MORELLI, Domenico
Pittore, nato a Napoli il 7 luglio 1823, ivi morto il 13 agosto 1901. Fece i suoi studî nell'Accademia napoletana di belle arti, alla scuola del Guerra e del Mancinelli; e nell'Accademia stessa, dopo il 1870, fu ufficialmente maestro di pittura fino alla morte. Nell'Accademia napoletana che ebbe mediocrissimi pittori il M. fu il primo artista che avesse capacità di addurre gl'inveterati scolasticismi alle ragioni del suo spirito, di romperli e domarli con la nativa vigoria del suo linguaggio. Mentre egli studiava in Accademia, alcuni pittori di maggiore età (Giacinto Gigante, Filippo e Giuseppe Palizzi) praticavano in piena libertà tipi di pittura antiaccademici; e la mostra napoletana del '45 (nella quale i Palizzi spiegarono largamente la loro attività) diede motivo tra i giovani a una guerra apertamente dichiarata all'Accademia. Era guerra di parole. La pittura d'interni pittoreschi, di paesaggi, di genere animalista, ecc., avrebbe potuto avere un suo rigoglioso svolgimento senza interferire nella lenta storia della pittura accademica, senza turbarla, senza violarla. Fu il M., appunto, che volle decisamente addurre la rivolta antiaccademica nell'Accademia stessa. A quella sua azione di polemica immediata, egli era indotto dalla sua spontanea adesione al neonaturalismo palizziano e allo "studio del vero" che n'era il fondamento, e, nello stesso tempo, dalla sua intellettualistica repugnanza per ogni pittura che non fosse composizione figurata, munita d'una sua preventiva dignità poetica, extrapittorica. In questa sua repugnanza era implicita una convinta e invincibile adesione al "soggettismo" scaturito dallo spirito accademico; e la sua perenne preoccupazione di apparire "poeta del soggetto" non lo lasciò disciogliere mai da quel vincolo, per tutta la vita. Ciò ch'egli portò di nuovo nella pratica del soggettismo fu un'accentuata preoccupazione del vero e del verosimile, che si risolveva in ostentate ricerche di realismo figurativo, di convenzionalismi folkloristici e di "color locale"; e si deve a quella sua preoccupazione e a queste sue ricerche se gran parte della sua pittura sacra (nonostante talune felici innovazioni iconografiche e situazioni psicologiche profondamente sentite) non riesce ad assumere, per il gusto moderno, il carattere d'una "poesia di visionario".
Per quanto riguarda la sua visione della forma e la sua maniera di dipingere, il M. fu portato dalla natura a una saldezza di plasticità cromatica ch'era di schietta tradizione napoletana, e, nello stesso tempo, a una geniale feracità di invenzioni coloristiche squisite e rare, che fanno talvolta pensare alla sua discendenza dal Cavallino e dal De Mura. Ma gli parve di trovare la via del suo destino, quando a Parigi, nell'esposizione del 1855, scoprì, con l'Altamura e il Tivoli, la "pittura a macchia di colore", che, in sostanza, era di schietta scaturigine veneta cinquecentesca. Il concetto della "pittura a macchia" si realizzò nell'arte del M. traverso una forzata mortificazione dell'istintiva consistenza plastica formale e l'accanito sviluppo d'un colorismo di superficie, che si esortava, con destrezza di pennellata gustosa e suggestiva, in una luminosità intensa dilatata e astratta. Quando il M. ebbe nozione diretta dell'arte acclamata di Mariano Fortuny (ch'egli poté riconoscere come giovanile spirito fraterno), sentì definitivamente chiarite le ulteriori possibilità di espressioni coloristiche contenute nella sua concezione della pittura a macchia. Certo, egli non può essere definito un "fortunista"; ma riesce evidente che le sue frantumazioni di colori vividi e lievi in piena solarità di luce, la riduzione o eliminazione delle ombre, e il gusto sempre più vivo per la pennellata "a fior di tela" furono elementi di linguaggio in esatta assonanza con la maniera del Fortuny, e rigorosamente concomitanti a quel deliberato disfacimento della forma nella "macchia", a quella pittura larga e sommaria d'abbozzo, che il Morelli predilesse nell'ultimo ventennio della sua carriera.
Nessun pittore dell'Ottocento fu più del M. esaltato alle supreme vette dell'arte, e nessuno fu denigrato con tanta trasandata speditezza.
Il vero è che, per comprendere ciò che fu fondamentale nell'arte morelliana, è necessario collocarla nella tradizione accademica ottocentesca. La pittura accademica italiana non ebbe mai un artista più grande del M.; e, appunto perché grandemente dotato, egli era indotto a frantumare comunque i limiti del suo campo nativo. Li frantumò difatti; ma rimase tuttavia vincolato a ciò che aveva avuto capacità di distruggere e annientare. Le opere del M. sono a Roma (Gall. nazionale d'arte moderna), a Napoli (Gall. di Capodimonte, Gall. dell'Accademia di belle arti, Museo di S. Martino, Museo Filangieri, Cappella del Palazzo reale, collezioni Vetri, Ferrara, Casciaro, Tassinari, Chiarandà, ecc.), a Firenze (Uffizî e Pal. Pitti), a Milano (Casa dei musicisti), a Trieste (Museo Revoltella), ecc.
V. tavv. CLI-CLII.
Bibl.: D. Morelli ed E. Dalbono, La scuola di pittura napoletana nel secolo XIX, Bari 1915; P. Levi, D. M. nella vita e nell'arte, Torino 1906; V. Spinazzola, D. M., Milano 1925; A. Conti, D. M., Milano 1926; Thieme-Becker, Künstler-Lexikon, XXV, Lipsia 1931 (con bibl.).