MOROSINI, Domenico
– Nacque a Venezia nel dicembre 1417 da Pietro di Domenico e da Bianca Dolfin di Nicolò. La famiglia apparteneva alla stirpe dei Morosini dalla Tressa, ramo di S. Maria Zobenigo.
Nel 1438 fu eletto capo di sestier, carica che ricoprì altre due volte, e nel 1446 alla Quarantia, senza entrare in carica, perché non raggiungeva l’età prescritta. Da quel momento non ebbe più cariche pubbliche per quasi trent’anni. Nel 1456 sposò Elena Ruzzini, dalla quale ebbe Giovanni, Lorenzo e Francesco; nel 1470 il doge Cristoforo Moro lo nominò suo esecutore testamentario insieme con Giacomo Morosini e Piero Sanudo. Nel 1472 ricominciò una carriera politica di alto livello, eletto con continuità nel Consiglio dei dieci nonché savio di Terraferma e savio del Consiglio, partecipe dunque di quello che era il cerchio interno e più importante del governo della Repubblica di Venezia. Durante tutti questi anni, inoltre, fu spesso membro delle zonte, cioè le «aggiunte» al Consiglio dei dieci, che erano elette quando il Consiglio doveva trattare di argomenti particolarmente difficili o spinosi. Più volte partecipò a magistrature indirizzate a fini particolari, talvolta di nuova istituzione. In questi frangenti si occupò di politica estera, di questioni militari e navali, di problemi economici, monetari, finanziari, sanitari, ecclesiastici e religiosi, partecipando anche a processi di rilevante interesse politico come quelli relativi al broglio, a illegittimi accordi elettorali, alla violazione del segreto. Non esisteva quasi argomento del quale non avesse acquisito competenza per esperienza diretta. Le parti, cioè le proposte presentate ai consigli, oltre la sua portavano spesso la firma di altri personaggi di primo piano come Marco e Agostino Barbarigo e Leonardo Loredan, tutti e tre futuri dogi, ai quali Morosini era legato da stima e amicizia. Nel novembre 1485 e nell’agosto 1486 partecipò all’elezione dei due Barbarigo e non è azzardato pensare che abbia votato proprio per loro. Il 3 dicembre 1492 fu eletto procuratore di S. Marco de Citra Canale, la massima carica della Repubblica dopo il dogado.
Nel 1497 iniziò la stesura della sua opera principale: De bene instituta re publica. Nel 1502 partecipò alla zonta nominata per discutere della notizia della circumnavigazione dell’Africa, riuscita ai portoghesi di Vasco da Gama. Ma Morosini, benché in buona salute, era ormai molto anziano e probabilmente stanco. Continuò a essere presente alle sedute del Senato, prendendo spesso la parola, ma la sua vita politica era ormai alla fine.
Morì a Venezia il 22 marzo 1509 e due giorni dopo fu sepolto a S. Andrea della Certosa. Lasciò grandi sostanze non soltanto ai figli, ma anche a monasteri e chiese di Venezia.
Uomo di notevole cultura e attento ai problemi culturali, nel testamento dispose che la sua biblioteca, certamente di buona consistenza, non fosse venduta o divisa, ma conservata per i suoi eredi come strumento di studio. Durante la sua attività politica si mostrò molto interessato all’Università di Padova, presentando in Pregadi, solo o con altri, parti riguardanti l’ateneo; benché sempre molto restio a spendere danaro pubblico, non ebbe mai esitazioni quando si trattò di aumentare lo stipendio a un professore o di fare buone proposte a qualche dotto per strapparlo a un’altra città.
Fu personaggio ben noto negli ambienti del suo tempo, in contatto e amicizia con numerosi dotti. Nel 1489, per esempio, pochi giorni prima della morte, Bernardo Giustiniani, non avendo ancora limato definitivamente la sua Historia de origine urbis Venetiarum, lasciò per testamento questo incarico a Benedetto Brugnoli e Giovanni Calfurnio, con l’obbligo di sottomettere il loro operato alla supervisione di Morosini, al quale era affidato il potere di decidere ogni qual volta i due non fossero riusciti a trovare un accordo. Nel 1486 Matteo Colacio gli dedicò il suo Libellus de verbo, civilitate et de genere artis rethoricae in magnos rethores Victorium et Quintilianum, scrivendo di avere avuto l’idea dell’opera dopo un incontro con Antonio Adinolfo, che gli aveva detto di avere discusso con Morosini di che cosa fosse «civiltà». Oltre a questi due esempi, molte altre testimonianze dei suoi legami culturali sono rintracciabili negli epistolari di quegli anni.
Profondamente devoto, Morosini scrisse anche un’opera agiografica sui miracoli di s. Lorenzo Giustinian, primo patriarca di Venezia, morto l’8 gennaio 1456. L’opera è perduta, ma ne abbiamo notizia da Pietro Dolfin, generale dei camaldolesi, che ne mandò copia al patriarca Antonio Contarini, affinché la inviasse ai commissari papali che esaminavano la causa di beatificazione del protopatriarca. Ebbe anche un forte interesse per la letteratura profetica, allora assai diffusa e ben presente a Venezia in un costante intreccio tra religiosità e politica.
Da quanto Marin Sanuto scrisse di lui nei suoi Diarii, sappiamo che Morosini fu uomo di carattere deciso e non sempre trattabile. Fu buon oratore, ma solito a dilungarsi tanto da prolungare oltre misura le sedute del Senato. «Fo longo», commenta spesso il diarista.
Al De bene instituta re publica Morosini lavorò sino alla morte, senza portarlo a termine. L’unica copia che abbiamo è di mano del figlio Lorenzo, che la completò il 4 luglio 1512, e si trova in un codice cartaceo in folio di 108 carte numerate solo sul recto, ora alla biblioteca Marciana di Venezia. Il testo (pubblicato per la prima volta a cura di C. Finzi, Milano 1969) è molto disordinato. Morosini stendeva più redazioni dello stesso argomento fino a quando non otteneva un risultato che riteneva soddisfacente; talvolta troviamo due soluzioni diverse per lo stesso problema, segno che non era ancora giunto a formarsi un’opinione precisa. Probabilmente il figlio copiò tutti i testi e gli appunti del padre senza voler o saper fare una scelta e senza dare loro un ordine. Ciò non toglie che l’opera, per quanto formalmente imperfetta, sia di rilevante interesse per la storia del pensiero politico veneziano e italiano di quel tempo convulso.
Dotato tanto di una buona conoscenza dei classici quanto di una vasta esperienza politica, Morosini restò sempre ancorato alla realtà dei fatti, senza fughe verso l’immaginario. Significativa è la sua critica a Platone, il quale, secondo lui, ha disegnato un convento piuttosto che una città. Il testo di Morosini si svolge su due piani, distinti, ma complementari. Da un lato l’autore cerca di delineare il modello migliore possibile di repubblica cittadina; dall’altro tiene sempre presente la Repubblica di Venezia con le sue istituzioni. E se spesso resta nel solco delle idee correnti in Venezia, non mancano critiche anche dure, provocate da quanto non gli piace o non gli piace più nella sua città, soprattutto in relazione agli ultimi tempi e alle loro vicende. Come è noto, infatti, il secolo di Morosini vide sia la rapida espansione del dominio veneziano in terraferma, sia la serie di guerre nelle quali la Serenissima si trovò impegnata, sia i difficilissimi anni tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento con la calata degli stranieri in Italia e i conseguenti sconvolgimenti.
Un buon governo, secondo Morosini, deve articolarsi su tre istituti fondamentali: un ampio consiglio, un senato, un principe, che richiamano il Maggior Consiglio, il Pregadi e il doge di Venezia. Ma l’elemento fondamentale è il senato, composto da saggi anziani. Morosini diffida delle assemblee numerose e tumultuose, nelle quali i giovani sono spesso in maggioranza; non ama infatti il Maggior Consiglio della Serenissima. A differenza inoltre dell’uso della sua città, vuole che i senatori siano eletti o comunque nominati a vita; senza preoccupazioni elettorali potrebbero deliberare in piena libertà e coscienza. La politica è arte altissima, nobilissima, ma anche difficilissima, che può essere esercitata soltanto con quella saggezza che i giovani non possono ancora avere. I governanti devono conoscere lo Stato, curare gli interessi pubblici prima dei privati, occuparsi del bene comune e non di una parte. Per tutto questo sarà bene che vengano soprattutto dal gruppo intermedio dei cittadini, che anche per Morosini sono divisi in grandi, mediocri e minori. Altri organi sono ripresi ancora una volta dall’esperienza veneziana con l’eccezione dei censori, che però sarebbero stati istituiti anche a Venezia nel 1517.
Molte pagine dell’opera sono dedicate ai problemi economici e finanziari: commercio, agricoltura, artigianato e industria, imposte, dazi e altro ancora. Morosini non ama la guerra e scrive apertamente che deve essere evitata ogni volta che è possibile; discorso che trova pieno riscontro nel suo agire politico, sia negli interventi nei consigli sia nelle parti da lui proposte da solo o con altri. Tema importantissimo e ricorrente è quello della politica estera, che parte da un quesito fondamentale: se la città debba crearsi un impero. Morosini è fautore di una Venezia ancora e sempre proiettata su quel mare dal quale aveva tratto le sue forze e la sua prosperità. Non gli piace l’espansione in terraferma, che aveva portato la Repubblica a costituirsi un ampio dominio dall’Adda all’Isonzo. Né, il suo, è un atteggiamento soltanto dottrinale, perché anche in questo caso la sua attività politica, concretatasi nelle mozioni presentate o appoggiate nei consigli, dimostra la sua contrarietà alla terra e il suo favore per il mare. Venezia, a suo giudizio, si stava snaturando.
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