MORICI, Domenico
MORICI, Domenico. – Nacque a Rossano il 13 febbraio 1773 da Giuseppe, medico discendente da una famiglia approdata in Calabria dalla Spagna nel 1721, e da Margherita Russo.
Compiuti gli studi inferiori nella città natale, visse una brevissima esperienza nell’esercito del regno di Napoli, militando con il grado di caporale in un reggimento di stanza a Salerno. In seguito, spronato dai pressanti ammonimenti paterni, si recò a Napoli per intraprendere gli studi universitari, portati a termine nel 1798 con il conseguimento della laurea in ingegneria e architettura.
Di spiccati convincimenti liberali, fu, insieme col padre, sostenitore entusiasta della effimera Repubblica Partenopea (1799). Fuggito da Rossano in modo da sottrarsi alle persecuzioni seguite alla restaurazione borbonica, vi fece ritorno dopo la pace di Firenze (1801), imposta da Napoleone Bonaparte al re Ferdinando IV. Nel periodo successivo si trasferì a Napoli, ove esercitò, senza molta fortuna, la professione di ingegnere. Per contro, nel 1809 fu tra i primi classificati in un concorso per la nomina di alcuni ufficiali del Genio bandito dal nuovo re di Napoli Gioacchino Murat. Tre anni più tardi, prese parte all’infernale campagna di Russia (giugno 1812 - gennaio 1813) al seguito di Murat, nominato da Napoleone capo supremo della cavalleria francese: sebbene rimanesse vittima del congelamento del piede destro, combatté valorosamente in più di un’occasione, guadagnandosi la nomina a capitano del Genio. Rimase fedele a Murat anche quando questi, dopo alterne vicende, ebbe lanciato da Rimini (30 marzo 1815) un vibrante proclama nel quale invitava gli Italiani a lottare uniti per l’indipendenza: il 3 maggio 1815 partecipò così al decisivo e perdente scontro con le milizie austriache avvenuto a Tolentino. Dopo il rientro del re Ferdinando a Napoli (giugno 1815), pressato da gravi difficoltà economiche accettò l’inquadramento nell’esercito borbonico, dal quale però si dimise l’anno successivo, ottenendo, per concessione del sovrano, la metà della paga, l’onore dell’uniforme e il diritto di intervenire alle feste di corte.
Stabilitosi nuovamente a Napoli, sposò nel 1816 la giovane Raffaella dell’Aversano, dalla quale ebbe otto figli. Nel settembre 1820 fu eletto deputato al Parlamento monocamerale previsto dalla Costituzione (esemplata su quella spagnola del 1812) concessa il 6 luglio precedente dal re Ferdinando I sull’onda degli eventi seguiti alla sollevazione di alcuni reparti dell’esercito di stanza a Nola (2 luglio 1820).
Fu uno dei cinque deputati inviati alla Camera dalla provincia di Cosenza (che comprendeva anche il territorio di Rossano), al termine di un farraginoso meccanismo di elezione a triplo grado. Partecipò instancabilmente ai lavori della Camera, inaugurata il 1° ottobre 1820. Componente della Commissione parlamentare sulla Guerra, Marina e Affari Esteri, intervenne spesso in aula su questioni di ordine politico- militare, ma il suo discorso più pregnante si ebbe nel corso del dibattito sulle modifiche al testo costituzionale adottato. Nella tornata del 29 novembre 1820, discutendosi la questione del censo sull’elettorato passivo, osservò tra l’altro: «L’uomo che ha considerato l’intera sua nazione come sua patria, che ha fatto profonda riflessione su i rapporti da provincia a provincia, che non è straniero in niuna parte della nazione, che conosce i bisogni dei contadini come quelli del ministro,[...] è veramente degno di sedere tra i legislatori [...]. Il suo voto è sempre saggio; è sempre contro a troppo facili cangiamenti. Ma quest’uomo così pregevole in una adunanza di rappresentanti, non è certamente il solo benestante o il solo agricoltore [...]. Se non vi ha contraddizione che un possessore di fondi possa essere buon legislatore, molto meno ve n’è che possa esserlo un negoziante, [...] e molta ancora meno ve ne ha che possa essere un magistrato, un impiegato amministrativo, un militare di rango [...]. Signori! Troppo finora si è dato alle proprietà e alle ricchezze. Se si facesse più onore alla povertà virtuosa, si vedrebbero sorgere dei talenti straordinari, che oggi restano oscuri e vilipesi» (Atti del Parlamento, II, 1926, pp. 252 s.). Morici mostrava così di aver colto lucidamente quanto l’estrema ristrettezza delle basi sociali potesse essere esiziale per il nuovo regime.
Il 14 febbraio 1821, quando apparve manifesta la minaccia di un intervento esterno (sollecitato peraltro dallo stesso Ferdinando I, la cui concessione della Costituzione era stata forzata e insincera), chiese invano di essere dispensato dal mandato parlamentare per tornare a rivestire la divisa da ufficiale. Il 13 marzo, alla notizia dei primi rovesci subiti dal debole esercito napoletano, redasse, assieme ad altri quattro deputati, un vibrante proclama ove si invitava il popolo all’estrema resistenza contro le milizie austriache. Il 21 marzo 1821 accordò poi il proprio sostegno alla mozione, presentata da Giuseppe Poerio, nella quale era solennemente riaffermata la piena legittimità delle istituzioni costituzionali. Sciolto il Parlamento, Morici si diresse a Rossano, dove tentò senza successo di promuovere un ultima sollevazione rivoluzionaria. Negli anni successivi rimase nella propria città, strettamente sorvegliato dalla polizia. Tornato a Napoli assieme alla famiglia sul finire del 1831, prese immediatamente contatto con un comitato insurrezionale (nel quale militavano, tra gli altri, il frate laico francescano Angelo Peluso, Vito e Michele Porcaro, l’ufficiale Filippo Agresti e Francesco Vitale) che si proponeva, a quanto sembra, il ritorno alla Costituzione del 1820.
Confidando, in maniera del tutto irrealistica, in un’ampia sollevazione popolare, nella diserzione di interi reparti dell’esercito e, soprattutto, in uno sbarco di truppe francesi presso Manfredonia, i rivoluzionari diedero il via al moto (che, per la presenza di Peluso, passò alla storia come «congiura del monaco») nella notte fra il 18 e il 19 agosto 1832. Morici, che aveva il compito di muovere insieme con Agresti da Ariano in direzione della Puglia (proprio nella vana speranza di ricongiungersi ai francesi), ritrovandosi praticamente solo dovette ben presto rifugiarsi a S. Marco dei Cavoti, dove fu arrestato in settembre per essere tradotto nel carcere di S. Maria di Capua. I congiurati furono giudicati fra il luglio e il settembre 1833 dalla commissione militare di Capua: Morici, nella propria difesa, sostenne di avere una conoscenza superficiale degli altri accusati e che non fosse mai esistito un vero e proprio piano dell’impresa, ma fu ritenuto invece (in forza del suo passato e soprattutto della sua esperienza militare) uno dei capi della fallita sommossa. Il 9 settembre 1833 fu condannato alla pena dell’ergastolo, poi commutato dal Consiglio di Stato in trent’anni di lavori forzati. Colpito da un attacco di emottisi, fu ricoverato nell’ospedale del carcere di S. Francesco di Napoli.
Trasferito ancora a Capua (dove nel 1836 lo raggiunse la notizia della scomparsa dell’ancora giovane consorte) fu riportato, in seguito a un violento attacco apoplettico, a Napoli, dove morì nel 1840.
Fonti e Bibl.: Difesa del signor D. M. e di altri accusati di maestà scritta da G. Badolisani, Napoli 1833; Atti del Parlamento delle Due Sicilie 1820-21, editi sotto la direzione di A. Alberti, IVI, Bologna 1926-41, ad ind.; V. Visalli, I calabresi nel Risorgimento italiano. Storia documentata delle rivoluzioni calabresi dal 1799 al 1862, II, Torino 1893, p. 15; L. Ripoli, Rossano pel riscatto nazionale. Ricerche storiche sulle vicende politiche dal 1794 al 1870, I (1794-1840), Rossano 1907 (rist. ibid. 1989), pp. 48-166, passim; N. Nisco, Storia del reame di Napoli dal 1824 al 1860, II, Napoli 1908, pp. 24-26; G. Paladino, La congiura del “monaco” (1830-33), Napoli 1929, pp. 67-98; C. Spellanzon, Storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, II, Da dopo i moti del 1820-21 alla elezione di papa Pio IX (1846), Milano 1934, p. 515 s.; A. Gradilone, Storia di Rossano, Cosenza 1967, ad ind.; M. Fatica, La Calabria nell’età del Risorgimento, in Storia della Calabria moderna e contemporanea. Il lungo periodo, a cura di A. Placanica, Reggio Calabria 1992, pp. 516, 518; R. Sicilia - P.M. Trotta, Dalla riforma del cardinale Ruffo alla prima guerra mondiale, in Rossano. Storia, cultura, economia, a cura di F. Mazza, Soveria Mannelli 1996, pp. 143, 148, 175 s.