MOROSINI, Domenico
– Secondo dei cinque figli maschi di Barbone di Giustiniano Morosini ‘dalla sbarra’ (questo il contrassegno dello stemma della famiglia) e di Elisabetta di Lorenzo Giustinian, nacque a Venezia il 1° luglio 1508.
Mentre il nonno paterno Giustiniano risulta assorbito dall’impegno pubblico (provveditore dei cavalli leggeri nella perdita di Treviglio dell’aprile 1503, fu prigioniero dei francesi; successivamente savio di Terraferma, podestà e provveditore a Bergamo, capo del Consiglio dei dieci, bailo e provveditore a Corfù), suo figlio Barbone optò per l’esercizio della mercatura. Sicché, almeno dal 1499, soggiornò a lungo a Damasco come mercante. Scampato alla peste, il 15 luglio 1514 si recò in pellegrinaggio a Gerusalemme, rimanendovi sino al 21 agosto. Nella lista dei creditori del cottimo di Damasco del 1520, rifiutò tuttavia l’elezione a console in quella del 20 dicembre 1523. Preferì rimanere a Venezia, debitor alle raxon nove nel 1529 e nel 1533, ormai prossimo alla morte, proprietario d’una galea in Fiandra. I figli non seguirono le sue orme nei negozi e nei traffici. Il primogenito (il cui nome non risulta nelle fonti) morì annegato il 26 luglio 1522 alla Giudecca, dove era andato con i fratelli a fare il bagno. Vincenzo (1511-1588) fu capitano a Bergamo e podestà a Brescia, provveditore generale sopra il Lido, savio all’eresia, ambasciatore straordinario a Roma, procuratore di S. Marco de citra, riformatore allo Studio di Padova, nonché, nel 1578 e nel 1585, tra i destinatari di voti nelle elezioni dogali. Zaccaria (1512-1588) fu bailo e provveditore a Corfù, capitano a Bergamo, senatore. Lorenzo (1516-1594) fu dei Dodici eleggenti i Venticinque nelle elezioni dogali del luglio 1556.
Il 4 dicembre 1528 Morosini fu dei trenta giovani rimasti alla balla d’oro e quindi ingressati nel Maggior Consiglio prima dei 25 anni. Iniziò così anche per lui una carriera politica accompagnata da interessi culturali e dotte frequentazioni.
Anche se non risulta alcun suo titolo a stampa e non c’è traccia manoscritta di lui come autore, godette di un singolare credito intellettuale che lo collocò tra gli esponenti colti del patriziato. Studente a Padova senza – di proposito – laurearsi, agli inizi degli anni Trenta, insieme con Giovanni Brevio, Alvise Priuli, Giovanni Benedetto Lampridio e Trifone Gabriel, fu interlocutore attivo nella discussione sulla poesia e sui poeti ambientata nel 1533 nella dimora di Cosimo Gheri riprodotta nella Poetica di Bernardino Daniello (Venezia 1536). Doveva essere sua effettiva convinzione, frutto della sua formazione soprattutto speculativa, l’opinione da lui sostenuta nel dialogo, dove mostra di ritenere eccessivo lo spazio assegnato alla poesia, che, a suo avviso, s’appropria di molte cose di per sé pertinenti ai filosofi. Di nuovo è presentato dialogante – questa volta con l’ambasciatore spagnolo a Venezia Hurtado de Mendoza e con quello di Urbino Giovan Iacopo Leonardi, con Giovangiorgio Trissino, Pietro Aretino, Marcantonio Morosini, Daniele Barbaro, Federico Badoer, Domenico Venier – nel palazzo veneziano della moglie di Guidubaldo II Della Rovere Giulia da Varano, nel dialogo di Sperone Speroni Della fortuna, ambientato dopo l’infausto esito della spedizione spagnola d’Algeri dell’ottobre-novembre 1541. Fu nominato intanto, proprio l’11 novembre 1541, ufficiale alla Camera degli imprestiti, iniziando così una carriera politica avvalorata da un prestigio intellettuale riscontrabile anche in un ulteriore paio di dialoghi, del 1544-45, di Antonio Brucioli, in uno dei quali ragiona Della rugiada con Pierantonio Michiel, nell’altro Della tirannide con Alvise Bragadin.
Vincenzo Brusantini, nell’annoverarlo tra gli ingegni illustri nel canto XIII dell’Angelica innamorata (Venezia 1553, p. 357), lo dice «noto fin dove il sol spiega le chiome». A Morosini, «favorevole agli studiosi», Ottaviano Maggi dedicò il proprio volgarizzamento delle Epistole a Marco Bruto di Cicerone (ibid. 1556) e il tipografo Michele Tramezzino la Historia di Francia… recata in questa nostra lingua volgare di Paolo Emili (ibid. 1549); e a Morosini dedicò l’Averois compendium necessarium (ibid. 1552), tradotto dall’ebraico da Abramo di Balmes, lo scopritore della traduzione, Michelangelo Biondo. Elogiato da Bernardino Tomitano, proclamato eccellente da Cosimo Gheri, additato eminente da Niccolò Bon, fatto definire per bocca del conte Fortunato Martinengo «uomo divino» da parte di Antonfrancesco Doni nei Marmi (1928, I, p. 68), tante lodi dovevano avere un qualche fondamento, se Giovan Battista Benedetti indirizzò a Morosini lettere dissertanti di questioni geometriche e se Agostino Valier, oltre a ipotizzarlo autore di «scripta… quamplurima» per modestia non destinati alla stampa, lo ricordò lettore «philosophorum omnium», con particolare predilezione per s. Tommaso d’Aquino e Platone.
Il 22 dicembre 1542 fu eletto ambasciatore presso il re dei romani Ferdinando I. Ricevuta la commissione del 3 ottobre 1543, raggiunse Praga, dove fece un’ottima impressione al nunzio pontificio Girolamo Verallo, il quale – assicurando essere Morosini «homo dottissimo in philosophia et theologia» e «ottimo catholico et osservantissimo» della S. Sede «et de vita religiosissimo» –, non esitò, con lettera del 10 gennaio 1544 al cardinale Marcello Cervini, il futuro papa Marcello II, a chiedere che fosse autorizzato, anche solo verbalmente, alla lettura di libri luterani nonché assolto per averli letti in passato. Sempre al seguito del sovrano – a Spira, a Vienna, a Praga, a Worms, di nuovo a Praga e, infine, a Ratisbona, da dove, il 31 maggio 1546, inoltrò il suo ultimo dispaccio – Morosini da un lato informava delle tensioni politico-religiose, della minacciosa pressione turca, dall’altro ribadiva a Ferdinando l’animo della Serenissima determinata a conservare Marano, recuperata nel 1543.
Rientrato a Venezia col titolo, conferitogli da Ferdinando, di cavaliere, Morosini fu podestà di Verona nel 1547-48, savio di Terraferma ed eletto ambasciatore all’imperatore Carlo V l’8 agosto 1549. Istruito con la commissione del 12 aprile 1550, si portò rapidamente ad Augusta, dalla quale, il 3 maggio, spedì il suo primo dispaccio e – salvo una rapida puntata a Bruxelles il 22 e da lì a Spira in giugno e salvo il successivo spostamento all’inizio di maggio 1552 a Innsbruck – lì rimase fino al giugno 1552, quando la lasciò per Villach, dove ancora in maggio l’imperatore era riparato allo scoppio della ribellione di Maurizio di Sassonia. L’ambasciata di Morosini aveva in primo luogo carattere informativo sulla relativa tenuta dell’autorità imperiale in un momento critico. L’elettore di Treviri andava apertamente proclamando che «non vuol che spagnoli comandino alla Germania»; il luterano elettore di Brandeburgo pretendeva, comunque, per il figlio l’arcivescovato di Magdeburgo; l’arcivescovo di Brno protestava a gran voce contro una sentenza della Camera imperiale. Dall’altro canto non mancavano risvolti operativi, legati al contenzioso dei rapporti veneto-cesarei. Si trattasse di ormesini sequestrati a Liegi a Silvestro Morosini, nella proprietà dei quali egli andava reintegrato, o del richiamo, preteso da Venezia, dell’oratore cesareo in laguna Juan Hurtado de Mendoza, il quale, violando l’immunità ecclesiastica, era arrivato a riprendersi con la forza un siciliano dipendente dall’ambasciata nascostosi in un monastero. Ulteriore motivo d’attrito erano le molestie al confine friulano arrecate dal capitano di Gradisca Niccolò Della Torre, palesemente ostile alla Repubblica e, peraltro, forse proprio per questo, in credito di buon servitore degli Asburgo. Intanto Morosini era impressionato dalla lacerazione religiosa, che vedeva il cattolicesimo arretrare nei confronti dell’aggressività espansiva dei principi elettori luterani. Maturò l’intenzione di intervenire in prima persona componendo uno scritto antiprotestante. Il 21 agosto 1550, da Augusta, avvertì l’arcivescovo di Manfredonia Sebastiano Pighino in una lettera al cardinale Girolamo Dandini, di fatto il segretario di Stato durante papato di Giulio III, il quale aveva sospeso le dispense alla lettura di libri luterani concesse da Paolo III. Beneficiario di dispensa pure lui, Morosini chiedeva appunto, tramite Pighino, la grazia pontificia d’un rinnovo ad personam della libertà di lettura di quei libri che, per confutarli, dovrebbe leggere. Non risulta la licenza sia stata rinnovata, né che egli si sia effettivamente impegnato alla stesura d’un testo antiluterano. A Villach tra il 2 e il 7 luglio 1552, da lì tornò a Venezia, dove presentò la relazione al Senato.
Vi definiva l’Impero una repubblica di principi, sottolineava come l’imperatore ne fosse il capo senza autorità assoluta, una sorta di primus inter pares, cui competeva il giudizio sulle divergenze tra principi elettori e sulle appellazioni dei sudditi contro le sentenze di questi e spettava nelle diete la proposta iniziale e l’approvazione finale. Quanto ai «dispareri» sul versante religioso, Morosini manifestava un minimo di effettiva cognizione dei connotati delle «sette» che misconoscevano l’autorità papale. Accomunate dalla svalutazione del merito personale nelle opere, dall’attribuzione d’ogni opera buona esclusivamente alla grazia divina, dette «sette» – nei confronti delle quali Morosini non inveiva, ma preferiva informare – si differenziavano poi, laddove «i luterani dicono la messa in tedesco», mentre gli zwingliani – nella misura in cui si limitavano all’ascolto della predica e al canto di salmi – di fatto «non dicono messa». E se i primi – ancorché non in termini di transustanziazione – serbavano il sacrificio della messa, i secondi «negano il sacramento dell’ostia e calice». C’è poi una terza setta, quella degli anabattisti, a proposito della quale Morosini si limitava a dire che era la peggiore, quasi dovesse essere semplicemente sterminata senza un esame di merito della sua impostazione. Questo poteva valere solo per le prime due. In questo caso i «dispareri» religiosi sarebbero dovuti essere discussi nel concilio reiteratamente invocato nelle diete. Ma, a tal fine – Morosini aveva già fatto presente nei dispacci da Augusta – Trento non pareva la sede più idonea. Più opportuna appariva Worms o Colonia o qualche altro luogo della Germania che offrisse maggiori garanzie a quanti si erano staccati da Roma. In ogni caso Carlo V non era amato dai «germani»: diffusa l’avversione ai troppo onerosi prelievi, ai troppi carichi impositivi senza reimpiego in loco, generalizzata la reazione alla «superbia» spagnola che forzava a «vivere cattolicamente» e, nel contempo, era economicamente oppressiva ed esosa.
Riformatore allo Studio di Padova, con i colleghi Domenico Bollani, Pierfrancesco Contarini e Pietro Antonio Michiel provvide alla recinzione con un muro dell’Orto botanico. Successivamente fu dei Tre savi all’eresia, quando, il 3 maggio 1553, venne eletto dal Senato ambasciatore a Roma. Una nomina della quale si rallegrò il nunzio pontificio Ludovico Beccadelli. Questi, infatti, il 20 scrisse al cardinale Innocenzo Del Monte, che sarebbe dovuto essere lieto pure Giulio III: Morosini era «gentilhomo da bene e di bonissime lettere et costumi et molto stimato». La rappresentanza a Roma durò dall’ottobre 1553 all’inizio di settembre 1555.
Momento imbarazzante fu quando i cardinali inquisitori gli fecero intendere che a Venezia «molti christiani» provenienti dalla Spagna e dal Portogallo, di nazionalità ebraica nei paesi d’origine e forzati al cristianesimo, tornavano impunemente al giudaismo. La S. Sede pretendeva che il governo marciano procedesse con energia senza indulgenze e omissioni di vigilanza «in tal negocio tanto scandaloso». Per fortuna di Morosini, Beccadelli, interrogato all’inizio di febbraio 1555 dai cardinali deputati sopra la S. Inquisitione sull’effettivo atteggiamento del governo marciano nei confronti dell’Inquisizione stessa, assicurò che questa era favorita dal governo sia a Venezia sia nel Dominio. In tutta «conscientia» – avrebbe asserito Beccadelli, facendolo subito sapere a Morosini, il quale, a sua volta, lo comunicò ai capi del Consiglio dei dieci il 9 febbraio 1555 – la Repubblica è «di ottima, pia et giusta mente» e dà tutte le garanzie di «favorire la Inquisitione et fare giustitia come Sua Santità facesse». Purtroppo da Venezia né il nunzio Filippo Archito né l’uditore dell’Inquisizione confermarono un giudizio così lusinghiero. Sicché il 3 agosto 1555 Morosini dovette informare i capi del Consiglio dei dieci che i cardinali deputati si andavano lamentando perché in terra veneta l’Inquisizione non godeva della «debita diligenza et esecuzione». Ormai alla fine della permanenza romana, il 24 agosto, gli arrivò in casa il governatore di Roma Annibale Bozzuto, latore della pretesa d’estradare a Roma Pompeo Algieri, l’eretico pertinace arrestato a Padova in maggio. Morosini comunicò la richiesta a Venezia lo stesso giorno e dopo laboriose trattative il 14 marzo 1556 la Repubblica concesse il trasferimento dell’inquisito a Roma, dove, in agosto, Algieri fu arso a piazza Navona.
Morosini era tornato nel frattempo a Venezia, con addosso l’amarezza d’aver dovuto fronteggiare, a fine agosto 1555, l’ira del papa che gli aveva rinfacciato l’inquinante presenza nella classe dirigente marciana di individui sospettabili di simpatie ereticali. A suo modo, aveva tentato di reagire, ricordando all’esagitato Paolo IV il tradimento dell’apostolo Giuda: alla luce di questo era comprensibile che nel «numero grande de nobeli» veneziani possa esserci «alcuno di cattiva conscientia». Nel 1556 fu dei capi del Consiglio dei dieci e dei Savi del Consiglio, nel 1557 dei Savi all’eresia. Nel contempo continuò ad applicarsi allo studio, come si può evincere dal suo ricorrere, il 13 gennaio e il 30 agosto 1556, al prestito di codici della biblioteca di S. Marco.
Morì a Venezia il 9 gennaio 1558.
Fu il fratello Zaccaria a restituire, il 4 febbraio, «libros grecos» che gli erano stati concessi in lettura.
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