DONDUCCI, Giovanni Andrea, detto il Mastelletta
Figlio di Andrea, "che faceva i mastelli" (Malvasia, 1678, p. 67), e di Paola, sua moglie, nacque a Bologna il 14 febbr. 1575. Sono scarse le notizie della sua attività giovanile, ma sono senz'altro attendibili le fonti che parlano di un suo apprendistato presso l'accademia dei Carracci: detto apprendistato può essere datato all'ultimo decennio del Cinquecento e presumibilmente prima del 1595, anno in cui Agostino e Annibale Carracci lasciarono Bologna per Roma. La stretta frequentazione che il D. rinnoverà con essi al momento del suo arrivo a Roma appare una conferma di questo precedente alunnato.
A Bologna, a reggere le sorti dell'accademia carraccesca, era rimasto il solo Ludovico e fu questi a segnare il giovane D. di una impronta più profonda e duratura, percepibile più come causa di particolari inflessioni della sua sensibilità religiosa, che per la trasmissione di precisi aspetti formali. Il D. trovò, nella sensibilità pietistica del proprio maestro, moduli che, appena più concitati, furono perfettamente espressivi del proprio assunto spiritualistico sia negli anni giovanili, quando era più esasperata la sua tensione mistica, sia nella piena maturità, quando questa tensione, allentandosi, lasciò spazio ad una comunicatività narrativa di tipo devozionale, sia, infine, nell'incertezza formale delle ultime prove, quando egli cercò, proprio nel pietismo ufficializzato dell'accademia, un supporto stilistico oltre che contenutistico.
Altrettanto decisivo per la sua formazione fu lo stretto rapporto con Pietro Faccini, con il quale il D. condivise, sullo scorcio del Cinquecento, le scelte stilistiche, riconoscendo, in quella sorta di "accademia alternativa" che il Faccini aveva fondato a Bologna, in posizione dichiaratamente secessionistica rispetto a quella dei Carracci - come riporta il Malvasia nella vita del Faccini ([1678], 1841, I, pp. 398 s.) un reale parallelismo di operazione artistica.
Il D. rifiutò gli aggiornamenti proposti dai Carracci della tradizione cinquecentesca emiliana, riproponendola ostentatamente, accettando i rischi di arcaismo e anacronismo che tale ripresa comportava. Risalì infatti direttamente alla fonte del manierismo emiliano cinquecentesco, al Parmigianino (F. Mazzola) e lo pose come suo massimo termine critico, trovandosi dunque ad affrontare gli stessi problemi che avevano occupato i manieristi del secolo precedente. L'interpretazione che egli ne diede fu estremamente originale, poiché rifiutò del modello gli elementi di eleganza calligrafica, privilegiando al contrario i sintomi nascosti di inquietudine e gli aspetti esoterici. Operò dunque una scelta fortemente anticlassica rispetto a quella dei contemporanei pittori accademici, ribadita anche, sul fronte della pittura veneta, dal suo orientamento verso Tintoretto, contrariamente a quanto indicava Annibale Carracci nel suo riferirsi agli impasti di luce e di colore, ben stesi ed assorbiti nella tela, del Veronese e del primo Tiziano.
La prima sintesi, un po' acerba, dei suoi termini stilistici più diretti si ha in un'opera situabile all'inizio della sua produzione, il Matrimonio mistico di s. Caterina (Roma, Galleria Spada), che è sempre stata di difficile collocazione poiché oscillante tra la maniera di Ludovico Carracci e quella di Pietro Faccini.
Più decisamente esemplate su modelli ludovichiani sono le due tele con Storie di Mosè (Roma, Gall. Spada), eseguite a Roma su commissione della famiglia Spada, e stilisticamente databili ai primi anni giovanili, intorno al 1600. A pertanto possibile ipotizzare una presenza molto precoce del D. a Roma ' forse nell'anno stesso del giubileo (1600), quando si verificò uno spostamento in massa degli artisti bolognesi verso Roma, primo tra tutti Guido Reni, suo coetaneo ed amico.
Nella biografia del pittore il Malvasia (1678) fa circostanziati riferimenti ad una assidua frequentazione sia con Annibale' (morto nel 1609) sia con Agostino Tassi, che giunse a Roma solo nel 1611. Dunque il soggiorno dell'artista a Roma si protrasse a lungo, o quantomeno i suoi viaggi furono numerosi e la sua personalità era ben nota alla committenza romana: suoi quadri infatti sono segnalati dal Malvasia (1678, p. 69) nella "vigna Borghese", nella "vigna Panfilia" e nella "Galleria dell'Em. Spada"; altri erano in possesso dei Barberini (A. Lavin, Seventeenth-Century Barberini documents and inventories of art, New York 1975, pp. 66 s., 69), dei Santacroce (A. Sinisi, Il palazzo Santacroce ai Catinari, in Palatino, genn.-apr. 1963, p. 17) da cui proviene il Davide unto re (ora a Modena, convento di S. Pietro: Coliva, 1980, n. 11), dei Giustiniani (L. Salerno, The picture gallery of Vincenzo Giustiniani. The inventory, part I, in The Burlington Magazine, CII [1960], pp. 96 s.), da cui provengono le due tele, ora in collezione privata, raffiguranti Sansone e Dalila e L'offerta di Abigail (cfr. Coliva, 1980, nn. 33.34) e l'altra, sempre in coll. privata, con Aspasia e Artaserse (ibid., n. 57), come si ricava dal catalogo di vendita della collezione stessa compilato da H. Delaroche (Paris 1812).
Il soggiorno romano fu fondamentale per il D. poiché lo mise in contatto con Adam Elsheimer che, anch'egli a Roma nel primo decennio del Seicento, aveva raccolto attorno a sé l'attività degli "stranieri": Jacob e Jan Pynas, Pieter Lastman, Hendrick Goudt, Paul Brill, il cui rapporto con il D. è prevedibile attraverso la mediazione di Agostino Tassi. Queste presenze accentuarono la naturale sensibilità dei D. al problema del paesaggismo nordico che al momento della sua formazione egli aveva ricercato, come matrice più diretta, in Nicolò Abbati (dell'Abate). Da lui aveva mutuato lo stesso schema di costruzione del paesaggio con riduzione del fatto narrato a mero pretesto, le iridescenze luminose ed il contrasto di luci fredde sulle ombre fonde del fogliame, cogliendo nello stesso tempo l'elaborazione che di tali elementi nordici continuava a proporre in chiave neodossesca lo Scarsellino (I. Scarsella). A differenza di Elsheimer il D. propose un paesaggio antiscientifico, antinaturalistico, visionario, con esiti che si può azzardare a definire "romantici". Esegui composizioni in cui l'elemento paesaggistico è talmente preponderante e caratterizzato da segnare un momento autonomo nella sua produzione almeno sino agli anni 1618-20. Vi si possono collocare i Paesaggi . Con scene di carattere profano della Galleria Spada e della Kress Collection (Miami, J. and E. Lowe Art Gallery), la Predica del Battista della collezione Molinari Pradelli (Coliva, 1980, n. 10), il David unto re, già ricordato, la serie dei Conviti in riva al lago rispettivamente della Galleria nazionale d'arte antica di Roma (ibid., n. 12), del Musée des beaux-arts di Orléans (ibid., n. 13) e quello, inedito, ora nelle collezioni della Cassa di risparmio di Roma, la Maddalena di collezione privata bolognese (ibid., n. 35), la complessa Adorazione dei pastori della Galleria nazionale di Parma.
A partire dal secondo decennio del secolo, e già forse tra il 1611 e il 1612, il D. era definitivamente a Bologna, dove ricevette le più importanti commissioni pubbliche, quelle per le chiese di S. Francesco e di S. Domenico. La presenza a Bologna di Benedetto Giustiniani quale legato apostolico, proprio intorno al 1611, fa supporre che questa famiglia, per la quale il D. aveva lavorato a Roma, appoggiasse la candidatura dell'artista per questi incarichi. Le opere eseguite per la chiesa dei, francescani, tutte databili agli anni 1611-12, sono andate in parte distrutte a causa delle traversie subite dalla chiesa, in parte sono attualmente divise tra la Pinacoteca di Bologna (dodici tele con Storie di santi), il duomo di Casalmaggiore (Stimmate e Morte di s. Francesco) e S. Petronio a Bologna (S. Bonaventura).
Immediatamente successiva è la decorazione della cappella dell'Arca nella chiesa di S. Domenico con i due grandi teloni laterali, i sottarchi, i pennacchi della cupola, commissionatagli in occasione della celebrazione del capitolo dei padri domenicani (cfr. V. Alce, in Arte antica e moderna, I [1958], pp. 394-98), iniziata nel 1613, che sino al 1616 tenne occupato il D. insieme con gran parte dell'ambiente pittorico bolognese: Guidi Reni, Alessandro Tiarini, Lionello Spada.
Le nuove condizioni dimensionali impegnarono il D. nella ricerca di diverse possibilità espressive, che egli trovò nei moduli compositivi veneti. Attraverso l'elaborazione del sostrato culturale manierista, giunse cosi ad una sua personale "maniera grande" che lo portò ad una intensificazione scenico-espressiva del linguaggio, precorritrice della grande maniera barocca, ma anche di numerosi pittori settecenteschi, tra cui G. M. Crespi e G. A. Burrini.
È un linguaggio che impone una tecnica non convenzionale, fatta di una stesura pittorica a tocchi di pennellate nervose e vigorose, che contribuisce all'esaltazione di una gamma cromatica fantasiosa e complessa. Il risultato è una concezione del colore, e quindi dell'espressione, opposta alle teorie dell'arte di Annibale Carracci.
La fase relativa ai lavori di S. Domenico e quella immediatamente successiva segnano il momento più rigoglioso della produzione del D., che eseguì anche composizioni di formato più piccolo come il Ritrovamento di Mosè della Galleria Estense di Modena, Cristo servito dagli angeli (Modena, coll. privata; cfr. Coliva, 1980, n. 63), la splendida tela con L'approdo di un corteo (Cleopatra?; in Nell'età di Correggio..., 1986, n. 175). Questo periodo culmina nella decorazione della cappella dei falegnami in S. Maria della Pietà che risale al terzo decennio, esempio di grande ampiezza narrativa e di religiosità distesa e carezzevole, che si estende ad altre realizzazioni dello stesso periodo, quali il S. Cristoforo del Museo civico di Carpi, datato dal documento di pagamento al 1619, il S. Sebastiano curato da Irene (Bologna, S. Giovanni Battista dei Celestini), la Nascita del Battista (Bologna, sacrestia di S. Maria dei Servi).
Nel 1625 il D. ricevette l'incarico di eseguire le due tele laterali per la cappella di proprietà della famiglia Spada in S. Paolo Maggiore a Bologna, raffiguranti il Cristo nell'orto e Salita al Calvario (Coliva, 1980, nn. 92 s.), commissione che di nuovo conferma i rapporti del D. con la committenza romana e la sua prolungata presenza a Roma nel primo decennio del Seicento.
Intorno al 1625 la sua interpretazione del fatto religioso mutò verso una impostazione più pietistica e sentimentale in cui il paesaggio assumeva un ruolo meno importante perdendo la sua ragione originaria. Alla fine del terzo decennio si può focalizzare il periodo involutivo dell'attività del D. che iniziò a ricercare un'autorità stilistico-espressiva cui appoggiarsi, trovandola di volta in volta in Ludovico o Annibale Carracci o in Guido Reni. In questi anni eseguì la Deposizione di S. Maria del Monte a Cesena (Coliva, 1980, n. 95), illanguidita su moduli reniani. Sono databili intorno al 1630 la Predica del Battista e il Battesimo di Cristo della sacrestia di S. Maria dei Servi a Bologna (ibid., nn.97 s.). L'ultima opera documentabile dei pittore è la pala con S. Pietro e s. Gioconda nella chiesa dei Ss. Pietro e Prospero a Reggio Emilia (ibid., n. 100), datata al 1639 dal documento di pagamento (G. Campori, Artisti italiani e stranieri negli Stati estensi, Modena 1855, p. 188).
In queste opere si scorgono desunzioni da moduli formali del Parmigianino, ma privati della nascosta inquietudine del modello, mentre prevale la tendenza ad una grazia calligrafica; infine frammenti ed interpolazioni ora "alla Ludovico" ora "alla Guido Reni" rendono ormai l'apporto del D. una traccia poco rilevante.
Gli ultimi dieci anni almeno di attività del D. restano assolutamente non documentati. Fu probabilmente attivo in maniera sporadica ed incostante, tormentato da squilibri divenuti patologici, come non mancano di testimoniare i suoi biografi, primo tra tutti il Malvasia.
Il D. morì a Bologna nel 1655 (Malvasia, 1678).
Fonti e Bibl.: Per una bibliografia aggiornata al 1978 cfr. Coliva, 1980, ma vedi anche e in particolare: C. C. Malvasia, Felsina pittrice. Vite dei pittori bolognesi [1678], Bologna 1841, II, pp. 67-72; Id., Le pitture di Bologna (1686), a cura di A. Emiliani, Bologna 1969, ad Indicem; Id., Scritti originali ... spettanti alla sua Felsina pittrice [sec. XVII], a cura di A. Emiliani, Bologna 1982, pp. 128 ss.; M. Marangoni, Il Mastelletta, in L'Arte, XV (1912), pp. 174-182; M. Calvesi, in Maestri della pittura del Seicento emiliano, (catal.), Bologna 1959, ad Indicem; A. Corbara, Due nuove fantasie di paesaggio del Mastelletta, in Arte antica e moderna, IV (1961), pp. 285 ss.; F. Monai, Un pittore secessionista del Seicento bolognese: G. A. D. detto il Mastelletta, in Studi di storia dell'arte in onore di A. Morassi, Venezia s. d. [ma 1971], pp. 219-226; Lettere e altri docc. intorno alla storia della pittura, Monzambano 1976, pp. 98 s.; A. Coliva, Il Mastelletta, Roma 1980 (recens. di J. Winkelmann, in Prospettiva, 1981, 25, pp. 81-88); Arte e pietà (catal.), Bologna 1980, pp. 250 n. 229, 302 s. nn. 304 s.; A. Cera, La pittura emiliana del Seicento, Milano 1982, ad vocem; E. Sambo, in La raccolta Molinari Pradelli... (catal.), Bologna 1984, p.99 nn. 56 s.; Nell'età del Correggio e dei Carracci (catal.), Bologna 1986, pp. 495-500; Seicento. Le siècle de Caravage dans les collections françaises (catal.), Paris 1989, p. 278 n. 101; U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon..., IX, pp. 437 ss.