la trasfigurazione di Beatrice, cioè l'ascesa al cielo (che è anche trionfo sulla morte) della sua anima, rappresentata come una nuvoletta candida accompagnata da angeli osannanti, secondo una tradizionale iconografia cristiana; e a questa si richiama anche la rappresentazione di madonna morta, con nel viso quell'umiltà che è accettazione piena della volontà di Dio e offerta totale di sé che diviene mezzo di conquista della pace promessa da Cristo. Ma più alta e nuova è, nella VI stanza, l'invocazione di D. alla morte, cosa gentile non in quanto scala al cielo, ma perché è stata nella sua donna e perché è l'unico mezzo per ricongiungersi a lei, per attingere un'eternità e pienezza d'amore non più frustrato dal peso della caducità, con uno slancio puro, assoluto del cuore (Vieni, ché 'l cor te chiede). E anche qui, tralasciando ogni interpretazione allegorizzante, converrà insistere sulla scoperta lirica di questo anelito di totalità e autenticità del sentimento umano, che si scopre paradossalmente superiore al limite stesso, alla morte, e anela a porsi come un assoluto, sia pure consapevolmente e pateticamente terreno. Di fronte alla morte, D. non ripiega affranto in uno spazio d'illusione, nel rêve effimero ed elegiaco di Beatrice, ma ripropone, fragile e tuttavia invitto, il proprio ideale di amore-carità, sinonimo di gentilezza e paradigma spirituale. Amando Beatrice come donna di virtù, in vita e oltre la vita, e assumendo l'ascesa della sua anima al cielo come consacrazione suprema della sua perfezione, oltre che come indicazione del senso ultimo del nostro destino, D. intuiva la sostanziale bontà di ogni affetto umano, una volta che fosse sottratto alla sfera della superbia e dell'egoismo, e il suo valore positivo nell'itinerario terreno, armonizzando in tal modo l'idealità cortese con quella cristiana. Non che Beatrice vada intesa come scala a Dio, ché anzi per tutto il libro resta lei il fine unico dell'amore; ma la pienezza gioiosa d'interiorità che essa suscita in D. è un gradus fondamentale nella sua intima edificazione, è rivelazione e consapevolezza del suo tendere a valori più alti di quelli impliciti nella parabola breve del tempo. L'esperienza sensibile, sublimata nell'incanto della bellezza e dell'amore, trova così la propria giustificazione radicale (del resto, s. Agostino e s. Tommaso avevano parlato di vestigia rationis impliciti nei sensi, della loro validità nel progressivo cammino di autocoscienza dell'uomo), come acquisto di una perfezione etica e poetica, dato che amore è fonte del parlar gentile e la poesia esprime un'intima armonia conoscitiva e spirituale. Dopo una nuova visione - non delirio, come questa, ma mirabile visione, che si può ben supporre come compimento di questa -, nascerà in D. l'idea di una poesia più alta, capace di dicer di lei quello che mai non fue detto d'alcuna (XLII 2); ed egli presenterà questo ideale come giustificazione e compimento del suo cammino terreno: E poi piaccia a colui che è sire de la cortesia, che la mia anima se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna (XLII 3).
La canzone si svolge su una solida e architettura compositiva, contenendo l'impeto visionario in una struttura narrativa organica e compatta, e fondendo armonicamente il racconto di un'esperienza con la fondazione di un significato. I critici hanno insistito sul raffronto fra il capitolo in prosa e la lirica, per via della loro puntuale corrispondenza, dando, alcuni (Guerri, Momigliano), la palma al primo. Più giustamente il Sapegno riconosce che prosa e poesia rispecchiano due momenti diversi dello spirito di D. e che quindi non è il caso di istituire paragoni. Comunque sia, la prosa è caratterizzata da uno studio più attento dei moti psicologici, da un'ambientazione più concreta, dalla spiegazione razionalmente coerente dei momenti della vicenda, mentre nella poesia prevale un'immaginazione più sintetica, un senso di scoperta lirica più immediata e urgente, assecondata dalla misura ritmica più intensa e drammatica. In essa D. abbandona il presente atemporale dello stilo de la loda, per svolgere una narrazione ampia e dinamica, saldamente ordinata in concatenazione rigorosa dall'intelletto, con un sicuro precorrimento dello stile narrativo e profetico della Commedia.
Bibl. - Fra i commenti alla Vita Nuova cfr. in part. quelli di G. Melodia (Milano 1905), G.A. Cesareo (Messina 1914), D. Guerri (Firenze 1922), M. Scherillo (Milano 19303), L. Russo (Messina-Firenze 1956), N. Sapegno (Firenze 19572); e inoltre la prefaz. di E. Sanguineti a D.A., Vita Nuova, Milano 1965, 37 ss.; Dante's Lyric Poetry, a c. di K. Foster e P. Boyde, Oxford 1967, II, 114-120. Fra gli altri studi basti qui citare: A. Marigo, Mistica e scienza nella " Vita nuova ", Padova 1914 (45 ss. e passim); G. Pascoli, La mirabile visione, cap. IV (ora in Prose, a c. di A. Vicinelli, Milano 1952, II 809); L. Pietrobono, Il poema sacro, Bologna 1915, I, cap. I; B. Croce, La poesia di D., Bari 1921, 33-40; J.E. Shaw, Essays on the " Vita nuova ", Princeton 1929; R. Bezzola, Le sens de l'aventure et de l'amour, Parigi 1947, cap. II; É. Gilson, Les idées et les lettres, Parigi 1955, 39 ss.; D. De Robertis, Il libro della " Vita nuova ", Firenze 1961, capp. VI e VII; E. Auerbach, Studi su D., trad. ital. Milano 1963, 23-62; V. Branca, Poetica del rinnovamento e tradizione agiografica nella " Vita nuova ", in Studi in onore di I. Siciliano, Firenze 1966, 1123-148; C. Singleton, Saggio sulla " Vita nuova ", trad. ital. Bologna 1968, cap. I e passim; F. Montanari, L'esperienza poetica di D., Firenze 19682, cap. II; Barbi-Pernicone, Rime 99 ss. Cfr. inoltre la Voce Vita Nuova.