VARAGNOLO, Domenico
– Nacque a Venezia il 10 agosto 1882 da Adolfo, segretario di avvocato, e da Elisa Fostini. Di famiglia numerosa, ebbe quattro fratelli: Anna, Adele, Mario ed Enrico, che si distinse nella Grande Guerra quale sergente motorista in una squadriglia aviatoria.
Frequentò la scuola presso i padri dell’Ordine di s. Girolamo Emiliani, senza proseguire negli studi universitari, costretto dalle difficoltà economiche della famiglia a impiegarsi presso la Camera di commercio di Venezia. Qui rimase sino al 31 dicembre 1906, allorché Antonio Fradeletto, cattedratico in lettere italiane presso la Scuola superiore di economia e commercio di Venezia, nonché segretario generale dell’Esposizione internazionale d’arte di Venezia (inaugurata il 30 aprile 1895, e futura Biennale per il complesso delle manifestazioni) lo chiamò a collaborarvi per l’organizzazione delle mostre, la compilazione dei cataloghi e la ricerca bibliografica.
Il giovane Varagnolo si dimostrò efficacissimo funzionario, provvedendo a gettare le basi per il costituendo Archivio storico dell’arte contemporanea (ASAC), istituto aperto al pubblico presso palazzo ducale nel 1928 e tra le più importanti raccolte in Europa di libri e documenti, cataloghi e foto, e d’ogni genere di pubblicazione illustrata connessa alle arti figurative.
Unitosi in matrimonio con Cecilia Benevento nel 1925, benestante, della famiglia del negozio cittadino di tessuti ancor oggi attivo, ebbe due figli: Mariso (cui dedicò nel 1927 una raccolta di sonetti) e Marino.
La «testa grossa un fiantin», come si dipinse nell’autoritratto scherzoso (in A tempo perso, Venezia 1908, p. 9) e come lo raffigurò l’amico pittore Alessandro Milesi, un ingombrante naso carnoso forse contribuirono a renderlo timido e bonario, oltre che portato a un sobrio anticonformismo. E nondimeno man mano sviluppò indubbie doti di conferenziere che gli conquistarono le simpatie di un suo pubblico che lo seguiva dappertutto nei suoi interventi in città.
Iniziò a farsi conoscere tra amici (in occasione di nozze e festività) grazie a versi in vernacolo, usciti all’inizio con lo pseudonimo Rágnolo nel Sior Tonin Bonagrazia, foglio satirico locale, o depositati in opuscoli di frequente senza data. Con questa sigla firmò la citata prima raccolta A tempo perso: la parola vi era spalmata con una patina brillante, a celare una forte propensione crepuscolare e minimalista, tra improvvisi sbalzi ironici. Seguirono i Monologhi veneziani, raccolti nella prima metà degli anni Venti (Venezia 1923), e tuttavia sbozzati tra il 1904 e il 1920.
Ecco La Rosina che se sfoga del 1906, dove dilagava la ciacola della servetta di una padrona romana, con gustosi bisticci bilingui, portata al successo da Elettra Zago, figlia di Emilio; o la lavorante artigiana ne La sartorela del 1910 che sparlava di baronesse avare e screanzate, o ancora La letera de Toni del 1912, in cui la fidanzata leggeva trepida la missiva del soldatino a Tobruk, con allusioni alla guerra libica e finale patriottico, oppure La lavandera del 1914, con la povera vedova, sfinita dalla fatica ma esaltata dal figlioletto. Infine, El goloso del 1920, che in pieno reducismo e travagli sociali, se ne veniva alla ribalta come un qualsiasi Zanni mascherato da una pulcinellesca bulimia, un inno alla pancia, iperbole carnevalesca, la bocca sciolta da caramelle, mentine e cioccolatini, torte margherite, bussolai, frittelle e galani: un mondo che, visto dalla cucina, allontanava in tal modo la paura della guerra recente.
El progeto de Pantalon, scena-prologo per Arlecchino e Pantalone, concepito per un teatro di marionette nel 1917, apriva alla fortunata serie Le parlate de le mascare, cinque e sempre in versi, pubblicate nel 1917 in occasione dell’Esposizione internazionale del giocattolo.
Si trattava di ritratti-scenette cantilenanti. Ad esempio, in Entra Pantalon, coevo alla guerra, traspariva la reviviscenza un po’ stereotipata, ma arguta, di vecchi protagonisti dell’immaginario scenico lagunare. In generale nei suoi versi, leggiadri e dalla misura breve, impostati su di una delicata autoironia e modellati sul ritmo di quelli di Riccardo Selvatico, si rimuovevano gli aspetti più bassi del quotidiano. Fece eccezione la sua ‘intestinale’ Fasiolada di cui si vergognava, nonostante il successo popolare.
Privo di pedantismo accademico, Varagnolo si fece apprezzare anche come studioso grazie a una nutrita serie di profili di artisti, nonché di grandi attori del suo tempo, da Emilio Zago a Ferruccio Benini. Su quest’ultimo, la sera del 23 febbraio 1928, al teatro Goldoni, tenne un discorso commemorativo, in cui si riconosceva simile per fragilità e insicurezza al geniale interprete, esaltato per l’estrema naturalezza nel recitare, specie nel repertorio dell’amato (da entrambi) Giacinto Gallina, di cui, tra il 1922 e il 1930, curò per Treves l’edizione dell’intera opera.
Tuttavia, fu la scena l’autentica passione della sua vita. Varagnolo scrisse diciotto copioni e undici monologhi, passaggio quasi inevitabile dai versi alla freschezza dialogica delle battute: il debutto pubblico avvenne nel 1911 al Goldoni con il bozzetto farsesco Matina de nozze. Scene comiche in un atto, creato alla ribalta da Laura Zanon Paladini, celebre servetta della ribalta lagunare, con la compagnia Benini, per la sua serata d’onore.
Sulla scena a ondate si rovesciavano varie tipologie umane, caricature gustose e in punta di penna, nel trambusto dei preparativi di matrimonio mentre lo sposo, per di più forestiero (toscano) era in ritardo, tra equivoci e abbracci finali.
Nel 1913 lo stesso Benini varò al Goldoni I quadri, poi con il titolo La dote de Gigeta, ennesimo omaggio a Gallina, con puntuale lieto fine ed esaltazione del connubio onestà e povertà, copione centrato sulla contesa di dipinti, connessi a nozze tra nobili e piccola borghesia, dapprima osteggiate e quindi trionfanti. Ma le angosce legate alla guerra imminente si evidenziarono nel fortunato Per la regola! (all’esordio romano con Ferruccio Benini nel 1914), sui contrasti, entro un’azienda, tra Cesare, ovvero il giovane industriale che dopo un soggiorno in Germania introduce macchinari moderni, e il vecchio impiegato di idee conservatrici quanto a tecnologie, contrario a luce elettrica, telefono, dattilografa, alla fine richiamato come socio, dopo aver rintuzzato i bollori sperimentali del giovanotto. Il testo venne tradotto in genovese e recitato da Gilberto Govi, assicurandogli così maggiore circolazione rispetto agli altri. La casa dei scandoli, dall’esito contrastato, nonostante l’esaltazione di Venezia, salì alla ribalta nel 1915 con Benini: la città amata con struggimento dal vecchio pretore a riposo, sospettato dal bigottismo femminile di avere invece una tresca sordida con la emancipata nipote pittrice, frequentatrice di futuristi.
Negli anni dell’immediato dopoguerra, influenzato dal nuovo della scena italiana, il commediografo veneziano, il solo nato in laguna nel lotto di colleghi veneti, si staccò dagli orizzonti regionali. E l’ariosità bozzettistica si oscurò in favore di drammaturgie introspettive, insolite nel territorio dialettale, ospitando snervanti tensioni familistiche, memore dell’ultimo Gallina a sua volta attratto da fantasmi ibseniani. Anche gli immancabili finali rassicuranti, spesso posticci, gli apparvero stereotipi di cui liberarsi.
Ecco allora L’omo che no capisse gnente. Inaugurata nel 1926 a Treviso da Cesco Baseggio, con il titolo Ogni amor ga el so color, centrato sulle tensioni tra padre impiegatuccio, ambizioso riguardo al figlio che intende promuovere socialmente con la laurea in legge, e quest’ultimo depresso per la tirannia del genitore; quindi El sangue no xe acqua del 1927, cupa vicenda di reali tradimenti coniugali fatti passare per paranoia, variante del pirandelliano Berretto a sonagli. E ancora Mi so’ pitor! (in origine El ponte in balanza) con Gianfranco Giachetti nel 1929, bloccata in un primo tempo dalla prefettura a Treviso per il timore di disordini causati dalle polemiche sul nuovo ponte che avrebbe collegato Venezia alla terraferma. Qui, l’artista Arcangelo Marisi, teso alle proprie creazioni, si scontrava con il nipote di tendenze avanguardistiche.
Infine El pitor del paradiso del 1929 (ma edito nel 1938) che, articolato in tre quadri (progettato per Ermete Zacconi, ripiegato su Baseggio, poi scartato perché troppo oneroso per l’allestimento), mostrava Tintoretto nella maturità della sua opera, alle prese con le epiche pitture a S. Rocco e a palazzo ducale. Ma il protagonista mutava man mano attitudine tra vecchiaia incipiente e morte dell’adorata figlia Marietta. Il copione restava fluido e coinvolgente nonostante la grande documentazione storica assimilata. Non lo aiutarono certo, in questa svolta, le ditte primarie cui si rivolgeva, da Baseggio a Giachetti, che preferivano infilare soggetti comici, più che valorizzare le sfumature della nuova vena intimista.
Nel 1934 fu consulente per l’apertura assoluta della sezione teatro, allorché nel luglio del 1934 si realizzò nella corte dietro il teatro Goldoni, La bottega del caffè, per la regia di Gino Rocca, con il napoletano Raffaele Viviani nella parte di Don Marzio, saccente e pettegolo.
Incalzato da una forte depressione, celata dietro bonomia e cordialità apparenti, prostrato dall’asma, deluso per le tante, mancate messinscene, morì a Venezia cadendo dal pergolo di casa nel sottostante Rio di S. Felice, a Cannaregio, il 20 agosto 1949.
La scomparsa di Varagnolo lasciò costernata l’intera città. Aveva sessantasette anni. Dato anche il clima particolarmente afoso, il referto parlò di crisi respiratoria; ma secondo molti si trattò di suicidio. Ben presto il suo vivace e gustoso repertorio venne accantonato, trascurato persino dai circuiti filodrammatici.
Opere. Poesie: Versi dialettali (Venezia 1906); A tempo perso [...] Versi veneziani (Venezia 1908); La Festa del campanil (Venezia 1912); La parlata de le mascare (Venezia 1917); Monologhi veneziani (Venezia 1923, ma 1922); poi Sie monologhi veneziani, con prefazione di B. Rosada e illustrazioni di C.B. Tiozzo, Venezia 1999); Fati de casa: I soneti de Mariso (Milano 1927).
Teatro: La cale. Monologo-confarenza ossia né una roba né l’altra. Martelinada... (poi In cale, Venezia 1904); Matina de nozze (Venezia 1911); I quadri (poi La dote de Gigeta, Venezia 1913; rist., a cura di D. Reato, Venezia 1982); Per la regola! (Venezia 1915); Le parlate de le mascare per Pantalon-Arlechin-Colombina-Facanapa e Brighela (Venezia 1917); El fio dotor, in Rassegna nazionale, febbraio-giugno 1926, pp. 1-74 (poi, sulla scena: L’omo che no capisse gnente); La casa dei scandoli (Venezia 1928); El ponte en balanza (Venezia 1930); Opere scelte di poesia e di teatro in dialetto veneziano (Venezia 1967; contiene: Sie monologhi veneziani, Le parlate de le mascare, Poesie varie, Per la regola e El pitor del Paradiso); El pitor del Paradiso (Tintoretto) (Venezia 1994).
Per l’attività di critico, fondamentale la cura dell’opus galliniano, per cui si rimanda a G. Gallina, Teatro completo, I-XVIII (Milano 1922-1930); Ferruccio Benini. Emilio Zago Commemorazioni (Milano 1933); D’Annunzio e la Biennale (Note d’archivio), in Ateneo veneto, CXXX (1939), 125, 3, pp. 137-161; Alessandro Milesi pittore veneziano (Venezia 1942).
Fonti e Bibl.: Negli anni Ottanta del Novecento la famiglia ha costituito il Fondo Varagnolo a Casa Goldoni di Venezia, che comprende volumi, manoscritti, opuscoli, numeri di riviste di argomento teatrale, oltre che corrispondenza con attori e autori dell’epoca. Nel 2008 il figlio Marino, ampliando il lascito, vi ha aggiunto materiali vari e slegati fra di loro, oltre a una nutrita serie di fotocopie rilegate con i tanti dattiloscritti di copioni non arrivati alla ribalta e nemmeno alla stampa.
G. Avon Caffi, D. V. poeta e commediografo veneziano: commemorazione..., in Ateneo veneto, CXLI (1950), 134, 1, pp. 25-43; U. Facco De Lagarda, Profilo di D. V., in Id., Opere scelte di poesia e di teatro in dialetto veneziano, Venezia 1967, pp. VII-XIII; N. Mangini, D. V. e il teatro veneto del primo Novecento, in D. Varagnolo, El pitor del Paradiso (Tintoretto), Venezia 1994, pp. 67-84; A. Zorzi, Presentazione, ibid., pp. 4 s.; B. Rosada, D. V. e il suo tempo, in D. Varagnolo, Sie monologhi veneziani, Venezia 1999, pp. 5-26; P. Puppa, Teatro. Teatri, in Storia di Venezia. L’Ottocento e il Novecento, a cura di M. Isnenghi - S. Woolf, III, Il Novecento, Roma 2002, pp. 2090-2092; A. Bogo, “Morte ti spegne e Vita si rinnova”: la passione di un paladino di ogni arte respira ancora nella sua eredità. D. V. e il suo lascito alla Biblioteca di Casa Goldoni, in Bollettino dei musei civici veneziani, s. 3, VII (2012), pp. 95-103.