DONADIO, Giovanni, detto il Mormanno (Mormando)
Nacque a Mormanno (Cosenza) nella seconda metà del XV secolo. Sono scarse le notizie ed i documenti sull'arte di costruire organi nel Regno di Napoli in epoca rinascimentale; ma sappiamo, tuttavia, che il D. svolse il ruolo particolare di caposcuola. 1 suoi legami diretti con Lorenzo da Prato, testimoniati dal testamento del D. del 1492 (Filangieri, 1885), collegano la sua attività alle radici del rinnovamento di quest'arte i cui nuovi canoni furono codificati in Toscana nella seconda metà del Quattrocento. Lorenzo era infatti legato a commissioni per la cappella di Castelnuovo fin dal 1471 quando re Ferrante ordinò che gli venissero rimesse le spese di viaggio per il suo trasferimento da Bologna alla città partenopea (ibid.).
In Bologna Lorenzo da Prato era impegnato nella costruzione del monumentale organo di 24 piedi di S. Petronio, ancora conservato e compiutamente giudicabile nei suoi elementi costitutivi e sonori. Tale eccezionale sopravvivenza permette di conoscere indirettamente gli ideali acustici e timbrici perseguiti dal D., in assenza di sue opere conservate, e di tentare, sulla base di alcuni contratti di costruzione resi noti dal Filangieri (1885) e dei contemporanei svolgimenti di quest'arte in Toscana e nel resto d'Italia, l'individuazione delle caratteristiche e gli esiti di una scuola campana, tanto importante nella storia della musica strumentale fra Cinquecento e Seicento ma priva, a quanto è dato sapere, di opere sopravvissute.
Da due contratti del primo decennio del Cinquecento si traggono illuminanti indicazioni sulle caratteristiche organologiche degli strumenti costruiti dal Donadio. Nel 1505 era impegnato alla realizzazione di un organo per la chiesa di S. Eligio in Napoli di "palmorum deceni ... in prima canna incipientem ut et residuurn re mi fa sol la prout fierit conveniens et largitudinis secundum proporcionerri organi cuin octo registris videlicct principalis octave XV decimenone vicesime secunde vicesime sexte cum frautis registro et organecto supra secundurri formam et designum" (Filangieri, 1884).
Si tratta dunque di uno strumento che per caratteristiche foniche non differiva nella sostanza da quelle in uso nel resto d'Italia agli inizi del Cinquecento: un ripieno esteso all'armonico di vigesimasesta, limite acuto sovente adottato dal D., ed un flauto. Per contro, è rilevante l'ambito della tastiera iniziante dal doi di 8 piedi con la prima ottava "corta", più tardi chiamata gionta alla spagnola o "ini re ut". Era infatti normale per il resto d'Italia l'inizio della tastiera dal fa1 di 6 piedi o dal fa-1 di 12 o eccezionalmente dal fa2 di 24 piedi fino dalla seconda metà del Quattrocento.
Pur registrandosi casi eccezionali di estensioni verso il grave fino al re, come avviene nell'organo per la basilica del Santo a Padova dovuto a Domenico di Lorenzo nel 1480, o al do per quello di S. Martino a Lucca progettato dallo stesso autore nel 1484, è nei primi decenni del Cinquecento che si consolida e attesta tale ampliamento. In tal senso è significativo che lo stesso D. prevedesse l'inizio e la fine della tastiera in fa con i consueti 47 tasti appena un anno dopo, nel 1506, nel progetto per l'organo di S. Maria della Pace in Roma, che anche nella disposizione fonica non si discosta nella sostanza da quanto era comunemente praticato nel resto della penisola: "octo registri, cioè: lo principale, li octave, la quintadecima, la vicesimasecunda, la vigesimasexta et la vicesima nona, la decimanona mocza con li soy radoppiamenti et li frauti in quinta decima de li tenuri" (Valenti, 1927).
L'adozione di tastiere inizianti dal do non è la sola singolarità dell'arte organaria napoletana del primo Cinquecento. Un'altra caratteristica è costituita dalla diffusa presenza nelle disposizioni foniche dell'"organetto", un termine il cui significato organologico è rimasto sino ad oggi incerto e che ora siamo forse in grado di chiarire. Essendo sempre computato nel numero dei registri richiesti, dal principale al flauto, si tratta evidentemente di un registro di canne, e di tessitura soprana per specificazione dello stesso D. che lo indica nel 1516 "da lo meczo in su" della tastiera (Filangieri, 1885). Si dovrà però escludere l'eventuale identificazione con un registro ad ancia perché nello stesso documento è detto che l'organetto è all'ottava del principale e quindi in una tessitura inverosimile per tali forme di canne. La soluzione è offerta dal citato documento del 1505, dove si specifica che l'organetto è "supra secunduin formarn et disegnum". Si tratta cioè di quei gruppi di canne disposte per solito a cuspide poste sopra i campi minori della facciata, che solo a partire dal 1500 verranno chiamati nel resto d'Italia "organetis mortis in partibus superioribus" (Lodi, Incoronata; Bartolomeo Antegnati), e cioè canne mute poste per il solo "ornamento del organo" (1537, Brescia, S.Eufemia; Giovan Battista Facchetti).
I ben noti organetti morti nascevano dunque "opera viva", cioè suonanti quando per la prima volta comparvero nei prospetti degli organi nell'ultimo quarto del Quattrocento. Sono di quel tempo infatti i documenti che chiedono di disporre "a castello le canne" (1485), cioè in campate, normalmente in numero di cinque, eccezionalmente di sette, con gruppi di canne maggiori alternati a quelli delle canne minori. Con questa nuova disposizione i vuoti che venivano a crearsi al di sopra delle campate di canne piccole favorivano, o meglio esigevano per ragioni di compiutezza formale, la collocazione di ulteriori gruppi di canne. Le disposizioni dei corpi sonori nelle più antiche facciate degli organi grandi collocati nelle chiese erano dipendenti da canoni figurativi tardogotici. Questi potevano prevedere torri merlate per i gruppi di canne maggiori disposte a cuspide, raccordi obliqui guarniti di gattoni rampanti per le canne scalate ad ala in una struttura complessiva che seguendo strettamente l'articolazione dei corpi sonori non lasciava spazî liberi.
Le nuove facciate d'organo di impianto rinascimentale, che prevedevano sovente l'uso di numerosi elementi dell'architettura classica, lasciavano dunque al di sopra delle campate minori spazio sufficiente per la collocazione di canne di circa 2 piedi. L'organetto, di necessità limitato ai soprani, veniva alimentato con trasporti del vento la cui messa in opera evidentemente complessa ne fece decadere l'uso nell'arco di un trentennio. Ciò non avvenne a Napoli, dove fu adottato da Giovan Francesco Di Palma nel 1547 e dove ancora si incontra nel 1632 ad opera di Pompeo de Franco nell'organo della chiesa della Pietà.
L'idea di porre canne sonore nelle parti alte delle facciate organizzandole in un registro soprano indipendente chiamato organetto in grado di porsi rispetto al principale in un distinto piano sonoro è con ogni verosimiglianza da attribuire a Lorenzo da Prato che lo adottò nel l'organo costruito nel 1476 per il duomo di Pistoia. Sottoscrisse infatti lo Squarcialupi che "l'orghano per lui fabricato è di più perfectione e bontà che non è lorghano di sancto Lorenzo antedicto, oltra che v'è lorghanetto di più et cinque tire" (Milanesi, 1901).
L'adozione da parte del D. del registro dell'organetto viene quindi a costituire una prova ulteriore della sua formazione presso Lorenzo da Prato nel periodo che questi fu attivo a Napoli. Si può ancora rilevare che nell'elenco dei registri richiesti nel citato documento del 1506 la "decimanona mocza con li soy radoppiamenti" costituisce una assai precoce adozione di registri "spezzati". Ancora, l'estensione delle file del ripieno alla vigesimanona adottata dal D. è in anticipo di qualche anno su quanto progetterà nel 1509 Domenico di Lorenzo da Lucca per l'organo della Ss. Annunziata di Firenze.
Alla luce delle più recenti acquisizioni sulla storia organaria italiana il D. si conferma dunque personalità di spicco a cui fecero riferimento numerosi artisti di area napoletana, quali Giovan Francesco Di Palma (che nel 1526 sposò la figlia del D., Diana, e fu perciò detto anch'egli Mormanno), Nicola de Rosa, Andrea Scoppa, Luca Boye e Pompeo de Franco, con il quale si toccano gli anni Trenta del Seicento.
L'attività di architetto del D. è documentata nell'atto di concessione della cittadinanza napoletana conferitagli nel 1513 dopo trenta anni di permanenza nella città: "propter suas singulares virtutes et excellentiam quam habet in arte exercitio et ministerio conficiendi organos et architecturae constructiones" (Ceci, 1900). Partendo dal piccolo edificio di S. Maria della Stella in Napoli ricostruito dal D. nel 1520, in quanto divenutone "estauritario" (Filangieri, 1884) per bolla di Leone X del 1519, gli sono state attribuite prima dal Ceci (1900) e quindi dal Pane (1937) alcune opere di architettura, fra le quali si segnala il palazzo Di Capua, ora Marigliano.
Nella facciata, il portale composto da due pilastri ionici con trabeazione su cui è impostato un arco a tutto sesto verrà così diffusamente ripreso da rappresentare l'elemento più tipico dell'architettura rinascimentale napoletana.
In generale gli stilemi architettonici usati dal D. sono desunti dall'attività di Giuliano da Maiano impegnato per gli Aragonesi dal 1483 al 1490; senza escludere una conoscenza diretta delle opere di architetti attivi in Roma, quali il Bramante, da lui certamente conosciute in occasione della commissione per l'organo di S. Maria della Pace di cui più sopra si è detto.
Morì a Napoli dopo il 1526.
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